domenica 29 aprile 2012

Hoover, il volto ambiguo dell'America

Dal Secolo d'Italia del 29 aprile 2012
Pensionato l’eroe, l’immaginario collettivo è diventato terreno di conquista per artisti, attori e sportivi. Il divo seduce, alimenta curiosità, fabbrica suggestioni. Difficile, per un politico, tentare la scalata al mito. Per un burocrate, poi, l’impresa è pressoché impossibile. Il ruolo lo relega alla scrivania, lo destina alle scartoffie. Eppure è proprio un “mezze maniche” l’icona per eccellenza di un paese così ricco di democrazia da sentire l’esigenza di esportarne un po’. Non sempre a buon prezzo.



 
Chi, meglio di John Edgar Hoover, machiavellico direttore del Federal Bureau of Investigation, il servizio investigativo più famoso del mondo, può rappresentare tali contraddizioni? La sicurezza nazionale è in pericolo? Basta comprimere i diritti e calpestare la più elementare privacy, compresa quella dei presidenti degli Stati Uniti – in quarantotto anni di direzione, dal 1924 al 1972, ne ha visti passare ben otto – che l’hanno più temuto che amato. Dossier confidenziali raccolti da una micidiale rete di informatori, intercettazioni telefoniche, microspie, monitoraggio costante delle vite private altrui con pruriginosa attenzione alle attività sessuali. Un unico credo: «L’informazione è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919 e da allora la nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e custodirla». Per ognuno dei potenziali nemici c’erano Segret Files in abbondanza. Oggi la chiameremmo macchina del fango. Una macchina che Hoover teneva parcheggiata in garage senza trascurare di sventolarne le chiavi, all’occorrenza, sotto il naso dei potenti. Un archivio che gli consentiva di muoversi con disinvoltura tra le maglie della legge e che lo aveva reso, di fatto, inamovibile. Non è un caso, del resto, se dopo la sua morte e i relativi funerali di Stato, il presidente Richard Nixon si sia affrettato a limitare la durata del mandato dei direttori a dieci anni.
Patriota o spregiudicato manipolatore? Paladino della democrazia o cinico uomo di potere? A distanza di quarant’anni dalla morte, provocata da un arresto cardiaco il 2 maggio del 1972 all’età di settantasette anni, una risposta definitiva non è ancora stata data. Il tempo è passato ma non ha rivelato abbastanza. Il mistero ha mescolato indissolubilmente bene e male e, per quanto macchiato dalle accuse più infamanti – dai metodi eccessivamente “spiccioli”  alla negligenza negli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King – la sede dell’Fbi di Washington porta ancora il suo nome. Il volto, da gennaio di quest’anno, è quello, decisamente più affascinante dell’originale, di Leonardo Di Caprio, ineccepibile in J. Edgar, il recente film di Clint Eastwood. Hoover, probabilmente, avrebbe continuato a preferire lo James Stewart dell’agiografico The FBI Story (titolo italiano: Sono un agente FBI), pellicola del 1959 talmente apprezzata dal direttore dall’aver addirittura concesso un cameo nel ruolo di se stesso. Nel film di Mervyn LeRoy, Stewart – la leggenda vuole che l’attore sia stato scelto proprio da Hoover – è il fedele ritratto dell’agente speciale così come il direttore l’aveva forgiato: disciplinato e coraggioso, competente e persino elegante, il perfetto eroe americano, il superpoliziotto che combatte malavita e comunisti senza togliersi la cravatta e gli occhiali a specchio. Clint Eastwood, invece, è stato meno benevolo, tornando a mettere al centro della scena la presunta omosessualità di Hoover, peraltro mai dimostrata. Le questioni “politiche” vengono abilmente eluse senza che il regista prenda posizione. Invece di rileggere criticamente la storia americana del Novecento, Eastwood ci racconta il drammone intimista di un uomo solitario, diffidente e sessualmente represso, incapace di amare le donne e innamorato del suo più stretto collaboratore. Un’occasione persa per fare luce sui tanti episodi in cui Hoover aveva guardato in faccia la storia, attraversandola da protagonista e guadagnandosi la fama di eroe nazionale per aver colto successi significativi: dalla guerra al gangsterismo all’eliminazione dei capi della criminalità organizzata per arrivare alla soluzione dei “casi” più difficili grazie all’uso dei mezzi scientifici più evoluti dell’epoca. Per fare ciò aveva rivoluzionato l’FBI introducendo severi criteri di selezione e formazione del personale e rendendolo uno strumento di incredibile efficacia investigativa. «Quando la moralità è in declino e i buoni non agiscono, il male si diffonde». Per questo aveva deciso di dare un esercito ai buoni, di bonificare il male ovunque si annidasse e, per non lasciare niente di intentato, di bonificare tutto.
Di Caprio lo ha ricordato così: «Un genio che ha inventato la polizia federale e che era il terrore dei fuorilegge, cresciuto nel periodo della rivoluzione bolscevica e che vedeva comunisti dappertutto, che non seppe riconoscere che il movimento per i diritti civili avrebbe cambiato l’America per il meglio e che alla fine divenne un dinosauro politico». Sì, anche le icone invecchiano, ma non muoiono. E Hoover divide ancora credenti e non credenti. Il più potente di tutti è, ancora oggi, il più chiacchierato e, forse, il più temuto. Invisibile e ingombrante, esattamente com’era quando giocava con i suoi bersagli restando dietro la scrivania. Il suo cruccio maggiore, questo. Non essere un vero agente, non partecipare alle azioni, non essere sul campo. Fiero e al tempo stesso geloso dei suoi supereroi, al punto di declassare, dopo averlo coperto di onorificenze, l’agente speciale Melvin Purvis, colui che aveva eliminato il nemico pubblico numero uno: John Dillinger. Affinché fosse chiaro a tutti che l’FBI era solo lui, Hoover.
Roberto Alfatti Appetiti

1 commento:

lev balczo ha detto...

credo che la migliore visione sia storica che metafisica del personaggio hoover sia in underworld di delillo