lunedì 30 luglio 2012

E. B. Clucher, lo chiamavano il padre di Trinità

Dal Secolo d'Italia dell'8 luglio 2012
L'idea delle scazzottate gli era venuta assistendo alle partite di rugby del figlio Marco Tullio. Pugni al posto delle pistole, lasciate a riposare nelle fondine. Risate piuttosto che gratuiti spargimenti di sangue, il tutto condito da un taglio narrativo fumettistico. Più ironia e meno violenza.
Questa era, in sintesi, la sua ricetta per rivitalizzare un genere, il western all'italiana, che sembrava aver esaurito la sua vena e ormai destinato a una stanca ripetitività. I produttori avevano sgranato gli occhi di fronte a una proposta così bizzarra. Alla fine a scucire il grano necessario era stato Italo Zingarelli ma forse neanche lui avrebbe immaginato che quel film sarebbe diventato un cult-movie internazionale, il film italiano più visto di tutti i tempi. Ben altra lungimiranza mostrarono Girotti e Pedersoli - meglio noti come Terence Hill e Bud Spencer - che si affrettarono a proporsi per un ruolo che avrebbe aperto loro l'autostrada del successo.
La pellicola in questione è "Lo chiamavano Trinità", l'anno è il 1970 e il regista è E. B. Clucher, fedele almeno in questo alla tradizionale americanizzazione dei nomi nell'italianissimo Spaghetti western. Clucher, tuttavia, era il cognome della madre dell'italiano - o, meglio, romano - Enzo Barboni. Il prossimo 10 luglio avrebbe compiuto novant'anni - era nato nella Capitale nel 1922 - e invece è scomparso il 23 giugno del 2002, giusto dieci anni fa. Tanto sono ancora celebrati i suoi film, quanto poco viene ricordato uno dei registi più importanti nella storia del nostro cinema.
Gli inizi all'Istituto Luce
Corrispondente di guerra per l'Istituto Luce nel 1942, s'era formato come operatore alla macchina e curatore della fotografia con il fratello Leonida e poi con Sergio Corbucci, firmando con quest'ultimo una fortuna serie di commedie. Una lunga gavetta da artigiano della macchina da presa culminata con l'esordio alla regia nel 1969 con "Ciakmull-L'uomo della vendetta", prove generali per il successo dell'anno successivo e i sequel a venire. "Lo chiamavano Trinità", infatti, sarà campione d'incassi nella stagione 1970/1971, un feeling con il pubblico che si ripeterà a ogni apparizione televisiva, anche a distanza di decenni, riunendo davanti al piccolo schermo le famiglie, dai più piccoli ai più grandi. Trinità (Terence Hill) non è un giustiziere né un vero fuorilegge, è sì un pistolero ma tutt'altro che nel solco classico degli eroi comunemente intesi. Pigro fino all'indolenza, Trinità sfrutta la vocazione alle risse del fratello Bambino, ovvero Bud Spencer. Mano destra del diavolo il primo, mano sinistra il secondo. Diretta per un quindicennio da Barboni, nasce e si radica nell'immaginario collettivo una coppia che, cambiando pelle e copioni, si dimostrerà affiatata e duratura come poche.
«Quando questi due ragazzi fanno film in coppia con un'uniforme addosso, qualunque essa sia, da pompieri, da preti o da soldati stanno bene - ebbe a spiegare Barboni - perché si può farne due personaggi che il pubblico medio, quello ancora incantato dal fascino della libertà, si sogna. Basta infilarli in un costume che tanti vorrebbero avere».
Senza mai rinnegare il genere, Barboni smise di fare film in coppia, «perché inevitabilmente ci si ripete e non diventa più interessante, per chi lo vede e per chi lo fa» e si mise a fare altro. Del 1982 è il suo "Ciao nemico", una commedia bellica con Johnny Dorelli e Giuliano Gemma, quest'ultimo un altro attore di punta nella cinematografia di Barboni. Prima di allora stretto nel ruolo di Ringo - sguardo stretto, cappello e pistola - viene reinventato dal regista. «Giuliano è moderno, forse l'unico che abbiamo, è un atleta con un carattere d'oro, professionista al massimo grado e antidivo per eccellenza». Il film, esilarante susseguirsi di gag, oggi potrebbe quasi essere definito "revisionista". Come altro definire una storia che vede soldati italiani e angloamericani far finta di aver firmato una tregua nella primavera del 1943? A unirli è il Ponte dei Quattro Cesari, un ponte immaginario in una Sicilia ricostruita nella più economica Roccasecca. Il ponte era una meraviglia di architettura romana, sia pure realizzato in cartapesta. Fatto salvo in un panorama di distruzioni, il ponte va distrutto. Questa la missione ricevuta, per motivi diversi e opposti, dai militari americani e italiani. Che finiranno per fare amicizia e, naturalmente, soprassedere, per la gioia degli abitanti del luogo. E del pubblico, stanco delle vecchie divisioni ideologiche. Il lungo, lunghissimo secondo dopoguerra del Novecento andava finalmente archiviato e Barboni lo fece a modo suo con una parodia e un inno alla vita e all'amicizia.
Roberto Alfatti Appetiti

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