mercoledì 26 marzo 2014

Né santino, né gadget, né poster, Bukowski era uno scrittore autentico (Mario Grossi, Il Fondo)

Da Il Fondo Magazine di Miro Renzaglia
Recensione di Mario Grossi

Se c’è un pericolo che aleggia nel mondo della letteratura, nel business ad esso collegato, nel lettore poco accorto e pronto ad inchinarsi di fronte al testo o peggio nel trasformare il testo in una specie di catechismo buono alla santificazione dell’autore, è credere che un autore sia una figurina di un album della Panini.
Peggio ancora quando l’icona santificata dell’autore prende il sopravvento sul testo e gli ammirati discepoli rinunciano alla lettura per darsi invece all’adorazione dei simulacri della divinità che è stata costruita. È così che si giustificano gli innumerevoli gadget fatti di poster, di aforismi, di racconti agiografici che prendono il sopravvento sull’opera impedendo qualsiasi ragionevole approccio con l’autore.

La storia dell’editoria è piena di questi esempi. Basta ricordare la triste fine che è toccata ad autori come Pound, il poeta ingabbiato che assai pochi si sono presi la briga di leggere, o a Brasillach, icona del poeta fucilato, dell’intellettuale che ha scelto la parte sbagliata e che ha pagato un duro tributo alla sua scelta. Ma sono solo due esempi di come l’immagine possa oscurare completamente l’opera travisandola o deformandola in maniera indelebile.
Non è scampato a questa dannazione neanche un autore come Charles Bukowski che per troppo tempo è rimasto incastrato tra due sponde entrambe colpevoli di strabismo, quella dei grandi detrattori e quella degli insulsi adoratori, entrambi viziati nel loro giudizio da una lettura disattenta e distorta che ha preferito dare fiato più al personaggio che al suo corpus letterario.
Certo non è facile separare, in un autore come Bukowski, il personaggio costruito, dalla genuina personalità dello scrittore, perché è proprio lui che, per tutta la sua vita, ha alimentato lo stereotipo che gli veniva cucito addosso. I suoi lettori volevano il personaggio? E lui li accontentava «Sono salito sulla pedana e ho aperto una lattina di birra. Mi acclamavano mentre scolavo la lattina. Erano degli stronzi, erano i miei lettori».
Ma se è difficile dare un giudizio imparziale sul personaggio, è altrettanto difficile guardare all’autore senza farsi influenzare dal suo modo di vivere. Difficile e ambiguo riuscire a separare la vita dell’autore dalla sua opera letteraria.
Bukowski è uno degli autori che più di ogni altro ha fatto coincidere, al di là di quello che molti pensavano su di lui e sulle sue pose, la propria vita e la propria scrittura. A tentare di dare una lettura lineare, al di sopra del groviglio di ambiguità e di contraddizioni che Bukowski rappresentò, arriva nelle librerie Tutti dicono che sono un bastardo di Roberto Alfatti Appetiti che, fin dalle prime pagine della sua biografia, si mette e ci mette in allerta sulla difficoltà per il biografo di navigare in maniera onesta nel ginepraio stratificato della vita e dell’opera di Bukowski.
Non si nasconde il nostro biografo questa difficoltà, raccontare la verità su un autore come Bukowski è opera da farsi venire i vermi perché le molteplici stratificazioni e incrostazioni che la oscurano sono in parte derivate dai suoi lettori meno rigorosi (gli stronzi di cui sopra) che amavano più le pose che la sua scrittura, dai professionisti dell’editoria che, per vendere, si sono prestati a far prevalere il personaggio e i suoi eccessi, dai suoi detrattori che, per avere facile gioco nella demolizione, volentieri e acidamente si sono più concentrati sul depravato piuttosto che sulla sua scrittura ma anche a causa di Bukowski stesso che, fregandosene bellamente di quello che gli ruotava intorno, ha alimentato una falsa (o vera) immagine di se ritagliata su quello che la gente voleva che lui fosse, per poi tranquillamente continuare a fare quello che più gli piaceva: vivere il suo mondo e scrivere.
Roberto Alfatti Appetiti sceglie una via che a me sembra la più rigorosa dal punto di vista filologico, rinunciando al troppo detto su Bukowski e concentrandosi sulla lettura della sua opera. D’altronde è lo stesso scrittore che ci racconta di quanto la sua vita e la sua scrittura, sia essa prosa o poesia, siano coincidenti in maniera disarmante: “La mia ex moglie si incazzava sempre perché io ridevo della mia stupidità e dei miei errori, e questa non è una cosa buona, ridere dei propri fallimenti, e lei si è rapidamente sbarazzata di me quando ha visto che l’uomo non le sembrava all’altezza delle poesie, ma deve aver letto male le poesie perché l’uomo e le poesie erano esattamente la stessa cosa”.
Ne esce così una narrazione profonda, in presa diretta, che traccia un ritratto sincero che scava nelle ambiguità, che tenta di sciogliere i nodi intricati, e che riporta costantemente in primo piano l’opera letteraria. Il nostro biografo, pur raccontandole, rinuncia a spingere sul facile acceleratore delle note più pulp e truculente della vita di Bukowski: sbronze, puttane, misoginia, nazismo, risse, insulti, il gioco ai cavalli, per tracciarne un profilo più lieve ma anche più vero, sottolineando gli aspetti più genuini del suo essere. Drop out d’accordo ma assolutamente certo, nella sua integrità, di non voler far parte di nessuna conventicola, lui scrive per necessità (interiore), di ripudiare l’accademia, visto che tutti i professoroni poeti scrivono di cose che non sanno falsificando così la loro scrittura, di schierarsi sempre e comunque contro le blandizie ipocrite del politically correct fino a dirsi nazista o misogino.
Quello che viene restituito è un profilo di una persona che ha a cuore, al di là di tutti i depistaggi, di tutti gli eccessi, di tutte le contraddizioni, di tutte le dissoluzioni, una cosa sulle altre: rappresentare una verità scarnificata da tutte le ipocrisie che sono corredo dei molti inutili cantori che calcano le scene letterarie e che si preoccupano solo della loro immagine pubblica e della loro carriera. È folgorante, almeno per me, una citazione che mette a fuoco più di tanti altri passaggi questo suo desiderio di purezza e verità.
Sono le parole della figlia che così racconta il padre: «Non parlava in quel modo condiscendente in cui un sacco di adulti credono di dover parlare ai figli, e il risultato era che mi sentivo molto più vicina a lui….. mi ha fatto capire sia con i fatti sia con le parole che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e su quell’amore, da bambina, ho sempre sentito di poter contare. È qualcosa di basilare e importante, che ti permette di affrontare il mondo con ottimismo». Un bel lascito se si pensa che quel padre era agli occhi superficiali di molti un ubriacone puttaniere senza fissa dimora e lavoro stabile.
Questo ci racconta la biografia di Roberto Alfatti Appettiti. Di un Bukowski che ha cercato, come perno di una vita anche sregolata ed eccessiva, l’autenticità e la ricerca della sola cosa che possa dare un senso a un uomo: fare quello per cui si è veramente vocati, senza infingimenti, senza contropartite, fino in fondo, con forza, alla faccia di tutto il resto. Solo se senti con tutte le forze di doverlo fare fallo, altrimenti lascia perdere. Non provarci nemmeno. Sarebbe un’inutile finzione, una perdita di tempo.
Non a caso sulla sua lapide sono incise solo due parole “Don’t try”. Non ci provare. Lo stesso Bukowski così le spiegò: “Ho voluto dire che se le cose non vi saltano addosso e vi impongono di essere portate a termine, non dovete farle, dovete dimenticarvele, in letteratura come in ogni situazione”. Un poeta e la sua unica vocazione. Merito di Roberto Alfatti Appetiti, nel suo sobrio e smisurato amore per lo scrittore, avercelo ricordato, ripulendolo da tutte le incrostazioni accessorie.

Mario Grossi

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