domenica 23 settembre 2012

Patricia Highsmith, la seduttività del male

Dal Secolo d'Italia del 23 settembre 2012
 
Carol è una donna affascinante, malgrado non sia più giovane. Ricca ma infelice, non c'è denaro che possa spegnerne l'inquietudine. È sposata ma quando, nella New York degli anni Cinquanta, incontra Therese, scenografa ventenne che per mantenersi lavora in un grande magazzino, scocca la scintilla. No, non è una storia d'amore comunemente intesa. Perché nel claustrofobico mondo crudele di Patricia Highsmith l'amore non ha alcun potere salvifico e conduce, semmai, oltre il polveroso confine delle convenzioni, dove bene e male si mescolano e i personaggi possono finalmente guardarsi allo specchio e "pacificarsi" con il loro lato oscuro.

Tra pochi mesi sarà Cate Blanchett a misurarsi con l'ambivalenza del personaggio, Carol, che dà il titolo al romanzo che la scrittrice texana scrisse (sotto pseudonimo) nel 1952, giusto sessant'anni fa. Un ruolo non facile per l'attrice australiana, che a dicembre rivedremo sul grande schermo nelle bianche vesti di Galadriel nell'atteso film della nuova trilogia tolkieniana di Peter Jackson. A lei l'arduo compito di interpretare una delle antieroine della ricca galleria di personaggi "socialmente inaccettabili" creato dalla Highsmith.
Se non il primo, il più famoso è senz'altro l'ineffabile Tom Ripley, protagonista di ben cinque romanzi. In principio fu Alain Delon, «romantico ma implacabile, un viso d'angelo ma un'anima diabolica» lo presentava il trailer del 1959. Poi arrivarono Dennis Hopper, Matt Damon, John Malkovich e Barry Pepper, diretti rispettivamente da René Clément, Wim Wenders, Anthony Minghella, Liliana Cavani e Roger Spottiswoode. Interpretazioni brillanti, le loro, ma - come ha scritto Ranieri Polese - «sfugge a tutti i film su Ripley l'aspetto del superuomo, di colui che sa che in un mondo dove non c'è Dio né morale solo la volontà di potenza conta». Venticinquenne bostoniano di modeste origini, Tom ha un particolare "talento" camaleontico. Spregiudicato quanto lucido, non esita a eliminare ogni ostacolo per affermare un modello di vita, «una coerente visione etica del mondo» soffocata dal luogo, dall'epoca e dalle convenzioni sociali. Non c'è riprovazione per quegli omicidi "necessari", nel lettore o nello spettatore che, inevitabilmente, finisce per stare dalla sua parte. Ed è proprio l'intimità con l'assassino della porta accanto - «perché chiunque può ammazzare, non è una questione di temperamento, ma solo di circostanze» - uno degli elementi rivendicati dall'autrice. «Io non sono un'inventrice di rompicapi», spiegava a chi la includeva tra i maestri del giallo tradizionale. Non fabbricava casi insolubili - quelli che Borges definiva, con una punta di disprezzo, «gli indovinelli lunghi trecento pagine» - ma "indagini" psicologiche degne dei suoi autori preferiti, da Poe a Dostoevskij, da Tolstoj a Kafka. Una ricerca filosofia sul disagio esistenziale nel caos della modernità ben distante dalle crime story a stelle e strisce. Di lei Slavoj Zizek ha detto: «Il nome "Patricia Highsmith" indica per me un terreno sacro, colei il cui posto tra gli scrittori è paragonabile al posto che Spinoza occupa per Deleuze, il "Cristo tra i filosofi"».
Se è incontestabile che il cinema debba molto a quest'autrice - dai suoi romanzi sono stati tratti sinora quindici film, gran parte dei quali europei - è altrettanto vero che è stato il cinema a renderla celebre dopo una lunga serie di rifiuti in patria e diffidenze nella critica chic. Non è un caso, del resto, che i suoi libri abbiano più successo nel Vecchio Continente che negli States. Fu Alfred Hitchcock, nel 1951, a portare sul grande schermo Sconosciuti in treno (con il titolo di "L'altro uomo") e a darle la meritata popolarità. Più vicina alle inquietudini libertarie dell'Europa che alla rassicurante ipocrisia del Sogno Americano, la Highsmith, che aveva studiato greco e latino alla Columbia University di New York, passò gran parte della sua vita proprio in Europa e finendo per nascondersi al mondo nella residenza di Locarno, in Svizzera, dove morì nel 1995 all'età di settantaquattro anni.
Ribelle, sfuggente, dissoluta, bisessuale. Della sua vita privata non si sa molto, non amava i giornalisti (come darle torto?) e preferiva starsene per proprio conto. «La mia immaginazione - diceva - funziona meglio quando non sono costretta a rivolgere la parola alla gente». Su di lei correvano vere e proprie leggende. Una la vorrebbe antisemita, perché si rifiutava di vendere i diritti delle sue opere in Israele. Una cosa è certa: dietro i suoi romanzi c'è una critica feroce alla società del suo tempo e nel vitalismo criminale di Ripley c'è la consapevolezza che non soltanto il male può sedurre ma può essere, in certi momenti, l'alleato più affidabile.


Roberto Alfatti Appetiti

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