domenica 11 marzo 2012

"Più alto del mare" di Francesca Melandri: l'inganno della rivoluzione dietro le sbarre

Dal Secolo d'Italia di domenica 11 marzo 2012
«Adesso almeno so dov’è». Un figlio latitante è una spina nel cuore. Al punto che persino la notizia dell’arresto può dare un momentaneo sollievo. Fino alla formulazione dei capi d’imputazione: tre omicidi, tre “esecuzioni”. Non occorre attendere la sentenza. «In quel momento Emilia iniziò a morire», registra con stile chirurgico Francesca Melandri. Lasciato l’Alto Adige, sfondo del fortunato esordio narrativo di Eva dorme, la scrittrice romana affronta un altro nodo irrisolto della nostra storia: la lotta armata. Lo fa nel suo secondo romanzo – Più alto del mare (Rizzoli, pp. 220, € 17) – da un punto di vista inedito quanto spiazzante: quello dei familiari dei terroristi. La memorialistica, al riguardo, difficilmente può offrire novità. Per quanto le (auto)biografie possano arricchirsi di particolari pruriginosi, finiscono per riprodurre il solito cliché: autoassolutorie o contrite che siano, pongono al centro della scena – e talvolta in cattedra – i terroristi.  
Solo negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta anche ai parenti delle vittime, privati del diritto a un’esistenza serena. Marco Tomatis, nel suo bel romanzo Le cose che non sai di me (Fanucci, 2009), affida la voce narrante a Simone, figlio di un poliziotto ammazzato da un terrorista. Altri parenti si sono presi la briga di scriverne in prima persona. Silvia Giralucci aveva tre anni quando, il 17 giugno del 1974, un commando Br assassinò il padre Graziano. L’inferno sono gli altri. Cercando mio padre, vittima delle Br, nella memoria divisa degli anni Settanta (Mondadori, 2011) è il titolo di questa “ricerca”.
Nel romanzo della Melandri chi non ha smesso di cercare il figlio terrorista è Paolo, ex professore. Non c’è incontro, nel carcere che ricorda l’Asinara, in cui non avverta quella «familiare sensazione di sgomento, sollievo e dolore di quanto inestirpabile fosse l’amore che ancora provava». Con lui attraversiamo la breve eppur abissale distanza che dal mondo libero ci conduce “al di qua” delle sbarre. Entriamo nelle burocratiche dinamiche delle perquisizioni, con i parenti dei terroristi alle prese con agenti di custodia a volte cortesi ed altre brutali. Girachiavi, magazzinieri di carne umana, servi del sistema, come li chiamano con disprezzo i terroristi: «gente magari corretta e perfino istruita ma che di te vedeva soltanto la divisa». Sotto le divise, però, ci sono uomini.
L’autrice, al riguardo, è inflessibile. Non cede alla tentazione di stabilire chi siano i buoni e chi i cattivi. Meno indulgente è Paolo, anche con se stesso. Lui aveva insegnato al figlio a non accontentarsi del «mondo così com’è, a volerlo più equo». No, non c’era stata nessuna rivoluzione. Parola altisonante, quest’ultima, «che non è brutta in sé – spiega Paolo – perché, quando alla parola corrisponde la cosa, si sta facendo la storia. Nell’Italia del 1979, per quanto la parola rivoluzione fosse scritta sui muri in modo ossessivo, la cosa non c’era. La gente non aveva imbracciato i forconi, gli elettori non avevano smesso di votare, i cittadini non stavano dando fuoco al parlamento».
«E poi – continua Paolo – com’erano brutte, le loro parole! Attenzionare, compartimentarsi, autofinanziamento, proletariato. La miseria di quel linguaggio. La bruttezza. L’autoinganno». Sembra di risentire Luciano Bianciardi, trascinato controvoglia in un corteo, tuonare contro i manifestanti: «Ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione».
Luisa non è istruita, è una contadina intelligente quanto basta per governare da sola fattoria e famiglia senza il marito, un “comune” recluso nello stesso penitenziario. Il maestrale bloccherà entrambi i visitatori sull’Isola, costringendoli a guardare oltre le rispettive “prigionie”. Perché, come scrive l’autrice, non c’è muro più alto del mare. Ma non c’è dolore che l’amore non possa superare.
Roberto Alfatti Appetiti

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