giovedì 27 marzo 2014

L'altro Bukowski: stile, verità e purezza (Mario Grossi intervista Roberto Alfatti Appetiti, Il Fondo)

Bukowski ha pubblicato moltissimo. Puoi delineare una bibliografia minima e indispensabile per chi volesse tentare un approccio?
Moltissimo, è vero. Troppo, per alcuni. Nel libro ce n’è una completa, di opere di e su Bukowski. Per iniziare consiglierei Panino al prosciutto, il romanzo più intimo e sofferto, quello in cui racconta la sua infanzia dolente, le violenze subite dal padre, l’emarginazione vissuta a scuola, le prime letture, le poche amicizie, se possiamo chiamarle così, e soprattutto le inimicizie, che saranno assai più numerose e agguerrite. Lo ha scritto solo nel 1982, quando, ottenuto finalmente un certo riconoscimento letterario e raggiunta una a lungo auspicata agiatezza economica, può permettersi di mettere da parte il “personaggio Bukowski” e rivelarsi compiutamente per quello che era: un uomo colto e coraggioso, sensibile e vulnerabile, che aveva sofferto, che aveva attraversato l’inferno e ne era uscito ammaccato, ma vivo. Poi ci sono le Storie di ordinaria follia, un vero cult, ma anche Post Office, il primo romanzo, scritto di getto nel 1970, in cui racconta i suoi anni da postino, prima come portalettere gaudente e poi quale impiegato addetto allo smistamento. Un lavoro noioso che lui trasforma in una “festa mobile”. Questo romanzo in particolare è stato presentato come un libro di denuncia della difficile condizione dei lavoratori, ma Bukowski non è uno scrittore sociale, non è il portavoce di nessuno. È uno scrittore di sentimenti, non di idee. Che gli altri lavorino e che lavorino possibilmente anche al posto suo, non gli crea alcun disagio. Intendiamoci, non voglio dire che il mondo gli piacesse così com’era, più semplicemente era convinto che non sarebbe cambiato, non in meglio, e che non valesse la pena sposare alcuna causa che non fosse la sua. In altre pagine, però, è addirittura profetico nel rappresentare un’umanità schiava del consumismo, al costante inseguimento di bisogni indotti . “Non perdonerò mai il genere umano per quello che è diventato”, scrive. Detto questo, Bukowski va letto tutto, c’è un Bukowski per tutti, basta cercarlo. E lui si fa trovare.

 Dal tuo libro traspare, per me in modo evidente, la passione che hai per Bukowski, da dove nasce e perchè?
R. Nasce per caso, da un’edizione senza copertina di Storie di ordinaria follia. Il libro era di mia cugina, di un anno più piccola di me. Avevamo quindici o sedici anni, non ricordo. In ogni caso eravamo due adolescenti quando Bukowski ci conquistò. C’era il sesso a incuriosirci, nascondercelo sarebbe disonesto, ma non c’era solo quello. Per me fu una rivelazione. Cambiò il mio punto di vista sulla letteratura, non solo americana. Cancellò tutte le letture obbligatorie scolastiche mal digerite fino a quel momento. La letteratura poteva avere un suono più potente di qualsiasi tromba e io sino a quel giorno avevo sentito solo flebili lamenti di scrittori “di professione”, come li chiama Bukowski con una punta di disprezzo. La letteratura era viva, non erano solo pagine morte di autori morti. Dopo Bukowski forse non c’è stato il diluvio ma, semmai, una pioggia di manierismo, una tempesta piatta di pagine inutili, stucchevoli, finte, noiose. Con rare eccezioni, naturalmente, ma non è un caso che Bukowski sia ancora oggi lo scrittore americano più popolare in Europa e che continui a “sedurre” anche i lettori più giovani.
D. La tua biografia mi sembra di una sobrietà e di un equilibrio che sono difficili da mantenere di fronte ad un autore tanto eccessivo. Come sei riuscito a non farti prendere la mano nello scriverlo?
R. Forse perché ho lasciato passare tanti anni senza rileggerlo e rispetto ad allora sono inevitabilmente più disincantato. Il personaggio Bukowski non mi affascina più, non in quanto tale. È lo scrittore che ammiro, quello che si mette controvento, che irride le maggioranze, che demolisce i luoghi comuni e il politicamente corretto, che si fa beffa dei verbosi e dei professori, che non fa gruppo, neanche con la potente lobby dei Beat, che si ostina a rimanere solo, in piedi sulle sue zampe di elefante, come definisce le sue gambe, di cui è fiero. Uno scrittore che rifiuta le convenzioni sociali in nome di una personale concezione dello stile. Chi vuole diventare scrittore, dovrebbe prima leggere Bukowski per vaccinarsi, affinché la scrittura non diventi mai menzogna. Bukowski è onesto e quando, negli ultimi anni, si ritira in una casa con giardino in collina con la sua seconda e ultima moglie, non prende in giro i suoi lettori. Non gli dà più in pasto puttane, sbronze e risse ma offre se stesso: un Bukowski “maturo”, riflessivo e per certi versi malinconico. Arriva persino a misurarsi con un noir, un genere molto distante dalle sue opere precedenti. Molti grideranno al tradimento, ma Bukowski rivendica il diritto di cambiare. Avrebbe potuto continuare a “vendere” il personaggio e condire di sesso i suoi racconti, come aveva sempre fatto, ma sceglie ancora una volta di dire la verità, la sua verità, anche a costo di perdere qualche lettore per strada. Cosa che, a ben vedere, non è successa, anzi…
Che cosa nel personaggio e nello scrittore veramente non sopporti ammesso che ci sia qualcosa che non sopporti?
Non c’è niente che io non sopporti. Credo che Bukowski vada preso così com’è, senza tare. Più di qualcuno ha provato a passare al setaccio le sue opere, a distinguere il Bukowski buono da quello cattivo armandosi di evidenziatori e bianchetto, ma Bukowski è indivisibile. Prendere o lasciare.
Che cosa pensi sia veramente caratterizzante nella sua scrittura?
L’autenticità, l’andare dritto al punto e ricominciare subito, senza pause, spesso senza la maiuscola. Bukowski punta alla verità, anche quando mischia le carte, persino quando sembra danzare sornione sul ring della scrittura. Arriva presto il momento in cui sferra il suo attacco ed è un piacere vederlo assestare i suoi colpi. È arrabbiato col mondo. Non si allea con nessuno. Non scende a patti. Combatte. Ne dà e ne prende, non si risparmia, rischia di soccombere, rinasce dalle sue ceneri come la fenice. E il lettore se ne accorge, si schiera dalla sua parte.
Nel tuo libro viene raccontata la fortuna che ebbe l’autore prima in Europa e solo poi negli USA. Perché ebbe tanta fortuna in Europa, anche se tu lo definisci un autore profondamente americano?
I critici letterari si sono interrogati a lungo sulla questione, c’è stato persino chi ha parlato di un autore dalla sensibilità europea e Bukowski, da parte sua, strizzava l’occhio, stava al gioco. Negli Stati Uniti era ancora un autore semiclandestino, noto soprattutto negli ambienti dell’underground californiano, mentre in Europa i suoi libri già venivano comprati e letti. È l’Europa che gli aveva dato la ricchezza e la fama e non poteva non tenerne conto, ma non è nella mera riconoscenza che si esaurisce il suo rapporto con il vecchio continente. Non rinnegava le sue origini tedesche e negli anni del college, per reagire allo spirito antitedesco dei suoi professori, quasi tutti rigorosamente di sinistra, si divertiva ad assumere pose naziste. E non dimentichiamoci che la seconda guerra mondiale si apprestava a entrare nel “vivo”, figuriamoci con quale entusiasmo venivano accolte le sue esternazioni pro-hitleriane. A muoverlo era il suo furore provocatorio, il voler essere controcorrente, indipendentemente da quel che poteva piacere o meno alla massa. Ma Bukowski è americano a tutto tondo e a pieno titolo, lo è più di quanto non lo siano l’America di cartapesta letteraria che è stata importata in Italia dagli americanisti e quella cinematografica confezionata a Hollywood ed esportata in tutto il mondo. Bukowski è l’America reale, quella in cui il sogno americano non ha mai attecchito, quella senza effetti speciali, quella dei derelitti, degli ultimi, dei dimenticati. Il resto è fuffa da telefilm. L’America di Bukowski non è roba da format televisivi. C’è più America nei racconti di Bukowski che in tutti i film americani dal dopoguerra a oggi.
Condividi la mia idea che tutti gli eccessi dell’autore siano accessori al suo vero spirito che fu quello di rappresentare, seppur con un taglio anomalo, verità e purezza.
Mi sembra la sintesi migliore. Verità e purezza, con un taglio anomalo. Sottoscrivo.
Anche se Bukowski li aveva in odio, pensi che ci sia qualcuno che ne possa raccogliere il testimone?
Bukowski non ha eredi e non può averne perché la matrice era egli stesso. Chi lo imita, non può che esserne la fotocopia sbiadita, la caricatura. Bukowski detestava i suoi emuli, i sessantottini, i protestatari, i pacifisti e tutti coloro che lo hanno usato come icona. A distanza di vent’anni la bandiera Bukowski può essere ripiegata e messa definitivamente nel cassetto e si può parlare dell’autore dai gusti letterari raffinati e sorprendenti, che amava “colleghi” politicamente impresentabili come Céline, Pound, Knut Hamsun e John Fante. Una bella banda di irregolari, proprio come lui.
Per ultimo pensi che noi, suoi lettori, siamo veramente tutti degli stronzi?
Un po’ stronzi? Sì. Forse sì. Ma Bukowski, al di là delle battute, rispettava i suoi lettori, rispettava gli individui almeno quanto disprezzava le masse. È quando siamo in tanti, che diamo il peggio di noi stessi.
a cura di Mario Grossi

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