martedì 28 maggio 2013

Toscani maledetti: ai nipoti di Malaparte il compito di svegliare le lettere nazionali!

Pubblicato sul Secolo d'Italia.it il 28 maggio 2013
«Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l’esser toscano». Così parlò Curzio Malaparte, fiero dell’originalità che rende i toscani «diversi da ogni nazione». Non conformi. Irriverenti. Poco disponibili a compiacere. Presuntuosi, talvolta. Lo era senz’altro questo pratese di sangue tedesco che volle ribattezzarsi per fare il verso, nientedimeno, a Bonaparte. Ma è stato anche lo scrittore italiano di maggiore respiro europeo, forse l’unico. Eppure è stato trattato con sufficienza, maltrattato, sbertucciato in vita e dimenticato da morto. Perché compromesso col fascismo, in parte. Per invidia, sicuramente. Perché toscano?
«Che molti dei grandi scrittori toscani siano stati a lungo sottovalutati è un dato di fatto difficilmente contestabile. Giovanni Papini e Curzio Malaparte, per ragioni in primo luogo ideologiche, sono stati rimossi da ogni canone della letteratura italiana». Ad affermarlo è Raoul Bruni nell’introduzione di “Toscani Maledetti” (AA.VV. Copertina di Maurizio Ceccato, pp. 175), la raccolta di racconti inediti cui la (pratese) Piano B edizioni ha appena affidato un dichiarato intento: restituire a Boccaccio ciò che è di Boccaccio. La terra che rivendica, con il Decamerone, la nascita stessa della narrativa moderna, reclama maggiore spazio sulle pagine culturali dei quotidiani, nelle antologie letterarie, nel dibattito culturale. Una questione annosa: letterati del valore di Enrico Pea e Romano Bilenchi vennero tenuti ai margini della scena nazionale. «Lo stesso Tozzi – rincara la dose Bruni – stenta ancora a essere considerato un classico al pari di Pirandello e Svevo mentre un narratore un tempo celeberrimo come Vasco Pratolini gode di sempre minore considerazione sia presso i critici che presso i lettori. C’è poi il caso di uno scrittore poliedrico e interessante come il livornese Carlo Coccioli, tanto poco letto da noi quanto apprezzato e tradotto all’estero». Se Coccioli si trasferì in Messco – dove morì nel 2003 – affermandosi oltretutto come autorevole editorialista delle più prestigiose testate giornalistiche del paese, gli autori toscani non dovrebbero necessariamente emigrare a Roma o Milano per fare carriera. Nella città meneghina cercò fortuna, trovandola e poi smarrendola, Luciano Bianciardi, scrittore fino a pochi anni fa incredibilmente sottovalutato e solo recentemente riscoperto. Chiamati a seguire le orme dei grandi irregolari toscani e a rinfocolare l’arte tutta toscana del racconto, sono ora una pattuglia di giovani scrittori nati tra la prima metà degli anni Sessanta e la seconda degli anni Ottanta, più o meno noti ma tutti maledettamente toscani, anche chi, come la tarantina Flavia Piccinni, lo è d’adozione senza rinunciare alla propria identità “terrona” (proprio come la piccola Cecilia che, nel suo racconto, porterà un regalo particolare ai suoi nuovi compagni di scuola). I racconti non seguono un tema ma presentano un elemento comune: c’è una Toscana altra rispetto ai soliti cliché turistici che ne fanno lo sfondo ideale per romantiche quanto stereotipate commedie estive. C’è la città e la periferia, il racconto di formazione e quello più attento alla cronaca. Simone Ghelli, per citare uno degli scrittori più attivi anche senza brandire una penna (è co-fondatore del Collettivo scrittori precari), guarda proprio a Luciano Bianciardi, padre – se si può dire così – del filone documentale. Fu l’autore de “La vita agra”, libro quest’ultimo appena ristampato in occasione dei cinquant’anni, a dare vita al genere nel 1956 pubblicando con Carlo Cassola una non-fiction ante litteram dal titolo “I minatori della Maremma”, spietata indagine sulla condizione sociale e umana dei minatori maremmani. Genere cui potrebbe ricondursi il racconto di Simona Baldanzi ispirato a un incidente realmente avvenuto il 20 luglio 2009 all’acciaieria di Piombino. Piombino, ovviamente Firenze, Livorno, Lucca, Pisa, Massa, Carrara e una Versilia vista con gli occhi di chi ci vive piuttosto che passarci le vacanze. «Perché in un paese di mare non esiste che d’estate puoi prendere le ferie, anzi è l’unico periodo che fatichi veramente», scrive Fabio Genovesi nel racconto “Ora sai nuotare”. Quando il padre, idraulico, deciderà di impiegarsi al Comune rinunciando a lavorare in proprio, potrà finalmente passare più tempo con lui su quel mare troppo spesso riservato ai turisti. L’estate è quella del 1982 e tutto nasce dal gol (regolare!) annullato a Giancarlo Antognoni. Il bagnino, per sfogare la propria rabbia, lo lancerà in terra rompendogli la clavicola (guardandosi bene dal lanciare uno dei figli benestanti dei turisti). E sempre nel 1982 inizia il racconto di Cosimo Calamini: «Eravamo un gruppo di ragazzini scalmanati tra i sei e i dodici anni. Non eravamo una banda, non avevamo letto Molnar, nessuno si sognava di organizzare azioni collettive, individualisti quanto basta per essere conformi agli spregiudicati anni Ottanta». Il leader del gruppo è Diaccio, soprannome legato a occhi azzurri come il topazio e freddi come l’Artide, «l’unico ascoltato da tutti, quello che decideva se un gol era valido o no, quello che tutti volevano in squadra qualunque gioco facessimo». Ma Diaccio nascondeva un segreto. Che non sveleremo, come non sveleremo altro dei tanti bei racconti che compongono questa raccolta. I cui autori sono, nel rigoroso ordine alfabetico della raccolta, Baldanzi, Bertelli, Calamini, Dai Pra’, D’Isa, Genovesi, Ghelli, Giannini, Grossi, Gucci, Magini, Matteoni, Mavilla, Nardoni, Naspini, Piccinni, Raveggi, Ricci, Rovelli, Vanni Santoni, Simonelli. Una squadra locale con fondate ambizioni nazionali. «Di voci maledettamente toscane che si incarichino di dire ciò che agli altri è sgradito – dice Bruni – c’è più che mai bisogno in un mondo, quale quello dell’odierna narrativa italiana, che si fa troppo spesso condizionare dall’omologazione e dal conformismo imperanti». E ha ragione, indubbiamente.
Roberto Alfatti Appetiti

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