lunedì 7 aprile 2014

Attraversando Bukowski (Adriano Scianca, Il Primato Nazionale)



Roma, 7 apr – Ci sono tre categorie di persone che non dovrebbero parlare mai di Henry Charles Bukowski. La prima è ovviamente quella dei pallidi epigoni: veri maleducati e finti maledetti, ristagnano negli atteggiamenti alla Chinaski e, quando parlano del loro idolo, ripetono all’infinito solo storie di sbronze sempre uguale a se stesse. La seconda è quella dei redentori: volendo sottrarre Buk alla macchietta, fanno finta che quelle sbronze non siano mai esistite e cercano di spiegarci quanto in realtà nobile, raffinato, idealista fosse l’autore di Pulp. Il terzo tipo di persone che non devono parlare di Bukowski sono infine gli anti-bukowskiani ontologici, quelli che non lo capiscono, non sono alla sua altezza, non riescono a entrare nel suo meccanismo letterario, quelli che gli fanno la morale.
Il principale merito di Roberto Alfatti Appetiti, nel suo Tutti dicono che sono un bastardo (Bietti, pp. 331, € 19,00), è proprio quello di essersi tenuto lontano da tutti e tre gli errori di cui sopra e di aver voluto semplicemente raccontare uno dei più grandi scrittori americani del ’900 per quello che era, senza compiacenze e senza indulgenze. Ne esce un ritratto che potremmo definire misurato. Il che, parlando di un autore smisurato – nelle bevute, nelle avventure sessuali, nei toni, negli insulti, nel turpiloquio, nei giudizi – è cosa particolarmente rara ma, qualora accada, anche benedetta.

La macchietta, il Bukowski che arriva a casa e ti vomita sulla moquette, non è posta sugli altari né esorcizzata. Piuttosto attraversata, raccontata passandoci in mezzo, ma per andare oltre. Negarla, è impossibile: lo scrittore indugia troppo sulla sua vita da “moscone da bar”, ci costruisce troppi racconti, lo ricorda in troppe interviste, lo improvvisa in troppi reading per poter semplicemente far finta di nulla. Bisogna, quindi, sedercisi almeno per un attimo su quegli sgabelli lerci dei bar di Alvarado Street, fra puttane, alcolizzati, spostati e marginali. Poi, però, da quelle bettole bisogna uscire, sciacquarsi la faccia con acqua fredda e inquadrare tutto in una prospettiva più ampia.
È qui che il libro di Alfatti Appetiti colpisce maggiormente nel segno. Mostrandoci, per esempio, il Bukowski che divora le melodie di Brahms o i film di Kurosawa. Un personaggio, quindi, molto meno unidimensionale di quanto non se lo rappresentino gli studentelli in cerca di cattive sbronze che, sempre più numerosi, andranno a suonare alla sua villa di San Pedro dopo la sua elezione (non voluta e mal sopportata) a outsider di successo generazionale.
È il Bukowski che riscopre e consacra praticamente da solo quel John Fante che la critica aveva colpevolmente dimenticato, forse perché troppo fiero delle sue radici italoamericane, troppo cattolico e al tempo stesso troppo nietzscheano, troppo estraneo ai circuiti progressisti che contano. È il Bukowski che insulta tutti gli scrittori statunitensi della sua generazione (epiche le sue battaglie con i beat, non foss’altro per la sbrigativa catalogazione che ne faceva spesso uno di loro) ma che pende dalla penna di Céline, Dostoevskij, Hamsun e, ovviamente, “l’ultimo degli europei”, l’americano Pound.Sono i bad boys che la sera vanno a riunirsi sotto la sua veranda immaginaria, nella bellissima “Them and us”. “Dovrebbero trovarsi un lavoro”, borbotta l’odiato padre piccolo borghese ed eternamente in cerca di riconoscenza sociale.
“Ce l’hanno un lavoro”, dissi
io.
“Un accidenti”, disse mio
padre.
“Esattamente”, dissi
io.
Non sfugge, ovviamente, il fatto che gran parte della combriccola non abbia esattamente un pedigree democratico impeccabile. Di questo parla il capitolo intitolato “Camerata Bukowski”, che ricostruisce le giovanili pose da nazista del giovane Hank, giusto il tempo di far imbufalire i figli della buona borghesia che in quegli anni stavano approntando la santa crociata per liberare l’Europa, a cominciare da quella che era pur sempre la nazione d’origine dello scrittore nato a Andernach.
Al di là delle sconnesse nazisticherie giovanili, tuttavia, è certo che Bukowski fu sempre ostile all’intellighenzia di sinistra in tutte le sue forme. Odiava i comunisti, odiava gli hippy, di certo non gli stavano simpatici gli omosessuali, insultava regolarmente le femministe mentre non aveva granché contro i neri: da ex proletario, aveva sopportato le angherie dei superiori wasp insieme a troppi colleghi venuti dai ghetti per poter essere un devoto del white power. Non aveva, ovviamente, nessun ideale positivo di tipo conservatore o, men che meno, realmente fascista, per l’ottima ragione che probabilmente non aveva alcun ideale positivo. Ma la sua critica feroce contro tutto il mondo progressista basta e avanza per relegare Hank almeno nei pressi del cattiverio, il cui confine varcherà spesso senza mai soggiornarvi stabilmente.
D’altro canto, Tutti dicono che sono un bastardo si tiene ben lontano anche dalla costruzione di una contro-immaginetta su di un implausibile Bukowski santo. L’uomo, al contrario, ne emerge pieno di limiti. Non era un granché come amico, essendo la riconoscenza non esattamente una delle sue priorità. Del resto, se stavi per crepare lasciando al mondo una vedova inconsolabile, potevi andartene sapendo che dopo qualche settimana Hank avrebbe potuto offrire un cunnilingus a tua moglie (lo ha fatto veramente, e senza utilizzare la grazia dell’espressione latina).
Insomma, dietro la facciata del vecchio sporcaccione non c’era il volto di un puro a redimere il quadro, ma la complessità di un uomo in carne e ossa, con le sue stratificazioni, i suoi lampi di genio e le sue mediocri opacità. Tutti dicono che sono un bastardo ce lo racconta in modo appassionante e piacevole, senza tic e senza malizie. Si tratta, in fondo, di un libro onesto. È l’aggettivo che meno sarebbe dispiaciuto ad Hank.
Adriano Scianca
FONTE: IL PRIMATO NAZIONALE

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