martedì 14 febbraio 2012

Quant'è bello il calcio all'italiana... (di Giovanni Tarantino)

Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 14 febbraio 2012
«Arrivai al Torino la stagione successiva alla scomparsa di Gigi Meroni. Mi diedero il suo posto negli spogliatoi, fui salutato come il suo possibile erede. Una situazione che, non fossi stato così giovane, immaturo e inconsapevole, sarebbe stata difficilmente sostenibile. E feci anch'io le mie bravate, come andare incontro a una squalifica pur di non perdere il concerto degli Stones. A proposito: io non ho mai capito la divisione fra Beatles e Rolling Stones, li ho sempre amati entrambi, e ancora oggi ci sono canzoni che mi si infilano sotto la pelle e non mi abbandonano più». In un contesto generale dominato da "neo-sacchiani" e "neo-zemaniani", esteti e ammiratori del «bel giuoco» offensivo, Emiliano Mondonico da Rivolta D'Adda è rimasto l'ultimo baluardo del calcio all'italiana.
 Le sue bravate, in gioventù, sono quelle sopra raccontate - raccolte nella prefazione scritta dal Mondo per il libro Gigi Meroni. Il ribelle granata di Marco Peroni e Riccardo Cecchetti -: era un giovane che abbandonava i ritiri per andare ai concerti.
Le sue bravate dei giorni nostri, ora che Mondonico ha quasi 65 anni, sono quelle venute alle cronache dopo lo storico Inter-Novara 0-1 di domenica scorsa. Il tecnico che fu amatissimo a Cremona, Torino, Bergamo, Firenze e non solo, espugna San Siro grazie a una prestazione d'altri tempi offerta dalla sua squadra. D'altri tempi relativamente al tipo di gioco espresso, quel calcio all'italiana tutto «catenaccio e contropiede». Due vocaboli che oggi agli occhi di molti, specie tra allenatori e addetti ai lavori, risultano quasi offensivi. «Abbiamo vinto col calcio di una volta - ha detto Mondonico - chiamiamolo contropiede, non ripartenza: in uno di questi abbiamo fatto gol, altri li abbiamo sbagliati. Il calcio è semplice, più semplice di come tanti vogliono farlo passare. E fare una gara tattica contro una squadra più forte non significa fare catenaccio».
Già, «non chiamiamolo ripartenza». Non sappiamo se Emiliano Mondonico si sia mai confrontato con la lettura de L'invasione dell'Ultracalcio, un libro del sociologo Pippo Russo del 2005. Analizzando «l'anatomia di uno sport mutante», Russo notava quanto, tra i cambiamenti del calcio moderno, fosse rilevante l'utilizzo di una nuova lingua che stava sostituendo vocaboli ritenuti superati, come «contropiede», sostituendoli con altri di nuova concezione, tipo «ripartenze». «Senza che ne prendessimo coscienza - spiegava Russo - una neo-lingua si è diffusa nel nostro modo di parlare di calcio e di "parlare calcio", assumendone il dominio. Per funzionare davvero ogni strategia d'innovazione ha bisogno di parole nuove, come di moneta circolante che metta immediatamente fuori gioco la vecchia divisa». Così ci siamo sorbiti abusi di intensità, pressing, linee difensive. «Ma la più insopportabile invenzione - sosteneva Russo - che la neo-lingua calcistica abbia prodotto è quella della ripartenza. Un termine fortemente venato di ideologismo, che ha sostituito il più familiare contropiede, ripudiando il capitale semantico che esso evoca. Il lavorio simbolico e linguistico che sta dietro al passaggio da contropiede a ripartenza è tutto da analizzare, perché meglio di ogni altro rappresenta la bizzarria di certo zelo innovatore». Tra i primi ad accorgersene l'ex tecnico dell'Inter Gigi Simoni, che qualche anno fa polemizzò con un giornalista: «Quando allenavo l'Inter in molti mi davano del "catenacciaro". Oggi tutti esaltano le ripartenze della Roma di Spalletti». A ogni modo nelle conclusioni cui giungeva Pippo Russo «per fortuna, il contropiede sopravvive sul campo». Segno dei tempi, forse il termine catenaccio era ancora in voga nell'88 quando l'Atalanta, con Stromberg e Nicolini e una buona dose di contropiedi, la spuntò sul Milan di Sacchi. Quella volta, a dire di Mondonico, «gli indiani sconfissero i cowboy». Anche in quel caso una provinciale ebbe la meglio su una grande. Sneijder aveva solo 4 anni e l'olandese che quella volta provò a risolvere la gara da solo era Van Basten. In quell'occasione la Domenica sportiva parlò «di un esorcista che aveva annientato il diavolo», Emiliano Mondonico. Sempre lui. A fine gara, alla domanda di Franco Costa, «Mondonico sei un esorcista o un mago?», lui rispose: «Né l'uno, nell'altro. Solo uno che fa questo lavoro e in questo caso è stato fortunato». Una risposta dal tono umile che lo ha sempre contraddistinto.
E dire che Mondonico è uno che ha sempre saputo soffrire a bordo campo, con le sue smorfie a Inter-Novara o alzando una sedia, imprecazione contro la mala sorte, in una finale di Coppa Uefa Ajax-Torino. E adesso un'altra bravata: battere l'Inter allenando l'ultima in classifica. L'Inter non è certo l'avversario più pericoloso che ha sconfitto nella sua vita. Per la salvezza, invece, la lotta è dura. Certo è che con la gara di domenica il Novara di Mondonico ha conferito nuova dignità al calcio all'italiana. «Mi piace guardare il Barcellona - afferma l'allenatore - ma la partita del Novara a San Siro è stata incredibile dal punto di vista tattico. L'Inter ha tentato di vincere in tutte le maniere: la differenza è che noi abbiamo concretizzato. Ci siamo difesi perché più deboli, abbiamo fatto gol e anche con un po' di fortuna abbiamo vinto. Siamo stati un vero muro di gomma, abbiamo vinto il Festival di Sanremo: capita di partecipare a Sanremo e vincerlo. Noi abbiamo vinto. Per me il calcio comincia e finisce qui». Dove Davide può battere Golia. È proprio questa la bellezza del calcio.
Giovanni Tarantino

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