venerdì 21 marzo 2014

"La migliore biografia italiana dedicata a Bukowski" (Gian Paolo Serino su Satisfiction)

Roberto Alfatti Appetiti anteprima. Biografia controcorrente di Charles Bukowski



Pubblichiamo qui un estratto dal sesto capitolo dell’eccellente biografia che Roberto Alfatti Appetiti ha dedicato a Charles Bukowski (in uscita per Bietti). Un libro contro-corrente, come spiega Vittorio Macioce, nell’articolo (pubblicato per la prima volta su Il Giornale) che ci introduce alla migliore biografia italiana dedicata a Bukowski. Un libro Satisfiction: soddisfatti o rimborsati.
 Gian Paolo Serino
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Tutto questo naturalmente Roberto Alfatti Appetiti lo racconta. È nella biografia Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pagg. 300, euro 19). Quello che manca invece è la parte più insopportabile di Bukowski, cioè il poster. Bukowski è morto. È morto vent’anni fa e da allora è diventato uno stereotipo. Ogni tanto incontri qualcuno che assomiglia a Bukoswki e ti vomita addosso. Poi non si scusa perché è alternativo. Poi comincia a declamare, fingendo di biascicare, bestemmie banali sullo schifo del mondo. Poi ti dice che Hank è antiamericano e la sua scrittura rivoluzionaria. Poi occupa un teatro. E infine si fa pagare il conto perché è un’artista e per grazia divina e volontà della nazione va a scrocco. A questo punto per fortuna arriva una vera reincarnazione di Bukowski e gli chiude la bocca.
Il Bukowski di Roberto Alfatti Appettiti si mette a fare il poster solo se ha molto bisogno di soldi, se non è ancora abbastanza nervoso da mandare a quel paese i suoi lettori, se serve a rimorchiare. Il resto è uno che sogna di fare lo scrittore e ci riesce dopo i cinquanta. È disprezzo per accademici, colleghi, intellettuali e affini. È individualismo e egocentrismo. È quello che scrive. Sono le lettere che scrive a tutti quelli che gli scrivono. È menefreghismo verso le sorti del mondo. È rabbia verso i capatàz. È ammirazione per chi ha coraggio. È umano troppo umano. E ci sono tre figure che svelano la sua umanità. Tre uomini. Uno è il dolore, il secondo è l’occasione, il terzo è quello in cui sceglie di riconoscersi.
Non si sceglie il padre. Ti tocca in sorte e se ti va male lo disprezzi e ti disprezzi. Bukowski padre era un ubriacone di Philadelfia rotto in culo che abitava in via del nulla. Un fallito, ma questo è il meno. Il peggio è che ti picchia tre volte a settimana fino a tirarti fuori le budella. La paura è assomigliargli. Essere o non essere come lui. È quello che confessa nella poesia I gemelli. «Allargo le braccia come uno spaventapasseri al vento, ma non serve a niente: non posso tenerlo in vita, non ha importanza quanto ci odiassimo. Sembravamo identici, avremmo potuto essere gemelli, il mio vecchio e io. Questo è quello che dicevano… Va bene così. Concedeteci questo momento: in piedi di fronte a uno specchio, con addosso l’abito di mio padre morto, aspettando anch’io di morire».
Non si scelgono neppure i benefattori. Ti scelgono loro e ti cambiano la vita. Hank si arrabatta. Sogna di scrivere un romanzo, ma i racconti sono più veloci e lo fanno guadagnare. Serve un mecenate. Lo trova. Ora come cavolo gli è venuto in testa a John Martin di puntare sul poeta ubriacone? Oltretutto Martin è astemio. Non fa neppure l’editore. È un lettore seriale, un maniaco collezionista di prime edizioni, ma per lavoro fa il direttore di una ditta di forniture per ufficio. Questo signore della middle class trova i fondi per una casa editrice, la Black Sparrow Press, e passa a Bukowski 100 dollari al mese. È abbastanza per lasciare il posto da postino e scrivere romanzi. Uno dice: Martin sarà un riccone che non sa dove spendere i soldi? No, è solo uno che ha scommesso su un cavallo e ha vinto. È Bukoswski ad aver paura, perché un conto è sentirsi un grande scrittore, altro dimostrarlo. Ti dicono vai, non preoccuparti, devi solo scrivere. A quel punto o ti ubriachi o batti sui tasti. Oppure tutte e due le cose. Non con tutti funziona.
Gli ultimi tempi andava così. Quasi tutti i giorni stava lì, in quell’ospedale, seduto accanto al suo letto. «Mi trovai davanti a un omino sotto le lenzuola. Non gli rimaneva molto delle gambe. Gli avevano lasciato braccia e mani. La faccia era portentosa, da piccolo bulldog». Che si dicevano Chinaski e Bandini? Dicono che fosse l’italoamericano a parlare. Il diabete segna i giorni che ti mancano alla fine. Chinaski ascoltava. Trovi uno scrittore che riconosci come te stesso. Lo scovi nei romanzi dimenticati in una biblioteca pubblica. Dici al mondo che esiste un genio chiamato John Fante. Fai in modo che la tua fama lo renda immortale. Fai per la prima volta qualcosa di davvero grande per un tuo simile. Lo scegli come maestro. E finalmente ti ritrovi in lui. Bukowski come Bandini. Un personaggio che ha trovato l’autore.
 Vittorio Macioce

Be(at) or not to be(at)
E I Migliori Assassini 
Sono Quelli Che Predicano Contro. 
E I Migliori A Odiare Sono Quelli 
Che Predicano Amore. 
e i migliori in guerra – in definitiva – 
sono quelli che predicano pace.

Bukowski può essere considerato un esponente di punta della letteratura beatnik? La sua presunta appartenenza al movimento artistico, poetico e lette- rario nato nel secondo dopoguerra negli Stati Uniti, è tutt’ora fonte di accesa controversia tra gli storici letterari. C’è chi sostiene che la sua carriera sia stata indissolubilmente legata a quella dei beat e chi, al contrario, ne ha marcato le dissonanze.
«Ero un hippy quando gli hippy non esistevano ancora, sono stato un beat ancor prima dei beat. Da solo ero una marcia di protesta. Ero nell’underground come una talpa cieca e le altre talpe non esistevano ancora… Ero l’underground quando ancora l’underground non esistevano.
Questa è solo una delle innumerevoli prese di distanza che Bukowski ha frapposto tra sé, i beat e gli hippy. Le sue rivendicazioni non lascerebbero spazio a dubbi. Su certi temi, lui era arrivato prima e ci teneva a sottolinearlo. E c’era arrivato da solo. «Ero un solitario. E alcune cose che stavano scopren- do allora, o che stavano per scoprire – tipo la guerra e l’effetto mortale di lavorare quaranta o quarantotto ore la settimana a qualcosa che non volevi fare, il matrimonio e le trappole in cui ti ritrovavi. Ma gli hippy non c’entravano nulla con me. Scoprivano le cose tardi e poi a loro piaceva riunirsi in folle, fare girotondi e urlare le cose. E le droghe? Cosa c’era di giusto nelle droghe?»
Fa sorridere rileggere il rimprovero che Goffredo Fofi mosse a Beniamino Placido, colpevole di essere stato tra i primi a recensire un autore che, da solo, avrebbe potuto traviare i ragazzi italiani, leggendolo «come la legittimazione letteraria di ogni disgregazione, di ogni dissociazione, di ogni disgusto esistenziale». Altro che cattivo maestro, Bukowski i cattivi maestri li mette alla berlina. «Se prendi l’lsd sei un poeta, un intellettuale. Che banda di deficienti. Sto costruendo una mitragliatrice per farne fuori più che posso prima che loro facciano fuori me» scrive a Steve Richmond, giovane poeta che, prima di conoscere Bukowski e convertirsi alla poesia, passava le sue giornate a sballarsi con l’amico Jim Morrison.
Come spiega ne Il gran gioco dell’erba, racconto incluso in Storie di ordinaria follia, Bukowski ce l’ha con il partito della droga, quello che spaccia la droga come presupposto e complemento dell’arte: «tutti costoro mi fanno pensare, in certo senso, a quelle vecchiette che, all’angolo della via, vendono “La Torre di Guardia”, questi adepti della streppa, lsd, marijuana, eroina, hascish e compagnia bella, la stessa mentalità dei Testimoni di Geova: o sei con noi, amico, o sennò sei fuori, uomo, sei morto. Questo è il credo di tutti gli utenti della droga. Sfido che vengano arrestati di continuo. Mica son buoni a drogarsi in silenzio, no, devono farlo sapere a tutti che loro fanno parte della consorteria. Inoltre, tendono a collegare la streppa con l’Arte, con il Sesso, con l’ambiente di avanguardia e del dissenso. il loro Acido Dio, Timothy Leary, gli dice: “lasciate tutto e seguitemi” poi lui prende in affitto un teatro e gli fa pagare 5 dollari a testa, per andarlo a sentire. Poi arriva Ginsberg e si schiera al fianco di Leary. quindi Ginsberg proclama che Bob Dylan è un grande poeta. Sanno farsi pubblicità, questi lupi della streppa. Sempre a galla sulle cronache. Oh America»
Bukowski va a vedere il loro gioco e smaschera quello che ritiene un colossale bluff. Alle protest song di Bob Dylan e di Joan Baez, Bukowski preferisce Brahms e Mahler. «Le parole di Dylan sono comuni, ma sono anche molto deboli, c’è un po’ di melodramma che non suona sincero. Naturalmente è necessario per essere uno scrittore popolare di canzoni e naturalmente tutte le liriche rock delle stelle rock sono così. Si alzano e parlano dell’amore e della vita e della verità e non sanno di che cosa diavolo stanno parlando. Perché non ci restano abbastanza attaccati da vedere». Ai viaggi artificiali degli acidi continua a preferire una sana sbronza di birra. «Io sono della vecchia scuola: mi piace sapere dove sono». Gli altri facessero quello che vogliono, di sicuro non sarà lui a fare la morale. Non si unisce al coro indignato «dei tanti vecchi che s’incazzano violentemente contro la gioventù d’oggi: “diamine! Io ho lavorato tutta la vita!” (la spacciano come una virtù, ma dimostra solo quanto sono cretini)». Quando provano a fargli tirare un po’ di coca, Bukowski non si tira indietro – non potrebbe – ma, seccato, finisce per soffiarla via invece di inspirarla. Prova l’lsd una sola volta e gli basta. «Avevo già provato tutto. E quando Tim Leary consigliò di “mollare tutto” venticinque anni dopo che l’avevo fatto io, non riuscii a entusiasmarmi. Il “mollare tutto” di Leary fu la perdita della cattedra da qualche parte…». Bukowski non avrebbe potuto mollare niente neanche volendo, visto che delle rendite di posizione accademiche si era fatto fiero avversario in tempi non sospetti. «A lui suonava tutto un po’ falso. Timothy Leary e gli hippy. E per certi versi aveva anche ragione», conferma Steve Richmond. Nel 1978, intervistato a Parigi dal redattore capo di Paris Métro, Bukowski dichiara di preferire i punk ai beat, aggiungendo, giusto per infoltire l’esercito dei nemici anche su terra francese: «A me queste cazzate della bohème del Greenwich Village e di Parigi non mi prendono proprio… tutte stronzate romantiche».
È fuor di discussione che Bukowski sia apparso insieme ai beat in molte pubblicazioni, così come lo è che gli autori beat ne apprezzassero il lavoro. Lo stesso Lawrence Ferlinghetti, del resto, gli spianò la strada del successo facendo pubblicare Storie di ordinaria follia dalla City Lights, la sua casa editrice, e ristampare a più riprese il Taccuino di un vecchio sporcaccione. Ed è sempre Ferlinghetti a promuovere il primo reading importante di Bukowski a San Francisco nel settembre del 1972, anche se «sono venute ottocento persone e cento di queste sono arrivate con dei secchi di immondizia da tirarmi addosso. Per 2 dollari a testa, quell’immondizia non puzzava troppo». Bukowski si era presentato visibilmente ubriaco e non aveva fatto molto per farsi benvolere dal pubblico. «Odiava se stesso per aver portato il suo culo nella città culla degli scrittori della beat generation, gruppo che non gli piaceva e da cui si sentiva distante» scrive Sounes. Se non ci fossero stati gli alimenti da pagare, Bukowski si sarebbe guardato bene dal partecipare allo showbiz. Diffidava di chi si prestava. «Mi sembra che un poeta che si metta in questa posizione debba essere un po’ attore ed estroverso, e più o meno affamato di immediato successo: l’applauso di quelli abbastanza vicini per dargli il calore di essere riconosciuto almeno come persona viva, a prescindere dal fatto se percepiscano o meno i concetti che lui può aver conservato dopo aver conformato il suo lavoro adeguandolo al loro stile. Non sto dequalificando i fruitori della poesia – sto elevando la poesia. Quando la poesia diventa abbastanza popolare da riempire cabaret e teatri, allora c’è qualcosa che non va con quel tipo di poesia o con quel pubblico. O il pubblico reputa quel poeta un fenomeno da baraccone, un pagliaccio che ballonzola al ritmo del jazz, un momento da ricordare come qualcosa-di-strano-tra-un-bicchiere-e-l’altro, o quel poeta sta deliberatamente dequalificando il suo lavoro per quel pubblico, per accattivarselo».
Buona parte dei beat, dicevamo, apprezzava Bukowski. Ma non tutti e non sempre. «Bukowski? Penso che la sua stella sia destinata a oscurarsi un po’. Può darsi che nelle antologie non resteranno che un paio delle sue poesie». Così, nel 1994, pochi mesi dopo la morte di Bukowski, Allen Ginsberg consegnava frettolosamente al dimenticatoio quel collega insolente e presuntuoso15. Una profezia che si è dimostrata infondata, se si considera come ancora oggi le opere di Bukowski continuino a essere ristampate e le sue poesie, ben lungi dal chiedere ospitalità in antologie collettanee, splendano di luce propria. A parziale attenuante per l’incauto affondo dell’autore dell’Urlo, va sottolineata ancora una volta la sgradevolezza di Bukowski. La sua inclinazione allo sberleffo lo rende verbalmente irrefrenabile finendo con lo scaturire incidenti diplomatici. È quanto si verifica, anni dopo, a Santa Cruz, dove si trova a dividere ancora una volta il palco con la pattuglia beat. Alla festa che segue, Bukowski, perse le staffe per il rifiuto di Ginsberg, di sei anni più giovane di lui, di farsi un (altro) bicchiere, inizia a prenderlo in giro. «Lo sanno tutti che dopo Howl non hai più scritto un cazzo di buono e rivolgendosi ai presenti: “secondo voi Ginsberg ha scritto qualcosa di buono dopo Howl e Kaydish?”. “Kaddish” lo corresse Ginsberg. “Allen, mi stai massacrando. Sei un barracuda, Allen, mi stai mangiando, con quella lingua” rise, sprezzante, girando su se stesso come un orso ubriaco, mentre, come ricorda Ginsberg, “i larghi pantaloni gli scivo- lavano sul didietro”». Bukowski stima Ginsberg, ma adora menare le mani, non solo metaforicamente, per niente al mondo rinuncerebbe a una battura al fulmicotone. «vedo Ginsberg / passato / dall’Urlo al / miagolio / di professore a / Brooklyn». Il che gli procura comprensibili diffidenze e solide inimicizie.
Lo imparò a sue spese il poeta Harold Norse, con il quale Bukowski tenne una lunga e affettuosa corrispondenza epistolare e strinse amicizia superando i mai celati pregiudizi nei confronti degli omosessuali.  «Una delle principali obiezioni mosse da Bukowski agli scrittori beat era che molti erano omosessuali. “Diceva che se passavi da un caffè all’altro trovavi poeti nascosti nel bagno a leccarsi il buco del culo” racconta Jack Micheline». Bukowski lo chiama con deferenza “Hal, principe dei poeti” e quando nel 1969 l’antesignano dei beat torna da Londra e si sta- bilisce a Venice Beach, Bukowski affronta il diluvio universale per andarlo a trovare, salvo ubriacarsi, indispettire Norse con puerili atteggiamenti di sfida e incrinare anche questa amicizia. Aveva promesso di dedicargli un libro, ma una dedica a un poeta omosessuale avrebbe potuto suonare inopportuna e compromettere la sua immagine. Magari non andò proprio così, ma anche quest’amicizia naufragò nell’incomprensione.
Uno dei beat più simili a Bukowski nel temperamento è il cattivo Burroughs ed è quello che forse potrebbe dispiacergli di meno. L’autore de Il pasto nudo è noto per la sua irascibilità e, a mancargli di rispetto, c’è il rischio di ritrovarsi un altro buco tra gli occhi. La tentazione di prendere in giro chiunque aderisca a quel movimento, di farne delle macchiette nei racconti e nei romanzi, è troppo forte, per Bukowski. Di solito ha l’accortezza di storpiare i nomi per rendere meno esplicito il riferimento a fatti e persone. A William Burroughs fa l’onore di citarlo con il proprio nome, ma non per rivolgergli complimenti. «L’unico bucomane che riesce a cavarsela – scrive nel Taccuino di un vecchio sporcaccione – è William Burroughs, padrone della ditta Burroughs, più o meno, che può fare il duro mentre dentro non è che un fifone porco. a me l’hanno venduta così. vanno in giro a dirlo a bassa voce. sarà vero? sia come sia, vero o no, Burroughs è uno scrittore terribilmente noioso e, se non fosse stato per gli appoggi di qualche papà ben informato sul suo passato letterario, sarebbe praticamente uno zero».
 Nei panni del caricaturista, Bukowski è geniale quanto spietato: a Gregory Corso, nel racconto Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze, va un po’ meglio; a Robert Creeley, in Esaminando i miei pari, saggio pubblicato su Literary Times, decisamente peggio. Definisce quei colleghi ben più famosi di lui «apprendisti stregoni» e rimprovera loro di «mettersi in mostra nel gran baraccone hippy… Giganti dell’umanità? Cazzate. Giganti della pubblicità.
Il movimento beat avrebbe potuto dare una scossa all’assopita poesia americana ma le cose, dal punto di vista di Bukowski, avevano preso una piega inaccet- tabile. «I primi beat, almeno, avevano l’Idea – scrive in una lettera a John Webb del 1 ottobre 1962 – ma sono stati presto affiancati e travolti da impostori, tipi dalla barba ben curata, cuori solitari alla ricerca di un culo disponibile, prime donne, poeti in rima baciata, omosessuali, barboni, turisti: le stesse cose che hanno ammazzato il Village. L’arte non può funzionare tra le Folle. L’arte non ha niente a che fare con i party né con i Discorsi d’Inaugurazione. Può sedersi a un tavolo di fronte a Kruscev, ma soltanto per bersi una birra e parlarci di tutto tranne che di politica…». 
Roberto Alfatti Appetiti

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