sabato 14 gennaio 2012

L'Eden dei fumettisti immaginari? Si chiama Hicksville

Dal Secolo d'Italia del 14 gennaio 2012
Risparmiatevi la fatica di cercare Hicksville sugli atlanti, ammesso che possediate ancora tali reperti archeologici. Anche quella, minima, di affidarvi a Google Maps. Accontentatevi di sapere che è nascosto in un angolo remoto della Nuova Zelanda e no, non cercate immagini su internet. Non ne trovereste. Perché Hicksville non esiste e, del resto, potrebbe esistere davvero un luogo in cui tutti gli abitanti sono avidi lettori di fumetti, talmente appassionati da disquisire di Jack Kirby, il creatore dell’universo Marvel, come se si trattasse della locale star del rugby?  
Hicksville appartiene a quelle terre di nessuno che anche quando presentano riferimenti storici e indizi geografici verosimili rimangono invisibili ai più. Per poterle visitarle è sufficiente il bagaglio leggero della fantasia ma solo chi conserva puro il proprio cuore potrà tornarvi ogni volta che vorrà. I viaggiatori dell’immaginario prendano nota: ad Aquilonia, Avalon, Eldorado, Sherwood, Darkwood, Mompracem, Terra di Mezzo, Contea, Narnia (e chi più ne ha ne metta) aggiungano questo piccolo e sperduto paesino creato dal neozelandese Dylan Horrocks (Auckland, 1966) con tanto di mappa e glossario. Disegnatore tra i più apprezzati della sua generazione, Horrocks è diventato famoso proprio grazie a Hicksville – dapprima apparso nel 1998 in dieci numeri su Pickle e poi pubblicato in volume dieci anni fa dalla Black Eye – con cui ha vinto importanti premi internazionali del settore. Salutato come “libro dell’anno” del 2002 dalla rivista Comics Journal, è stato nominato tra i 100 libri più importanti del secolo.
Un successo talmente contagioso da farne un vero cult, la cui attesa riedizione è da pochi giorni disponibile nelle nostre librerie in un bel cartonato in bianco e nero (traduzione di Omar Martini, pp. 272, € 22) edito dalla Black Velvet, la stessa casa editrice che curò la prima edizione italiana. La nuova è arricchita dall’introduzione – anch’essa rigorosamente a fumetti – in cui l’autore racconta com’è nato il suo amore per il fumetto: dalla passione per Tintin, condivisa con un altro neozelandese illustre, quel Peter Jackson che ha realizzato la versione cinematografica de Il Signore degli Anelli, alla decisione di “avventurasi” nella più improbabile delle carriere, quella del fumettista o, per dirla con Hugo Pratt, del fumettaro.
E un fumettaro, o meglio un critico di fumetti è Leonard Batts, il protagonista (uno dei protagonisti) della graphic novel. Deciso a scrivere un articolo su Dick Burger, nuovo Re Mida dei comics, si reca nel suo paese d’origine: Hicksville, per l’appunto. Scoprendo che lì, malgrado le nuvole d’inchiostro rappresentino la principale fonte di discussione, nessuno vuole parlare dell’illustre conterraneo che ha fatto fortuna proprio con i suoi eroi d’inchiostro.
Un rancore alla cui base c’è un segreto inconfessabile. Qualcosa che ha a che fare con una misteriosa biblioteca “santuario” nascosta nel faro del paese: una fumetteria che custodisce tutte le inestimabili opere a fumetti scritte da autori, celebri quanto in alcuni casi insospettabili, nella più totale libertà creativa e mai pubblicate a causa dei condizionamenti più o meno espliciti dell’industria culturale. «Gli autori di fumetti – spiega il custode di tale tesoro a un incredulo Batts – sono venuti qui per duecento anni e solo quelli che se lo sono guadagnato di solito trovano la strada per arrivare fino a qui».
Wally Wood, papà grafico di Daredevil, morto suicida nel 1981, avrebbe affidato a tale biblioteca l’unica copia de Il regno della magia, l’epopea fantasy che diceva sempre di voler realizzare (e che invece non realizzò mai). Non solo. Avreste mai immaginato di trovarvi, accanto ad albi rarissimi di maestri del fumetto come Rodolphe Töpffer, Winsor McCay e Jack Ralph Cole, lavori a tiratura limitata di firme che, dall’alto della loro riconosciuta fama, avrebbero dato ben altra dignità all’ottava arte? Un esempio? Un fumetto di quarantotto pagine che Pablo Picasso fece con Federico García Lorca. E altri scritti da Gertrude Stein e letterati vari. Siamo nel regno della finzione, ovviamente, ma quello di Horrocks è un vero e proprio j’accuse nei confronti dell’onnivora macchina dell’intrattenimento globalizzato in cui l’arte viene macinata e “serializzata” e l’artista, per raggiungere il successo, deve sacrificare la propria libertà, accettare compromessi e prestarsi a confezionare il prodotto che il mercato è pronto a collocare. A differenza di romanzieri e registi, però, per il fumettista uscire dall’anonimato è ancora più difficile e il prezzo da pagare, se possibile, ancora più salato. Per tacere del fatto che, anche quando ha successo, la sudata popolarità difficilmente trova il riconoscimento dei sacerdoti della cultura ufficiale e continua a essere guardato con sospetto.
«La storia ufficiale del fumetto – spiega ancora il custode – è una storia di frustrazione. Di potenziale non realizzato, di artisti che non hanno mai avuto l’opportunità di realizzare il loro capolavoro, di storie che non vennero mai raccontate… oppure vennero epurate da supervisori dalla mentalità ristretta… un medium imprigionato in un ghetto e ignorato da innumerevoli persone che avrebbero potuto esaltarne le potenzialità…».
Per questo lo scrittore neozelandese ha voluto compiere un atto d’amore per il fumetto, per i suoi autori e i suoi miti, scrivendo una storia altra – «come sarebbe dovuta essere: i capolavori e i grandi romanzi a fumetti, le pure espressioni» – facendo di Hicksville la “patria” ideale di tutti gli amanti di quest’arte marginalizzata. Un luogo in cui non sono soltanto gli adolescenti a leggere fumetti. In cui disegnare vignette, strisce e comics è un’attività trattata non con sufficienza ma con rispetto. Incoraggiata, persino. In cui l’autoironica affermazione di Steve Englehart viene smentita. «La moneta di scambio nel mercato del fumetto – sostiene lo sceneggiatore di Batman – è la colpa, non il denaro». Tale passione, superata una certa soglia d’età, non deve diventare qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere, da rimuovere. Ad Hicksville i vecchi fumetti non finiscono nelle cantine, sigillati alla meno peggio in cartoni condannati a raccogliere polvere e umidità, ma fanno bella mostra negli scaffali nobili delle librerie degli abitanti di Hicksville. Sì, perché tutti ne possiedono almeno una collezione e amano parlarne, per la gioia degli autori.
«Più che il denaro – sosteneva Joe Simon, creatore con Kirby di Capitan America – un artista desidera essere amato». Non è così per tutti, evidentemente. Non lo è per Dick Burger che, senza anticipare troppo a chi leggerà il libro, per intraprendere la scorciatoia della fama, s’è macchiato di una colpa imperdonabile.
Per scoprirla, Horrocks ci conduce in un raffinato labirinto di trame e sottotrame, alternando la narrazione classica a quella di “fumetto nel fumetto”, seguendo le digressioni dei diversi attori, per ognuno dei quali Hicksville si rivela crocevia rigenerante. Il tono rimane quello lieve della favola. Quale miglior linguaggio narrativo per affrontare con naturalezza e semplicità le tematiche più spigolose del mito, demistificandolo e salvandone al tempo stesso la magia? Citando, in conclusione, le parole di George Herriman (Krazy Cat): «Vero o no… reale o irreale… fu una visione meravigliosa». L’incanto può ancora vincere sul disincanto, se solo ci tiriamo fuori dalla trappola della quotidianità.
Roberto Alfatti Appetiti

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