Visualizzazione post con etichetta Secolo d'Italia (Una firma un libro). Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Secolo d'Italia (Una firma un libro). Mostra tutti i post

sabato 9 dicembre 2006

L'anticomunista che la sinistra vuole fare santo

Dal Secolo d'Italia del 7 settembre 2006
Rubrica estiva "Una firma, un libro"
Rimini non gliel’hanno perdonato, a Pier Vittorio. Storiella estiva, l’hanno liquidata arricciando il naso gli ortodossi del tutto è politica. Romanzo di consumo, hanno sentenziato i critici impegnati, alternando stroncature a più indulgenti tiratine d’orecchie e sottolineando malevoli come Tondelli, nato in Feltrinelli, si fosse affrettato a vendersi all’editore Bompiani. Niente a che vedere con la vena più autentica dello scrittore - l’hanno rimbrottato - che già pensavano di schierare in camicia rossa contro il sistema. Sì, perché quando Tondelli esordisce venticinquenne con Altri libertini (Feltrinelli, ’80) la forza dirompente della sua scrittura è un cazzotto nello stomaco di una società letteraria mai stata così conformista. I sei racconti che compongono l’opera suscitano scandalo. Viene sequestrata dall’autorità giudiziaria e considerata «luridamente blasfema» (Tondelli viene successivamente assolto e il libro torna in circolazione). Sotto accusa è il linguaggio crudo e la tematica autobiografica dell’omosessualità, presente anche nel successivo Pao Pao (’82), sigla di “Picchetto Armato Ordinario”, l’educazione sentimentale di giovani militari di leva «in balia di trasferimenti e ordini e comandi». E’ con Rimini (’85), però, che arriva il successo di vendite: oltre centomila copie. Siamo tanti, evidentemente, ad accompagnare il ventisettenne milanese Marco Bauer, giornalista rampante, nel suo nuovo incarico di responsabile della Pagina dell’Adriatico nel capoluogo romagnolo. E chi di noi non ha desiderato sin dalle prime pagine la bellissima e ammiccante collaboratrice Susy o provato stizza per le pachidermiche reazioni del vecchio corrispondente Zanetti? Mentre divampa l’estate e Rimini esplode di vitalità, la trama si tinge di nero con il misterioso ritrovamento in mare del cadavere di un notabile della sinistra democristiana, il senatore Attilio Lughi. Bauer, improvvisatosi investigatore per conto del giornale, scoprirà la verità salvo poi vederla bruciare nel rogo di un incidente e la cenere seppellita in un gioco più grande di lui. Ma Rimini è un romanzo tutt’altro che moralista, scritto con un originale stile cinematografico e rappresentato in uno scenario compiutamente postmoderno nel quale si restituisce, come in un videoclip, l’euforia del sogno collettivo degli anni Ottanta. Il romanzo diventa così il contenitore ironico, effervescente, mondano, di tante storie personali, brevi ed intense, nelle quali pulsano di vita le mitologie nazionalpopolari e quel misto di kitsch da spiaggia e da discoteca che fa parte a pieno titolo dell’immaginario giovanile. E su tutto c’è la musica, assordante o lieve, sempre, perché di musica Tondelli è onnivoro e scrivere per lui è come cantare: «è il mio modo di far sentire la mia voce». Ma a dare fastidio ai palazzi della cultura c’è soprattutto l’indelicatezza di aver raccontato un caso di corruzione politica - siamo ancora lontani da Tangentopoli - di cui è protagonista un democristiano. «E’ uno che parte dalla Resistenza e poi flirterà coi gruppi dell’estrema sinistra. Il problema principale di questa sinistra cattolica era se entrare nella società per farla diventare cristiana oppure restarne fuori, se mettere le mani nel potere e sporcarsi oppure non sporcarsi. Noi sappiamo quale è stata storicamente la scelta, quella di sporcarsi le mani e magari di farle sporcare anche a tanti altri» ha detto Tondelli. Il libro non viene presentato a Domenica In, nonostante fossero stati presi al riguardo precisi accordi con la direzione della Rai. E’ lo scrittore a raccontare l’episodio di censura: «La versione ufficiale è che, trattandosi di una rete democristiana, non si poteva parlare di un democristiano. Non so aggiungere altro». E non può aggiungere altro, perché l’aids l’ha portato via nel ’91, a soli trentasei anni. Da allora non hanno fatto altro che tirarlo per la giacchetta, le sue opere non sono state soltanto lette, cosa auspicabile, ma studiate, vivisezionate. Dopo la sua morte, infatti, non è mancato chi ha cercato di incasellarlo nel proprio schieramento ideologico, di farne un’icona generazionale, un santino, un militante postumo. Fa sorridere, ad esempio, che lo scorso anno, in occasione, del 50° anniversario dalla nascita, la festa nazionale dell’Unità abbia voluto celebrarlo. Mentre dal versante opposto si muove un inconsueto quanto articolato fronte cattolico, composto da Avvenire e da Civiltà Cattolica e guidato da padre Antonio Spadaro, che lo vorrebbe “Santo” invocando la religiosità degli ultimi anni. Le due letture, entrambe tendenziose, pongono i loro accenti su aspetti diversi e contrastanti del percorso umano e culturale, prima che letterario, di Tondelli. Quasi che non fossimo davanti soprattutto ad uno scrittore delle emozioni, sulla scia dell’amatissimo John Fante, che lo scrittore emiliano riscoprì in Italia prima di chiunque altro. «Le mie storie sono emotive. Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è la letteratura». Non riconosce altri maestri che Louis Ferdinand Céline: «Grande genio, vera letteratura di potenza, Altri libertini si basa sulla sua lettura». A dispetto di una cultura ufficiale che impone il verbo “sinistro” dell’internazionalismo, Tondelli, rivendica la continuità ideale con i grandi scrittori come Gadda, Parise e Brancati, che hanno messo la provincia al centro della loro opera. «Il termine provincia o provinciale li ho sempre sentiti in modo positivo perché stanno a significare una serie di valori o di tradizioni che vengono magari cambiati, ma hanno una solidità, che restano». Sino a concludere, con incredibile lungimiranza: «Questa è la sua forza, della letteratura che racconta la provincia, e questa, anche andando verso l’Europa, credo sia una delle strade più percorribili, quella delle comunità locali o regionali, più ristrette rispetto alle metropoli». Lo imbarazza essere presentato come il «nipotino di Kerouac». «La retorica legata alla figura dello scrittore americano sembrava relegarmi nel ruolo del solito, stupido ragazzino invasato che, appena si sente libero di viaggiare, incomincia a predicare su tutto e tutti». A stimolarlo è la ricerca «di una scrittura nuova, analogamente a quanto avevano fatto negli anni Cinquanta gli autori come Kerouac, che avevano messo al centro della narrazione le piccole cose d’ogni giorno, i personaggi emarginati, gli accadimenti quotidiani». I suoi gusti letterari sono altri, adora Tolkien con una «costanza verso l’opera» conservata nel tempo, a differenza di «altri miti letterari dei miei vent’anni», verso cui nutre «ora freddezza, a volte un fastidioso distacco». Rileggerlo significa «confrontarci con chi eravamo anni fa. Perché, in fondo, vorremmo saper rileggere quel libro come se fosse la prima volta». La politica partitica non lo appassiona. Si definisce «infantilmente apolitico». Certo non è di sinistra. Raccontandosi in terza persona su Linus, si descrive così: «Il ragazzo non avrebbe fatto parte di nessuna organizzazione politica dell’estrema sinistra, né occupato scuole, avrebbe contestato il nozionismo degli insegnanti in modo individuale». La scelta di non schierarsi gli costa la freddezza dei potentati culturali, ma non se ne fa un problema. «I salotti non mi hanno mai interessato». Non riconosce la società letteraria come tale: «L’ambiente letterario italiano mi sembra diviso a metà tra un giornalismo fatto un po’ di ripiego e un accademismo delle università. Non mi sembra che esista una società letteraria vera e propria». La sua attenzione è per quella «marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, di cui i giornali non si occupano, che le trasmissioni non fanno parlare, le firme non intervistano, questi i ragazzi che danno speranza, i ragazzi che pensano e cercano nell’oscurità la propria via individuale». Si è sempre rivolto ai giovani senza paternalismi e ammiccamenti, ma piuttosto come un fratello maggiore che non esita a rimproverare loro un certo conformismo, quel «vestirsi tutti in uno stesso modo o pensarla alla stessa maniera per poi rivendicare un’illusoria diversità, come mi sembra stia accadendo ora. Bisognerebbe forse capire che, nella civiltà dell’immagine, l’immagine non conta più e la diversità può essere solo interiore». Le sue opere altro non sono che «il tentativo di portare nella letteratura il mondo giovanile» e viceversa. Li sprona: «Perché non scrivete pagine contro chi odiate? Siete voi che dovete prendere la parola e dire quello che vi va e quello che non vi va. Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto». Ed è proprio per l’allergia nei confronti degli «specialisti» che Tondelli lancia il Progetto Under 25: raccogliere e pubblicare in volume le opere di giovani talenti. In cinque anni sono tre le raccolte che vedono la luce e coinvolgono ventisei autori, alcuni dei quali oggi sono scrittori affermati (Romagnoli, Ballestra, Culicchia) anche grazie a lui. Ha stimolato le loro individualità, senza strumentalizzarli o omologarli. «Questo perché non era nelle mie intenzioni dimostrare niente di niente, né proporre una condotta ideologica o canoni estetici, ma mettere semplicemente insieme un libro di giovani, realmente giovani, autori». Rivolge loro un’unica raccomandazione: «astenetevi dal dare giudizi sul mondo, per quello ci sono già i filosofi e i politologi». Si sente lontano anni luce dai giovani militanti di sinistra. Quando una sera, durante un’occupazione universitaria, si trova tra gli studenti della Pantera, sente di provare per loro «una specie di ostilità. Forse più che ostilità è indifferenza. Perché sono ancora, in questo momento, lo spaurito studente di quindici anni fa che sente la propria separatezza dalle lotte degli altri come una condanna inappellabile». Il nostro auspicio è che oggi lui abbia vinto definitivamente quel senso di estraneità e che abbia trovato nella morte quello che Bruno, uno dei personaggi principali di Rimini, «ha sempre cercato nella vita: la verità e l’assoluto».

Il giovane Holden e le sviste dei sessantottini

"Ricco, snob, bugiardo, individualista, vagamente céliniano: come ha fatto l'eroe di Salinger a diventare un mito delle sinistre? Persino la traduttrice se lo chiede ancora".
Dal Secolo d'Italia del 22 agosto 2006,
Rubrica estiva "Una firma, un libro"
«Se Accio avesse incontrato il giovane Holden lo avrebbe gonfiato di botte». Parola di Antonio Pennacchi, che ben conosce, per averlo egli stesso brillantemente tratteggiato, il carattere burrascoso e attaccabrighe del protagonista del suo formidabile romanzo (Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, Mondadori 2003). E, per certi versi, Accio avrebbe probabilmente avuto le sue buone ragioni e tutta la nostra comprensione. E non soltanto la nostra. Holden Caulfield è irriducibilmente indisponente, scostante e umorale. Maurice, «l’uomo dell’ascensore», gli sferra un pugno nello stomaco perchè si rifiuta di pagare per intero la tariffa di Sunny, la prostituta (con la quale, peraltro, Holden si è limitato a chiacchierare). L’amico Carl Luce lo pianta da solo nello chiccoso Wicker Bar di New York, esasperato dal suo tono alto, insistente e irritante. L’amica Sally scoppia a piangere e se ne va infuriata perché, dopo averle dichiarato il proprio amore e proposto inverosimili fughe «in un qualche posto nel Massachusetts o nel Vermont», prima le dice «mi stai sulle scatole che non ne hai un’idea» e poi le sghignazza in faccia. E cosa dire del tassista che Holden si ostina a tormentare per sapere «dove vanno le anatre di Central Park quando il lago ghiaccia?» Insopportabile. Eppure da adolescenti ci siamo appassionati alle stravaganti ed esilaranti avventure di questo diciassettenne alto e magro, sincero quanto spudoratamente bugiardo e lo abbiamo seguito con partecipazione quando, dopo essere stato espulso dal prestigioso college Pencey in Pennsylvania pochi giorni prima di Natale, piuttosto che tornare a casa ad affrontare i genitori, preferisce ciondolare per New York, ubriacarsi, pattinare sul ghiaccio, recarsi a teatro cercando goffamente ragazze alle quali promettere amore eterno. Del resto il celeberrimo romanzo di Jerome David Salinger, pubblicato per la prima volta negli States nel luglio ‘51, ebbe un immediato e straordinario successo soprattutto tra i giovanissimi. Tradotto in ben venticinque lingue, caso esemplare di long-sellers, vende ancora oggi, soltanto negli USA, oltre duecentomila copie l’anno e le vendite complessive hanno superato da tempo i sessanta milioni di copie: un cult. In Italia, dopo una prima traduzione con il titolo Vita da uomo (Casini, ‘52), divenne popolare come Il giovane Holden (Einaudi ‘61). La scelta di affidare al nome del protagonista il titolo del romanzo nasce dalla difficoltà a tradurre quello originale, che letteralmente suonerebbe come l’acchiappatore nella segale. Il catcher, “il prenditore”, è una figura ricorrente nell’immaginario statunitense: è il giocatore della squadra di baseball che, munito di guantone, corazza e maschera, afferra la palla tirata dal lanciatore quando il battitore non riesce a respingerla con la mazza. Rye è un popolare tipo di whisky ottenuto dalla fermentazione della segale. E’ lo stesso protagonista , rivolgendosi all’amata sorellina Phoebe, a chiarire ai lettori il significato della definizione. Da bambino i versi di una vecchia canzone scozzese l’avevano suggestionato: «If a body catch a body coming through the rye (Se una persona afferra una persona che viene attraverso la segale)». E’ questo verso del grande poeta scozzese Robert Burns ad alimentarne la megalomania e a fargli immaginare di poter essere il custode di un gruppo di bambini che giocano nella segale accanto ad un burrone. «Immagino sempre migliaia di ragazzini che fanno una partita in quel immenso campo di segale e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo far altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale». Ciononostante Holden non ha nessuna fretta di entrare nel mondo degli adulti, come tutti i ragazzi avverte con fastidio l’ipocrisia delle convenzioni sociali, trova inaccettabile l’essere costretto a ripetere ogni volta: «piacere d’averti conosciuto a qualcuno che non ho affatto il piacere d’aver conosciuto». «Devi dire queste cose se vuoi sopravvivere», sbotta. Eppure il romanzo fu subito adottato dai contestatori di sinistra come un vero e proprio breviario del giovane rivoluzionario. Al malessere di Holden Caulfield venne data una valenza politica antisistema, facendo di un annoiato e svagato ragazzo borghese un comunista in armi contro le istituzioni. Una strumentalizzazione goffa ma efficace in anni in cui ad un conformismo perbenista si andava contrapponendo un altro, nuovo e peggiore conformismo, più terribile e spregiudicato nel piegare ogni espressione di disagio alla propria visione del mondo. Quella del protagonista è invece una rivolta individuale e, se vogliamo, spirituale. E’ un viaggio interiore dettato da motivazioni intime, come la morte per leucemia del fratellino Allie, la cui assenza-presenza aleggia per tutto il romanzo. La conflittualità del protagonista non ha alcuna connotazione politica. Allo stesso modo si è espressa, in una delle rare interviste (Diario, 1999), una delle più importanti traduttrici italiane, la romana Adriana Motti, “madre” di Holden: «Sembrerà un’eresia: sono diventata celebre col giovane Holden che io non ho preso sul serio per niente. Divenne un dogma, un catechismo che non capisco tutt’ora. E’ un libro individualista, la crisi esistenziale di un ragazzo americano. Per dei ragazzi di sinistra italiani, Salinger avrebbe dovuto essere il tipico americano altoborghese, non vedevo che rapporto ci fosse con dei giovani marxisti. Lo dissi anche a tre di loro che vennero a parlarmi per fare un pezzo sul giornale di Lotta Continua, e si fecero prestare delle lettere. Più rivisti, né loro né le lettere».Lo scrittore militante Alessandro Baricco, che nel nome del nostro ha creato a Torino nel ’94 un vero e proprio business, la scuola di narrazione Holden, anni fa ha proposto a Einaudi di rifare la traduzione del romanzo. Ma fortunatamente la casa editrice ha confermato quella della Motti. Ed ha fatto bene, perché pur rendendo fedelmente lo stile asciutto e apparentemente trascurato di Salinger (in realtà costruito in dieci anni di lavoro), la traduzione brilla di luce propria ed assolutamente insostituibili, oltre che efficaci, sono i termini “inventati” di sana pianta dalla Motti. Basti pensare ad alcune espressioni caratteristiche di Holden come «e tutto quanto», «e compagnia bella», «eccetera eccetera», «e quel che segue», «e via discorrendo», traducano sempre e soltanto l’espressione «and all» ripetuta da Salinger. Per non parlare della felice scelta dell’aggettivo «schifa» per definire l’infanzia che il protagonista, già dall’incipit, afferma di non voler raccontare. Renzo Foa, ancora oggi, si domanda come la «snobistica irrequietezza da privilegiato» e la «fuga inoffensiva dalle responsabilità» di Holden possano essere piaciute a sinistra. Dei miti della sinistra, osserva, non c’è segno nel libro: «non c’erano né Stalin né Truman, né il conflitto coreano. Chi lo lesse all’alba o al tramonto degli “indimenticabili anni Sessanta” non vi trovò tracce di John Kennedy, M. L. King o Che Guevara. O dei Beatles. Chi lo lesse un decennio dopo non vi trovò tracce di Mao né di Ho Chi Minh. Nel giovane Holden ci sono già i difetti collettivi e di carattere della sinistra di scambiare l’irresponsabilità per senso di responsabilità e lo snobismo per una qualità dell’animo, di essere loro gli unici titolati a definire tutto ciò che è politicamente corretto e così via» conclude amaramente, ponendosi un altro interrogativo. «Perché avevamo scambiato per il massimo messaggio cosmopolita una Manhattan di soli bianchi? In Holden ci sono solo i bianchi, c’è una società completamente omogenea, non c’è mescolanza. Non è un paradosso che in uno dei testi sacri del politically correct ci sia uno degli atti più lesivi proprio del politically correct?». E la stessa domanda devono essersela posta, qualche anno fa, anche gli insegnanti di sinistra del National council of teachers of english che, ritenendole sconvenienti, hanno addirittura eliminato dagli elenchi delle letture consigliate agli studenti le opere del grande scrittore americano. Le motivazioni addotte sono puramente e puerilmente ideologiche. Holden Caulfield è ritenuto «troppo bianco, maschio e privilegiato» e Salinger «troppo poco multiculturale». L’opera, complessivamente, sarebbe «poco rispettosa delle minoranze etniche che compongono la variegata popolazione americana». Foa non ha mancato di criticare «l’ambiguità dell’holdenismo, fenomeno fortunatamente tutto italiano, usato come un alibi dai suoi esegeti in virtù del quale Il giovane Holden è usato come un passaporto della purezza grazie al quale poi è consentito tutto», mentre finisce con l’assolvere il protagonista, che «alla fine è migliore di tanti moralisti di oggi». Holden, infatti, non fa lezioni, non si offre come modello e non rinuncia all’autoironia: «Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra. E’ spaventoso. Perfino se vado all’edicola a comprare il giornale, e qualcuno mi domanda che cosa faccio, come niente dico che sto andando all’opera». Gli “adulti” cercheranno di convincerlo a cambiare atteggiamento, a tenere una condotta più responsabile, ma lui con la testa è altrove. Il professor Antolini gli porge un foglio con una frase di Wilhelm Stekel. «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuol morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuol umilmente vivere per essa. Io lo lessi, lo ringraziai e me lo misi in tasca. Era stato gentile a prendersi tutto quel disturbo. Sul serio. Ma non mi sentivo di concentrarmi. Ragazzi, tutt’a un tratto mi sentivo così maledettamente stanco». E specialmente d’estate non c’è niente di più riposante che fermarsi a curiosare nel delirio vagamente céliniano di questo giovane ribelle «senza una causa», anticonformista e più destrorso di quanto non si sarebbe mai sospettato.