martedì 3 aprile 2012

Con Chinaglia muore un po' anche la Lazio (di Annalisa Terranova)

Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia del 3 aprile 2012

Uno dei più grandi attaccanti del calcio italiano, ricordiamolo così. Lo dice Pino Wilson, il capitano, il baronetto, e piange. Ma su Giorgio Chinaglia, su Giorgione, l'idolo dei laziali da due giorni in lutto, pesa ancora tutto intero un non detto, un pregiudizio, una certa carsica intolleranza verso quel suo carattere esagerato, verso i suoi sogni di gloria (lui, figlio di italiani emigrati a Cardiff), verso i suoi fallimenti. Un eroe per i tifosi, un latitante per lo Stato italiano. Comunque un campione. Come se tutto questo bastasse a oscurare il suo modo di giocare: potenza e determinazione. E il goal. Tanti goal. Tra cui il rigore segnato contro il Foggia, il 12 maggio del 1974, che consegna alla Lazio il primo scudetto della sua storia. Realizzato con calma, senza apparente tensione. «Tanto ero sicuro che la Lazio avrebbe preso lo scudetto».
Un mito, ma un mito controverso, eppure tanto radicato nel cuore dei laziali da far gridare convintamente alla curva Nord: «Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia».
"Mi piaceva Almirante"
Perché lui era il "fascista" di una squadra guascona intrisa di trasgressione, ribollente di indisciplina, straripante di arditismo. «Nel 1972 - scrive Guy Chiappaventi nel suo "Pistole e palloni. Gli anni Settanta nel racconto della Lazio campione d'Italia" - come il compagno-nemico Gigi Martini, Giorgio ha detto di votare per Almirante e il Movimento sociale. La sua sincerità come al solito l'ha pagata cara. A Firenze gli ultrà viola della curva Fiesole hanno accolto Chinaglia con un grido solo: Fascista, fascista. ‘Io non ero fascista, insomma con Mussolini e quelle cose lì non c'entravo niente. Di politica non ci ho mai capito nulla, non mi è mai interessato niente, destra, sinistra o centro per me erano la stessa cosa. Ma mi piaceva Giorgio Almirante: poco politicante, così fuori dagli schemi. Un po' tutta la mia Lazio, se vuoi, aveva quello spirito: forte, aggressiva, sfacciata. E, soprattutto, fuori dal Palazzo». Una Lazio che solo Maestrelli sapeva domare, che solo il Mister era in grado di tenere in pugno, lanciandola verso una mèta fino a quel momento neanche sognata. «Sì - diceva Chinaglia - Tommaso per me è stato un padre. Mi ha voluto bene come se fossi figlio suo. Non lo so il perché, perché scelse proprio me in quel gruppo. Per me era un punto di riferimento, un rifugio. Passavo tutte le sere a casa sua, qualche volta ci restavo anche a dormire. Pensavamo che la nostra storia professionale non potesse e non dovesse mai dividersi». Sarà proprio Maestrelli a correre in Germania per calmare Chinaglia dopo lo "storico" vaffa a Valcareggi che richiama Long Jhon in panchina. È così che nasce il labiale nel calcio tv.
Pazzo per il football
«Giorgione - ha scritto su "Repubblica" Antonio Dipollina - si sente accerchiato, vittima di mille complotti orditi da quelli belli, ricchi e non ingobbiti delle grandi squadre del Nord. Alla sostituzione esce caracollando, rivolge un gesto di ripulsa col braccio al Ct Valcareggi e alla panchina tutta e in qualche modo, dalle labbra, in tv si intuisce il vaffa che sgorga spontaneo». Maestrelli arriva e consiglia le scuse. Chinaglia non ci pensa proprio: «Non mi dica che devo farlo per la Lazio perché la Lazio qui non è stata rispettata dall'inizio. Dovevamo essere in sette-otto e invece siamo in tre, due fanno panchina e io vengo sostituito». Si chiude così l'avventura con la Nazionale. L'anno dopo anche quella con la grande Lazio: dopo duecentonove partite e novantotto goal segnati con la maglia biancoceleste, Giorgio si fa convincere dalla moglie ad andare a giocare negli Stati Uniti con il Cosmos di Pelè, Carlos Alberto e Franz Beckenbauer. Nel Cosmos giocherà 213 partite segnando 193 reti, vincendo per cinque volte la classifica dei cannonieri e per quattro volte il titolo della Lega Americana. Ma il cuore batte sempre per la Lazio. La Lazio che era stata una squadra di «pazzi, selvaggi, sentimentali». È ancora Chiappaventi che la descrive così: «Simpatizzanti missini, pistoleri e paracadutisti, giocatori d'azzardo e ballerini di night club. Una squadra divisa in clan, con due spogliatoi: e se qualcuno entrava nella stanza sbagliata poteva trovarsi un vetro di bottiglia sotto la gola. Durante la settimana le partitelle d'allenamento erano più dure delle sfide di campionato, in campo volavano calci e schiaffi e si giocava finché non faceva buio perché nessuno voleva perdere. Ma la domenica, come i moschettieri, quei giocatori erano uno per tutti e tutti per uno: erano la Lazio».
E mentre la Lazio si barcamena, anni dopo, in serie B, nella mente di Chinaglia prende corpo l'idea di far divenire realtà il suo osgno di sempre: comprare la società. Un sogno che realizza nel 1982 rilevando la squadra dalle mani di Gian Chiarion Casoni.
«Sono deluso umanamente»
«Il suo arrivo - scrive Stefano Greco nel libro "Tutti gli uomini (e una donna) che hanno fatto grande la SS Lazio" - porta un entusiasmo che non si ricordava dai tempi dello scudetto, ma la realtà si dimostra ben più dura di quanto immaginasse, e il sogno di ripetere da presidente quello che ha fatto da calciatore si infrange ben presto a causa di scelte tecniche sbagliate e di una conduzione societaria troppo allegra. Chinaglia lascia il 13 febbraio del 1986 passando le consegne al vicepresidente Franco Chimenti. Incontrando i giornalisti, all'aeroporto di Fiumicino, fa un bilancio amaro: «Se qualcuno mi avesse anticipato che poteva arrivare questo giorno non gli avrei mai creduto, ma purtroppo è arrivato. Adesso sono deluso, soprattutto a livello umano... Certo, di errori ne ho commessi tanti e non mi sento di farne l'elenco, anche se quello determinante è stato la retrocessione.... Ritengo di avere gestito la società nel modo migliore possibile, anche quando mi accusavano di essere più tifoso che presidente. Per me le due cose non sono incompatibili, ma anzi necessariamente complementari... Io voglio molto bene, forse troppo, a questa società e questo è stato sempre il mio unico scopo, l'unico ideale che ha orientato le mie decisioni».
Avventure politiche
Nel 1990, a 43 anni, ormai un ex illustre, Chinaglia si lascia ingaggiare da una squadra abuzzese, il Villa San Sebastiano. Nello stesso anno, si candida alle elezioni regionali del Lazio con la Dc. «Non ero democristiano - spiegherà poi - mi coinvolsero alcuni amici». Nel 2000, l'ingresso nella nuova società che ha acquistato il Foggia. Nel 2006, il coinvolgimento in un'inchiesta di riciclaggio. Nel 2008 il mandato di arresto. Poi cadrà l'accusa di avere avuto relazioni con la camorra. Il resto - diceva ai giornalisti - lo seguono i miei avvocati. Attendeva fiducioso di poter tornare in Italia, dai suoi amici, dalla sua Lazio. Ma il declino del calcio lo rendeva triste: «Non è come una volta, il pallone è in crisi. Troppi soldi e poco amore. Procuratori, spalmature degli ingaggi, società per azioni, la Borsa. Cose che i tifosi non capiscono, creano disaffezione. E i calciatori sono troppo attaccati allo stipendio, ai miei tempi si firmava il contratto anno per anno. E dovevi gaudagnarti la pagnotta, se giocavi male rischiavi di passare in pochi mesi dalla Lazio al Canicattì. Ma è tutto il sistema che è sballato. È un mondo malato». Finché il cuore, quel cuore biancoceleste, ha deciso che l'avventura era finita.

Annalisa Terranova

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