giovedì 25 ottobre 2012

Così scoprimmo l'America...

Da Area di settembre 2012
Mai come oggi, l’America è dietro l’angolo. I più facoltosi vi si recano con disinvolta frequenza, fosse anche solo per un week end di shopping. I meno devono accontentarsi della quotidiana razione di made in Usa offerta generosamente dalla tv. Degli scrittori americani, poi, sappiamo tutto: cosa scrivono e, prima ancora, chi frequentano e dove consumano il primo caffè della giornata. I loro bestseller, ben esposti in libreria, sono i più saccheggiati dal grande pubblico dei centri commerciali. Sembra passato un secolo da quando in Italia, degli Stati Uniti, si ignorava tutto o quasi, a iniziare dalla lingua. Se non proprio un secolo, tuttavia, parecchi decenni sono trascorsi da quel tempo lontano – parliamo degli anni Trenta del Novecento – in cui solo i pittori viaggiavano, magari andando a Parigi, mentre tutti gli altri, persino gli uomini di cultura, preferivano cullarsi in provincia piuttosto che attraversare l’Oceano. Erano gli anni della via autarchica alla letteratura e a contaminarla con quella narrativa quasi del tutto sconosciuta ci pensò nel 1941 Elio Vittorini pubblicando Americana, raccolta antologica a stelle e strisce con cui, oltre all’affascinante interpretazione dello sviluppo letterario americano, si proponeva agli scrittori più giovani un nuovo modello da seguire.
Ed eccola l’America restituita dagli scrittori americani: una terra di grandi opportunità, con terribili contraddizioni ma ricca di fermenti culturali di stampo libertario. Un’idea dell’America non sempre fedele a quella reale, decisamente più cruda, che aveva affascinato anche un intellettuale autorevole come Emilio Cecchi durante i suoi lunghi soggiorni negli States nel 1931 e nel 1938. Un anno prima di Vittorini, nel 1940, il famoso critico e saggista aveva raccontato la sua America Amara raccogliendo le proprie impressioni sconcertate sulla società – “Dal 1882 a oggi, furono linciate negli Stati Uniti oltre 5110 persone. Più di solito, il linciaggio viene riservato ai negri”, annota Cecchi – e al tempo stessi giudizi ben più lusinghieri sulla produzione artistica, dalla letteratura al cinema. Se l’ultima edizione italiana di quest’ultimo prezioso cult book data 1995, ripubblicato nella curata collana di viaggi e viaggiatori ideata da Ippolito Pizzetti per le edizioni di Franco Muzzio, Americana è appena tornata in libreria nei tascabili Bompiani. Settant’anni fa, a curare l’introduzione al volume fu lo stesso Emilio Cecchi, mentre la nuova edizione è introdotta da Carlo Gorlier e Giuseppe Zaccaria ed è riproposta con le immagini e le didascalie originali scelte dallo stesso Vittorini per illustrare la prima, preziosissimo bagaglio di suggestioni e di passioni da coltivare. Ragioniere mancato ammalato di letteratura, Vittorini aveva manifestato sin da giovanissimo grande passione per l’Ovest e per gli autori americani che Vittorini. Un amore ricambiato: la versione statunitense del suo libro forse più importante, Conversazione in Sicilia, si fregerà della prefazione di un già famoso Hemingway.
Fiancheggiatore dei rossi, come sospettava il fascismo, o antesignano del mito americano? Incasellare lo scrittore di Siracusa, giornalista, scrittore, traduttore, grande organizzatore culturale e guastafeste per antonomasia, tacciato di tradimento prima dai fascisti e poi dai comunisti, è impossibile oltre che inutile. Che si trattasse di un non allineato finì per capirlo anche Palmiro Togliatti che nel dopoguerra aveva affidando a quel ex fascista di sinistra la via letteraria all’occupazione militare della nuova cultura italiana. Vittorini detestava sì il provincialismo trombonesco della tradizione letteraria nazionale ma ad ispirarlo non era certo il grigiore oppressivo dell’Unione Sovietica, ma il mito dell’America. Del resto proprio l’antologia Americana aveva contribuito in maniera determinante a seminare l’esplosivo vitalismo libertario di quel “mito” che finirà per contagiare attraverso il cinema e la musica, oltre alla letteratura, l’immaginario delle generazioni future. Una curiosità: ad eccezione di una fugace apparizione sul longanesiano Omnibus, è proprio Vittorini a far esordire, tra gli altri, l’italo-americano John Fante in Italia, inserendone un racconto nell’antologia con enorme anticipo su chi, decine di anni dopo, si vanterà di averlo “scoperto”. Se tale pubblicazione a suo tempo irritò non poco qualche gerarca, non tardarono a presentarsi momenti di forte frizione anche tra Vittorini e il partito comunista, la cui principale preoccupazione era quella di serrare i ranghi per affrontare la guerra fredda. «Suonare il piffero per la rivoluzione?» Giammai! Vittorini l’aveva detto e non mancò di ripeterlo ai dirigenti del Pci –sessant’anni fa, nel ’47 – spiegando loro che «la cultura non può essere asservita alla politica e farsene ancella», rivendicandone, al contrario,«l’autonomia», il ruolo di sperimentazione permanente e di attenzione ai nuovi linguaggi e ai modelli letterari che arrivavano d’oltreoceano. Se Benito Mussolini, qualche tempo prima, probabilmente ebbe a pentirsi di aver dato il proprio consenso a Giuseppe Bottai per far nascere Primato (la rivista a cui collaborò lo stesso Vittorini), Palmiro Togliatti nel ’47 non indugiò altrettanto: prese carta e penna e in un articolo su Rinascita delegittimò Il Politecnico, la rivista cui Vittorini solo due anni prima aveva dato vita – la cui nascita era stata salutata «con gioia» dal “Migliore” nell’auspicio di «un rinnovamento della cultura italiana»– sfoderando la più micidiale (quanto ricorrente) delle accuse: «Deviazionismo ideologico». In politichese: «Una ricerca astratta e superficiale del nuovo che può portare a compiere o avallare sbagli fondamentali di indirizzo ideologico».
L’ambizioso tentativo dell’intellettuale siciliano – formatosi nell’esperienza di Solaria(la rivista fiorentina che tra il ’33 e il ‘34 pubblicò a puntate il suo primo romanzo: Il garofano rosso) – di svecchiare la cultura “ufficiale” e farla uscire dall’isolamento stabilendo un contatto rigeneratore con quanto di nuovo andava sviluppandosi in Italia e fuori, venne pertanto fatto fallire dall’intervento a gamba tesa dell’uomo forte del Pci, per il quale certe aperture e lo spazio offerto a posizioni critiche nei confronti dei dogmi comunisti, come le osservazioni di Merleau-Ponty sul «marxismo che dovrebbe salvare la ricerca esistenzialista invece di soffocarla» erano politicamente intollerabili.
L’editore Einaudi giustificò la chiusura adducendo ragioni economiche, ma è indubitabile che non si volessero compromettere i rapporti di buon vicinato con il Pci, i cui militanti rappresentavano un mercato potenziale non trascurabile. L’arroganza di Togliatti fece il resto, mirando a screditare il prestigio e minimizzare il ruolo di Vittorini: atteggiamento riservato a tutti gli intellettuali che, come Silone ed altri, nel corso degli anni ebbero la sfrontatezza di insubordinarsi. Quando nel ’51 lo scrittore siciliano lascia definitivamente il Pci, Togliatti lo saluta polemicamente firmando su Rinascita, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, un velenoso articolo intitolato:«Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!». «Era venuto con noi perché credeva fossimo liberali: invece eravamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima?» chiosò sarcastico.
La “conversione” di Vittorini all’antifascismo, di contro, non esprime la condanna di un regime politico per l’esaltazione di un regime opposto, bensì la solitaria protesta politico-letteraria di un anarchico-individualista insofferente alle gabbie ideologiche, che si opponeva alla retorica del fascismo senza per questo volersi fare “suonatore di piffero”della rivoluzione comunista. Nelle sue opere non c’è traccia dello scrittore neorealista e materialista, ma c’è spazio soprattutto per l’inquietudine e il lirismo, per l’esigenza – come ha scritto in Diario in pubblico (raccolta di saggi del ‘57) – «di rimettere tutto in questione, caso per caso e problema per problema». Persino in Uomini e no (Mondadori), pubblicato appena dopo la fine della guerra e definito “il primo romanzo della resistenza”, nella nota della prima edizione – poi eliminata – ribadisce il suo convincimento: «Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo, e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana». «Dissemina dubbi e incertezze su quanto è accaduto» dirà Valentino Bompiani. Vittorini, in realtà, rimase fedele alla propria personalissima linea di condotta, convinto com’era che «rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo». Aveva provato a spiegarlo a Togliatti, delineando i rispettivi campi d’azione, per poi giungere all’amara considerazione: «Non capisce o non vuole capire». Attuale, non trovate?
Roberto Alfatti Appetiti

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