giovedì 25 ottobre 2012

Philip K. Dick, paranoico o profetico?

Dal Secolo d'Italia del 15 ottobre 2012
E se la fantapolitica fosse più reale della politica? La domanda, prima ancora che a retroscenisti e politologi, andrebbe rivolta a Philip Kindred Dick. Per quanto se ne sia andato il 2 marzo del 1982, ben trent'anni fa, pochi come lui sono riusciti a immaginare con altrettanta lungimiranza il futuro che verrà. Cosa è reale e cosa non lo è? Questo era il chiodo fisso della sua indagine.
«Non crederete che la realtà che ci circonda sia solo quella che vediamo - avvertiva il padre della fantascienza moderna - perché proprio come le scenografie teatrali nascondono le impalcature che le sorreggono, così il mondo ci nasconde le strutture sulle quali è appoggiato». Le sue opere sembrano allontanarsi dalla realtà - a volte, sorprendentemente, anticipandola - e invece mirano a scoprire le travi sotto il pavimento dell'universo. Perché la fantascienza non è semplice evasione, come qualcuno insinua, ma può rappresentare anche uno sguardo "altro" sulle possibilità alternative. Il confine tra fantascienza e iper-realismo è sottile, proprio come quello tra fantapolitica e politica. Chi di noi può dire di sapere con certezza chi è a muovere i fili? E se gli attori protagonisti fossero mere comparse? «La mutevole informazione che noi percepiamo come mondo è una narrazione in via di svolgimento», osserva Dick. La nostra vita è reale o siamo intrappolati, a beneficio di altri, in un Truman Show? Film, quest'ultimo, girato nel 1998 da Peter Weir e non a caso intriso di influenze dickiane.
La sua è fantascienza pura, certo, con alieni spesso camuffati da umani, amici e parenti che nascondono la loro vera identità, sottoposti a lavaggio del cervello e trasformati in spie. Dick stesso era ossessionato dall'idea di essere sorvegliato dai servizi segreti e forse lo è stato davvero. Chi metterebbe la mano sul fuoco, del resto, per il proprio vicino? E ancora: replicanti più o meno affidabili, innovazioni tecnologiche stupefacenti, inimmaginabili (tanto più se contestualizzate agli anni in cui Dick le tirava fuori dal cilindro). Il pianeta Terra è sempre più invivibile, schiacciato tra un sovraffollamento dovuto in larga parte agli asiatici e un inquinamento che produce una nebbia perenne, densa e claustrofobica. Grattacieli e monumenti assemblati da un urbanista folle. Della bellezza di un tempo non rimane traccia. Uno scenario agghiacciante. Di cosa parliamo? Di "Blade Runner", il celebre film di Ridley Scott ambientato in una Los Angeles distopica dell'anno 2019, la prima pellicola tratta anch'essa da un'opera di Dick.
Difficile tenere il conto dei lavori di Dick a cui si sono ispirati registi e colleghi. Alcuni lo hanno fatto dichiaratamente, come Steven Spielberg in "Minority Report", film del 2002 tratto dal racconto breve "Rapporto di minoranza" del 1956. Se il regista americano, prima di iniziare le riprese, dovette convocare un gruppo di futurologi - esperti del MIT, del dipartimento di ricerca biomedica alla difesa, di software e di realtà virtuale - perché immaginassero per lui una Washington del 2054 credibile, Dick quasi mezzo secolo prima, nella sua lucida visionarietà, aveva già tutto chiaro in mente. Sua l'idea, geniale, della squadra "precrimine", grazie alla quale la polizia riesce a impedire gli omicidi prima che essi avvengano. Come? Basandosi sulle premonizioni di tre individui dotati di poteri extrasensoriali di precognizione amplificati, detti precog, la squadra, capitanata dal detective John Anderton/Tom Cruise, riesce a intervenire prima che il reato venga commesso.
E non è certo un reato quello commesso da tanti registi che, meno elegantemente di Spielberg, si sono limitati a prendere qua e là nell'immaginario dickiano, non sempre a proposito, spesso stravolgendone le intuizioni, banalizzandole. "Terminator", la trilogia di "Matrix" dei fratelli Wachowski, "Inception", "L'esercito delle 12 scimmie", "The Island", sono solo alcune delle pellicole - tra le più celebri - ad avere un debito nei confronti dello scrittore di Chicago. Sin troppo riconoscibili i suoi temi: il confronto/scontro tra essere umani e non umani, le allegorie sociopolitiche, l'impatto dei mass media e della televisione in particolare sulla vita quotidiana dell'uomo qualunque, alla cui psicologia è rivolta un'inusuale attenzione. Perché, pur senza rinunciare a robuste dosi di fiction, i suoi libri non mancano di restituire l'atmosfera degli anni cinquanta e sessanta di Eisenhower e Kennedy, con annesse speranze e contraddizioni.
«La realtà è quella cosa che, anche se smetti di crederci - sembra suggerire Dick - non sparisce».
Roberto Alfatti Appetiti

Nessun commento: