lunedì 23 giugno 2014

Tutti dicono che sono un bastardo (la recensione di Giuliano Compagno, L'Indro)

Da Charles Bukowski a noi liberi

Una biografia intellettuale: 'Tutti dicono che sono un bastardo' di Roberto Alfatti Appetiti

di Giuliano Compagno
A me del destino della destra italiana importa meno  che dell’estinzione della zanzara tigre. Nè mi interesso al paesello di politicanti fallimentari, prestati e rivenduti a seconda dei venti e delle bandiere. E nemmeno ai finti duri e puri (alla Francesco Storace, insomma) che pontificano coerenza, come se quei loro pulpiti non fossero sgabelli scricchiolanti al tramonto di carriere, per noi italiani, letali o, ben che sia andata, inutili. Ciò valga da premessa e si cancellino in fretta i contenuti.
Altresì, avrei ancora a cuore il presente di una comunità intellettuale che da decenni va illustrando la filosofia, la letteratura, le arti e il giornalismo italiani. Ancor oggi in essa coabitano persone di vaglia, ciascuna avendo seguito il proprio sentiero, ciascuna pagato quella tassa di indipendenza che, dagli anni Novanta in poi, veniva esatta da chi si ostinava a non unirsi al coro dei neo-vincenti, da chi infine non s’era dato un prezzo. I nomi che mi vengono? Al rischio di ometterne di importanti e di meritevoli, Marco Tarchi, Franco Cardini, Massimo Fini, Gerardo Picardo, Michele De Feudis, Nicola Rao, Luciano Lanna, Andrea Marcigliano, Annalisa Terranova, Carlo Gambescia, Umberto Croppi, Aldo Bussagli ... E Roberto Alfatti Appetiti, alla cui ultima impresa editoriale cercherò di ispirarmi anche per accennare a questa squadra di irregolari. E non a caso il volume a cui mi riferisco è dedicato a una delle figure più inclassificabili e controverse della letteratura novecentesca, Vita di Charles Bukowski è il sottotitolo di 'Tutti dicono che sono un bastardo' (Edizioni Bietti).
Una biografia di altissimo spessore critico, quella di Alfatti Appetiti, perché era assai complicato rendere l’ipostasi di un mito, specie  se quella sua stessa leggenda, a ben vedere, per anni si sarebbe retta sul duplice stereotipo della trasgressione e dell’eccesso. Era come se dall’alcool e da una copula sgorgasse inchiostro. Possibile ridurre a questo una sensibilità che spesso superava la percezione comune, per colta che fosse? Scrive AA (sigla che ottimamente equivale a un rating letterario!): «Bukowski non ha mai bussato alle porte dei cenacoli letterari, anche perché non gli avrebbero aperto. Ha lottato, sì, contro tutto e tutti, ma per salvaguardare il suo spazio vitale e la sua dignità di uomo. Le abitudini altro non sono che una trincea scavata giorno per giorno per difendersi meglio ogni qualvolta il mondo tornava a farsi sotto». Pur se leggibile alla fine del libro, questa illuminazione ne è l’origine. Da essa si trae una emozione che nulla ha a che fare con l’autocompiacimento di chi si maledice e si vaneggia. Ad esempio, AA non è scrittore che vaghi per la Marsica con una bottiglia in mano; è un uomo pacato, che ha dedicato impegno al suo territorio di adozione (l’aquilano) e che ha collaborato con quotidiani e periodici di cultura alternativa, sempre pubblicando articoli di impostazione post-ideologica. Egli è un intellettuale che sarebbe assurdo definire 'di destra', benché egli si sia ritrovato in quel versante lì, o in quella piccola trincea personale da cui si faceva fatica a emergere, a trionfare nei premi letterari grazie alle conoscenze giuste, a scrivere per le maggiori testate nazionali, magari senza errori di sintassi e con idee proprie, non orecchiate...
Lungi da me appigliarmi a forme di vittimismo epocale, ché ormai apparterrebbero a un tempo andato. Oggi le istituzioni della cultura e della comunicazione pullulano di ex militanti, lì approdati nel periodo di man bassa, in cui si assumevano anche le rese di magazzino grazie a fior di segnalazioni di questo o quel notabile in quota partito, o corrente.
La questione politica, ormai, è fumo negli occhi e chi la solleva questo fumo vende. Fuori dalle stanze, in trincea, ci sono ancora Bukowski e i poeti come lui, e cioè i pochi pensieri in azione ancora resistenti contro l’omologazione di un Paese senza memoria né utopia. È stato un fatto di testa, di libertà interiore, di noia che veniva avvertita al primo tintinnio di calice, è stata un’idea che rimandava ad anni lontani in cui, bambini che si era, scegliere di stare da un parte e non dall’altra atteneva a una diversa concezione del gioco, allo smascheramento delle sue regole, all’indossare la maglietta più sdrucita da nascondere sotto la tuta per tornare a casa senza punti in testa o, almeno, vivi. Era lo scandalo di uno scrittore che la sinistra pensa 'suo' e che invece si spazientisce dinanzi alla scontatezza dei riferimenti che gli propone l’ottima Fernanda Pivano, e così le risponde citando Knut Hamsun, Ezra Pound e Louis Ferdinand Céline... «Credo sia una cosa comune a molti scrittori, quando vedono che tutti vanno in una direzione, loro automaticamente vogliono stare dalla parte opposta. È per questo che sono scrittori. Sono creature strane. Non penso che Céline, Hamsun e Pound credessero davvero nel fascismo o nel nazismo, semplicemente non potevano sopportare che tutti andassero in una direzione, e così sono andati dall’altra parte. Non mi aspetto che tu capisca».
E qui Alfatti Appetiti mostra la sua sapienza nel muoversi da pagina a pagina, e torna a sfogliare un’opera di insuperabile lucidità, quella Tentazione fascista di Tarmo Kunnas, data alle stampe nel 1972 e tradotta dieci anni dopo da Marco Tarchi e da Guidalberto Bacci di Capaci per le edizioni Akropolis. Docente di storia delle letterature presso l’università dell’impronunciabile cittadina di Jyväskylä, Kunnas sottolineò in che misura l’immaginazione, la fantasia e la costruzione di una identità eterogenea, assai più della dottrina politica, avessero attratto gli animi tormentati di molti immensi autori del XX secolo: «La grande idea-guida degli scrittori in questione»,  scriverà il pensatore finlandese, «è il rifiuto dello spirito materialista, utilitario e superficialmente razionalistico del ventesimo secolo. E al tempo stesso il rifiuto di qualsiasi forma di determinismo... L’uomo moderno rischia di dimenticare - a causa della sua fiducia nella ragione, nelle leggi della storia - che il vero progresso è dovuto agli sforzi individuali... In tale contesto non posso soffermarmi sui dettagli ma vorrei dire che la visione del mondo rappresentata dai nostri scrittori non è necessariamente fascista». In queste poche righe alberga il gigantesco equivoco che ha pesato sulla comunità non-conformista occidentale del ‘900. E su Charles Bukowski, che vi appartenne senza visti d’ingresso o parole d’ordine. E sui tanti Amici che ho citato o malamente dimenticato, i quali non hanno mai aderito a una visione del mondo che fosse 'permeata' di vuoti valori da agghindare per le feste comandate, o di quel mortifero culto degli eroi che tanto spesso è stato celebrato come se si trattasse di trofei in bacheca e non già di silente dolore.
A questi Amici sono riconoscente perché grazie a loro ho potuto avvertire con certezza che il gioco dei due schieramenti fosse terminato da un pezzo. Da tempo con colui che era l’Altro ci riconosciamo e ci sappiamo persino abbracciare. Da tempo la poesia e il pensiero sono proprietà universali e si mischiano come note di un grande concerto.  Insomma, è per dire che stanotte ho chiuso 'Tutti dicono che sono un bastardo' di Roberto Alfatti Appetiti e ho sentito la presenza di comunità molto più vasta, in cui nessuno e niente fossero al centro di qualcosa. Perché più libro ti piace e ti emoziona, più pensi ad altro, più ritrovi te stesso.  
Fonte: L'Indro

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