lunedì 3 settembre 2012

Ray Bradbury, diciassette anni per tutta la vita

Da Area di luglio-agosto 2012
Dallo Speciale dedicato a Ray Bradbury
Novantuno: il conteggio degli anni, all’anagrafe, non lascerebbe dubbi. Eppure Ray Bradbury ha scelto di avere diciassette anni per tutta la vita. Lunga, difficile, proficua, affrontata con entusiasmo malgrado le salite, spesso ripide, e le cadute. Del resto, la sua vocazione più autentica, dichiarata, era di far «innamorare alla vita» il lettore. Mettendolo in guardia da tutto ciò che non era vita. Da quella, artificiale, che altri preconfezionano per noi. Dalla camicia di forza della quotidianità, tanto stretta quanto comoda. Il pericolo, in fin dei conti, è proprio di adagiarvisi, di barattare la curiosità con la rassegnazione, trovandola dolce. L’unico modo per “resistere”, sembra suggerirci, è fare professione di lucida follia. Coltivare, con la fanciullezza dell’adolescenza, il candore dell’irriverenza.
«Quando qualcuno ti chiede quanti anni hai, tu di’ sempre diciassette e che sei pazza». È questa l’insolita raccomandazione che la giovane Clarisse McClean si sente rivolgere dallo zio in Fahrenheit 451. «Queste due cose vanno sempre insieme», spiega la ragazza e dietro di lei c’è l’irriducibile visione del mondo di Bradbury. Non è un caso se CasaPound, per rendergli l’estremo omaggio, abbia “invaso” una trentina di città italiane con uno striscione che recitava più o meno così: «Abbiamo 17 anni e siamo pazzi». Una vera e propria rivendicazione di ispirazione: «i veri figli di Montag siamo noi». Non da oggi: il movimento guidato da Gianluca Iannone iniziò le occupazioni «non conformi» facendo di uno stabile abbandonato in via Tiberina a Roma CasaMontang.
Guy Montag, per quei pochi che non lo conoscessero, è il protagonista del popolare romanzo di Bradbury: un vigile del fuoco ma non un pompiere, perché il suo compito non è spegnere gli incendi. E quali incendi? Che in un tempo lontano le case ardessero, e che a domare le fiamme fossero chiamati gli uomini del fuoco, è una leggenda, perché nel mondo di Montag le case sono “sempre” state antincendio. Almeno questa è la convinzione diffusa. I libri, al riguardo, non possono provare il contrario. Sono vietati e vanno bruciati, insieme con il passato. È proprio Clarisse a scuotere le certezze di Montag, facendogli riscoprire l’importanza dei libri, fondamentali perché custodiscono esperienze ed alimentano il ricordo, rappresentano l’identità irrinunciabile di un popolo. Per tramandarne i contenuti c’è una rete di ribelli disposti a sfidare il potere, pronti all’occorrenza a imparare a memoria i testi per salvarli dall’oblio cui sarebbero destinati. Montag diventerà uno di loro. Non è certo il fascino delle uniformi nere dei pompieri-piromani di Bradbury, come qualche malevolo potrebbe pensare, ad aver appassionato al libro più generazioni di lettori di destra, ma, piuttosto, la consapevolezza che i libri non siano fatti per raccogliere polvere ma vadano incarnati, che le idee – per dirla con Ezra Pound – diventino azioni.
L’originalità dello scrittore americano è proprio questa: non propone un improbabile lieto fine o, in alternativa, la diserzione in una utopia autoconsolatoria. Mira a scuotere le coscienze, ad aggiustare il tiro, a prepararsi allo scontro non con la società del futuro ma con quella del presente. «Predire il futuro», si scherniva, «è sin troppo facile. Basta guardare la gente attorno a te, la strada dove vivi, l’aria che respiri. E predire che sarà ancora così». Per rendersi conto della direzione che il vecchio mondo aveva intrapreso, era sufficiente passeggiare per Los Angeles, la città in cui aveva scelto di vivere. «Una città in cui puoi incontrare duecento passanti senza vedere un solo essere umano», sentenziò un altro scrittore della classe 1920, Charles Bukowski, che, come Ray, aveva stabilito la sua residenza nella città degli angeli.
C’è più Novecento nei romanzi “pornografici” di Bukowski e in quelli fantasy di Bradbury che in quelli di tanti scrittori nominalmente “realisti”. Non l’evidenza degli Stati totalitari, come vorrebbe una critica superficiale, ma la dittatura – più sottile e per certi versi più insidiosa della censura tout court – delle multinazionali, delle grandi e seducenti catene commerciali, in una società plasmata a misura di consumatore, in cui i mercati governano sui popoli. Però, osserverà qualcuno, nel nostro mondo la lettura non è ancora vietata. Modesta consolazione. Paradossalmente, a ben guardare, è l’eccesso di produzione editoriale, il bombardamento estenuante cui il mondo dell’informazione ci sottopone, quella che Gianfranco de Turris chiama la “pandemia televisiva”, a massificare i nostri gusti, a non consentirci la costruzione di opinioni consapevoli, a consegnarci nelle mani dei pubblicitari, a renderci insopportabile anche solo l’idea di una “vita” senza megaschermi e ammennicoli elettronici di ogni genere.
Contro questi nemici, Bradbury brandisce l’arma della letteratura. Non della narrativa di genere, roba da ragazzi, conferma lo scrittore, che sempre rifiuterà l’etichetta di scrittore di fantascienza. Una battaglia, la sua, non contro la tecnologia in senso lato, ma – come ebbe modo di spiegare – contro l’uso sbagliato che si può fare della stessa. Una diffidenza nata quand’era molto giovane, che l’aveva determinato a non prendere la patente, a non volare (se non costretto) e, più recentemente, a fare a meno di internet. Una diffidenza che soltanto negli ultimi anni si è parzialmente attenuata, sino a fargli accettare l’idea che il suo capolavoro potesse diventare un e-book. «Una notte, nell’estate del 1946 o del 1947, i nostri scienziati – ricordò Bradbury – stavano per fare il primo esperimento di superbomba in un atollo e nessuno, nemmeno i tecnici che l’avevano messa a punto, conoscevano tutte le possibili conseguenze di quella esplosione. Quella notte mi convinsi che lo sviluppo tecnologico ci stava portando dalla parte sbagliata».
Politicamente potremmo definirlo un conservatore, un libertario, un liberale convinto che in America ci fosse troppo Stato – «Lo Stato deve lavorare per il popolo e non viceversa» – e, a suo modo, un pacifista. Sognava un’alleanza tra tutte le potenze mondiali che riuscisse a portare l’umanità su Marte, come nelle sue Cronache marziane, e magari anche oltre l’universo conosciuto. Un luogo dove mettere in sicurezza l’esperienza umana, da Omero a Hemingway.
Quando il 3 gennaio del 2004 lo Spirit, il mitico robottino a sei ruote, atterrò sul pianeta rosso, la Nasa invitò proprio lui, che quella storia l’aveva immaginata già nel 1950, alla “diretta”. «Un’emozione straordinaria», la definì. «Ma adesso basta con le sonde esplorative, su Marte bisogna mandare gli astronauti», tuonò.
Spirit sarebbe dovuto rimanere su Marte per tre mesi, invece è rimasto a morire lassù. Solo pochi mesi fa, dopo un silenzio ormai troppo prolungato per sperare che potesse tornare a dare segnali di vita, il robottino è stato definitivamente abbandonato dagli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Se tutto andrà bene, un nuovo rover, chiamato Curiosity, arriverà su Marte prima della fine dell’estate. Chissà che non trovi proprio il diciassettenne Ray ad aspettarlo.
Roberto Alfatti Appetiti

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