lunedì 23 gennaio 2012

Ora si può dire: Re Cecconi fu vittima due volte (di Annalisa Terranova)

Dal Secolo d'Italia del 23 gennaio 2011
Una carriera folgorante. Una morte tragica. Basta questo a spiegare il ricordo ancora vivo, e non solo nei tifosi laziali, di Luciano Re Cecconi? No, non basta. Il fatto è che l'«angelo biondo», la famosa mezz'ala della Lazio trionfatrice nel campionato del 1974 è l'icona di una squadra che nel culto delle sue memorie annovera anche morti ingiuste - Re Cecconi, Paparelli e da ultimo Gabriele Sandri. Lutti che cementano un'identità e che rafforzano la fede biancoceleste.
Così, nel 35esimo anniversario della morte di Re Cecconi uno stesso evento ha riunito due episodi celebrativi e allo stesso tempo destinati a far discutere: la presentazione del libro di Maurizio Martucci Non scherzo, Re Cecconi 1977 (Ediz. Eraclea) e la visione, per la prima volta in pubblico, del docu-film L'appello-Il caso Re Cecconi, realizzato per la Rai nel 1983 ma poi bloccato per un ricorso del gioielliere Bruno Tabocchini, l'uomo che il 18 gennaio del 1977 uccise il calciatore laziale asserendo di averlo scambiato per un rapinatore.
Il libro, come spiega lo stesso autore, scava in profondità in un episodio di cronaca nera liquidato troppo in fretta come l'epilogo fatale di una "bravata". I dubbi sulla ricostruzione della vicenda circolarono da subito, ma nel saggio-inchiesta di Maurizio Martucci c'è qualcosa di più, oltre alla distanza cronologica dagli eventi che consente di rimettere al posto giusto tutti i tasselli di una morte assurda, collocandola nel contesto di anni violenti e segnati da paura e irrazionalità: «Gigi Martini - spiega Martucci - amico fraterno di Cecco, ha avuto il coraggio e il merito di sollevare per primo il dubbio, dopo tanti anni di silenzi, dicendo di non credere affatto alla teoria dello scherzo beffardo. Al campo di Tor di Quinto chiamavano Re Cecconi "il saggio"; era uno schivo, introverso, non dava facilmente confidenza, tanto più agli estranei. Figuriamoci se poteva inscenare un pericolosissimo scherzo dentro una gioielleria, senza peraltro conoscere il proprietario, ipotizzando di trovarselo armato. Nel libro ricostruisco minuto dopo minuto la scena del crimine. Faccio emergere tutte le contradditorietà già nel processo, celebrato e chiuso in soli 18 giorni con l'assoluzione del gioielliere». La tesi dell'autore è chiara fin dal sottotitolo: «La verità calpestata». Si trattò non di uno scherzo (alla fine la frase "Questa è una rapina" che Re Cecconi avrebbe detto scatenando la reazione di Tabocchini è smentita da due testimoni su quattro tra i presenti al fatto) ma di un equivoco che stroncò la vita di un campione di 28 anni nel pieno della sua carriera. Un anno prima Tabocchini aveva subìto un vero tentativo di rapina e la circostanza l'aveva comprensibilmente scosso. Ma il libro non vuole rifare il processo, bensì dimostrare che Re Cecconi fu vittima due volte, una prima volta perché morì anche se non se l'era affatto andata a cercare e una seconda volta perché sulla sua figura si giocò anche una partita tutta politica. Nel libro Pistole e palloni il giornalista Guy Chiappaventi parlando della Lazio del 1974 ricorda che a Re Cecconi affibbiarono ben presto l'etichetta di «fascista». La sua colpa? La passione per il paracadutismo, vissuto come una sfida personale, come una prova di coraggio da parte di un personaggio che di politica non ne voleva sapere. Eppure proprio in quegli anni Pasolini, inascoltato, denunciava l'uso puramente nominalistico del termine «fascista», dietro il quale - spiegava - non c'era più alcuna sostanza poiché l'omologazione e la cultura di massa stavano cancellando ogni differenza ideologica.
Ma Re Cecconi venne comunque sopraffatto dal cliché. Nella vulgata era fascista e "spaccone", anche se la realtà della sua personalità fu tutt'altra. Un'ostilità che non riguardò solo la sua persona ma tutta la sua squadra, la Lazio del 1974, un gruppo di «pazzi, selvaggi e sentimentali», una formazione assistita spiritualemnte da un frate francescano, padre Lisandrini, che durante una partita a San Siro si alzò e levò le braccia al cielo invocando la nebbia per far finire la partita (cosa che puntualmente avvenne): «Sorella nebbia, scendi tra noi...». La squadra di Sergio Petrelli che vota per Almirante, la squadra di Gigi Martini che sarà deputato di An, la squadra di Pino Wilson "il baronetto". E il cliché si riverbera anche nel docu-film censurato L'appello-il caso Re Cecconi, dove compare lo scrittore Alberto Bevilacqua che commenta tutta la vicenda riprendendo un suo articolo sul Corriere infarcito di luoghi comuni sulla destra e sulle sue pulsioni violente. Per Bevilacqua il comportamento del gioielliere e del calciatore promanano da una stessa matrice di destra. Il primo vuole punire con la sopraffazione, il secondo, sempre con la sopraffazione, vuole spaventare. E ciò perché «una carezzevole ala littoria è rimata come tic in certo mondo sportivo, a metà degli anni Settanta anche tra i giocatori della Lazio».
E così l'ombra ideologica opera una tipizzazione dei personaggi di una tragedia che avrebbe meritato, soprattutto da parte di uno scrittore di spessore, ben altro approfondimento: il gioielliere pistolero, il calciatore fascistoide. Entrambi vittime della loro sottocultura di destra. È lungo questo crinale che l'antifascismo si coniuga, con la leggerezza che sempre accompagna la malafede, all'antilazialità. Una deriva cui in parte rimediò nel 2003 Walter Veltroni dedicando una via al giocatore biancoceleste dentro il parco di Villa Lais (unitamente all'intitolazione di una strada al capitano della Roma Agostino Di Bartolomei, che si uccise nel 1994).
Ecco perché scrivere di Luciano Re Cecconi ha ancora un senso, anche per spiegare che i lanci col paracadute, insieme all'amico Gigi Martini, ebbero a volte scopo di beneficenza. E per sottolineare, come fa il nipote di Re Cecconi, intervistato nel libro di Maurizio Martucci, che «il solco che divide l'eroe maldestro dall'eroe sfortunato è stato tracciato dal processo. Riscattarne la solidità morale non sarà utile solo alla sua memoria, ma potrà contribuire anche a ragionare con maggiore indipendenza e meno preconcetti».
Il docu-film Rai non fu però censurato per ragioni politiche ma perché i coniugi Tabocchini, appreso il fatto che si stava girando una pellicola sul caso Re Cecconi, ricorsero in tribunale per bloccare la messa in onda. L'ultimo atto della vicenda giudiziaria viene scritto con un verdetto della Cassazione del 1996 che rigetta la richiesta dei coniugi di distruggere il film e sottolinea che se Tabocchini viene rappresentato nella fiction come uomo di scarsa cultura e attaccato al denaro in ciò non vi è nulla di "trasfigurante" rispetto alla sua reale personalità. Eppure il film non viene ancora inserito nei palinsesti. L'augurio è che l'anniversario della morte di Luciano Re Cecconi possa aiutare il ricordo e la riflessione anche con l'aiuto del servizio pubblico.
Annalisa Terranova

1 commento:

Anonimo ha detto...


Sulla scena del delitto, era presente Pietro Ghedin. Calciatore e compagno di squadra di Re Cecconi. In tutti questi anni, non ho sentito una sola dichiarazione che aiutasse a capire ..