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mercoledì 10 ottobre 2007

Sì, Marx e Nietzsche possono darsi la mano...

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 10 ottobre 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Sarà «ingrillato in chiave antipolitica» - come ha anticipato qualche giorno fa Dagospia, il sito di quel segugio postmoderno di Roberto D’Agostino, segnalando l’esistenza di un brano dal titolo decisamente polemico, Comunisti al sole – o continuerà sulla via del pop sentimentale degli ultimi anni? L’ormai imminente ritorno sulla scena discografica di Antonello Venditti è avvolto dal mistero, sapientemente alimentato da quel gran… sornione del cantautore romano.
Dopodomani, finalmente, potremo ascoltarlo, sapremo e riferiremo. Dalla pelle al cuore, il brano “civetta” che dà il titolo al nuovo atteso album di inediti – l’ultimo, Che fantastica storia è la vita, è di quattro anni fa – sarà in programmazione radiofonica, e disponibile in formato digitale su tutte le piattaforme web e mobile italiane, da venerdì 12 ottobre. Per il cd, ricco di nove nuovi pezzi, bisognerà aspettare poco più di un mese, il 16 novembre. Ed è già – neanche a dirlo – un successo annunciato.
Del resto, Diamanti, la mega-compilation di 46 brani in 3 cd uscita nel novembre 2006, ha già venduto oltre duecentocinquantamila copie e non vuol saperne di lasciare le prime posizioni della hit parade. L’uscita del nuovo disco, peraltro, coincide con un anniversario di quelli invidiabili: 35 anni dopo il primo Lp, Theorius Campus, registrato in coppia con Francesco De Gregori, l’amico di sempre, uno dei quattro «ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla», come canta nella bellissima Notte prima degli esami. Titolo che Fausto Brizzi gli ha soffiato per farne una commedia simpatica ma decisamente meno evocativa della canzone, chiamando Claudia – per giunta, scostumato! – la protagonista del film. Altrettanto aveva fatto Gabriele Muccino per la sua pellicola d’esordio, Ricordati di me (altro titolo vendittiano presente nell’album In questo mondo di ladri del ‘88). E cosa dire di Maurizio Costanzo che, per battezzare uno dei programmi-contenitore più trash nella storia della televisione, ha preso da anni a prestito Buona Domenica, altra splendida ballata del ’89 di Venditti? Alla fine il nostro è sbottato, scendendo sul piede di guerra e reclamando i diritti d’autore. «Mi sono stufato di vedere usati i titoli delle mie canzoni! E’ paradossale – ha osservato – che se ora volessi scrivere un libro intitolato Notte prima degli esami non potrei. Ricordati di me passi, ma neanche tanto, perché hanno costretto il cantautore Pacifico a scrivere una canzone con quel titolo». Sì, perché Antonello Venditti è un viscerale, di quelli che dicono quello che pensano. Diciamolo pure: non è un simpaticone, il che – in un’epoca in cui tutti hanno l’ambizione di piacere a tutti – è decisamente un merito. Dopo il debutto con De Gregori, la separazione. E, salvo momentanei riavvicinamenti, la distanza. Persino nei giudizi sul nascente partito democratico e sul comune amico Water Veltroni. Per De Gregori, che gli preferisce Rosy Bindi, «quel che dice Veltroni spesso è difficile da afferrare, da decifrare, dice tutto e il contrario di tutto. Mostra una grande ansia di piacere, di essere appetibile a destra e a manca». Per Venditti, al contrario, «è semplicemente educato, sa ascoltare e preferisce proporre che distruggere».
In una intervista al Corriere della Sera di questa estate, Venditti ha raccontato, a testimonianza di un’antica affinità elettiva, un piccolo retroscena: lui e Veltroni fantasticavano di dare vita al partito democratico già dal ’76. Location: il caffè da Vezio, il bar dietro le Botteghe Oscure, mai state così minacciose. Attori (non ancora protagonisti): Veltroni Walter, 21 anni, leader della Fgci romana; Venditti Antonello, 27, un disco in gestazione, Sotto il segno dei pesci. Ciak: Venditti chiede a Veltroni se non fosse quello «il momento per i riformisti di costruire un partito nuovo, aperto agli altri riformisti laici e cattolici, anche a costo di uscire dal partito». Veltroni – racconta sempre il cantautore romano – era un po’ «il nostro piccolo Budda. Quello che in futuro poteva trasformare il Pci a nostra somiglianza». Evidentemente, ritennero, non era il momento e l’impresa decisamente velleitaria. Veltroni il partito democratico non l’avrà fatto da solo – come gli aveva suggerito Venditti – ma in qualche modo, bello e confezionato, arriva il 14 prossimo venturo, magari proprio sulle note fresche di Venditti che, di politica, non s’è più interessato. Ed è stato un bene. Per la politica, ma soprattutto per lui. E – diciamocelo – per noi. Perché in questi trent’anni ci ha regalato canzoni bellissime. Perché nella colonna sonora della nostra vita – e non parlo solo di “noi” quarantenni – ha fatto e fa ancora la parte del leone. Conosciamo a memoria i testi, le mille storie di piccoli eroismi quotidiani, di esami e solitudini, di amicizia e amori disperati in anni – quali i ’70 – «in cui era difficile parlare d’amore. Per noi cantautori la parola d’ordine era impegno». Ed è come se avessimo conosciuto anche le tante figure femminili che affollano le sue canzoni. La Claudia plagiata da Muccino – come fargliene una colpa, è cresciuto anche lui con Venditti che gli suonava nella testa – la tossica Lilly con «quattro buchi nella pelle», Marta divisa «tra il salario e la pagella», la giovane Sara in dolce attesa da non entrare più nel banco di scuola, la volitiva Giulia, la timida Paola, «Valle Giulia ancora brilla la luna e Paola prende la mia mano caduta per sbaglio sui nostri vent’anni tesi come coltelli». E Cinzia, che «cantava le sue canzoni e si scriveva i testi sul diario per sentirli veri». E ancora Marina, ex sessantottina che «se n’è andata e oggi insegna in una scuola». Rispetto agli anni della contestazione, quando manifestò con gli studenti a Valle Giulia contro gli "sbirri", Venditti non si sente cambiato e rivendica la sua coerenza di cattolico "de sinistra": «Ho vissuto in maniera laica, anche se ho portato con me l’educazione cristiana datami da mia madre, cattolica praticante. La conferma viene anche dal mio linguaggio che non è tipico della cultura di sinistra». Del resto, con una madre professoressa, un padre ex combattente, liceo di destra per antonomasia - "la giovane destra cantava / eja, eja, alalà, fa la sua canzone Giulio Cesare - dove insegnava la madre.
Cosa rimane di quelle utopie, si chiede Venditti. «Solamente unità e amore per noi». Consapevolezza che affiora già nel ’78 in Sotto il segno dei pesci: «Ti ricordi quella strada, eravamo io e te, e la gente che correva e gridava insieme a noi, tutto quel che voglio pensavo, è solamente amore…». Salvo concludere, con un fondo di amarezza, in Noi nell’album Benvenuti in paradiso del ’91: «Noi sotto il segno dei pesci noi… noi che sognavamo a occhi aperti, adesso siamo i perdenti noi». Canzoni nelle quali può riconoscersi chiunque abbia partecipato a un corteo, a una manifestazione di qualsiasi segno, a prescindere dalle diverse scelte di campo. Per questo il cantautore romano piace da sempre anche a destra e, come nei live al Circo Massimo di Roma, riempie gli stadi unificandoci tutti nel nome dell’immaginario condiviso, quello dove – per intenderci – «Nietzsche e Marx si davano la mano».
Nel nuovo album c’è naturalmente l’amata Roma – «il set della mia anima» – con una canzone bella e struggente, Piove su Roma, «una suite sulla città e per la città», ma anche il tema della disillusione politica tornerà a trovare spazio. L’ammissione è arrivata, qualche giorno fa, proprio da Venditti. Uno dei temi trattati in questo cd «passionale, emozionante, tra laico e cristino», infatti, sarà quello del tradimento. «Si parla d’amore, di vita, di politica e dei tradimenti che attraversano la nostra esistenza» Il riferimento, esplicito, è ai campioni traditi dal successo, abbandonati da quel pubblico che prima ne fa delle icone e poi, quando la fortuna cambia direzione, abbandona al proprio destino. Venditti cita Marco Pantani e Luigi Tenco ma l’ispirazione principale rimane soprattutto il suicidio di Agostino Di Bartolomei – «un caro amico, pensavo a lui quando mi sono messo a comporre» – che si tolse la vita il 30 maggio del ’94, esattamente dieci anni dopo una delle pagine più tristi della storia calcistica giallorossa: la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool. Ma tradimento è anche quello politico. «La gente vuole sentirsi seriamente rappresentata da persone che ci mettono passione. Ecco perché spesso ci troviamo a rispettare di più i nostri avversari. Se anche non ne condividiamo le idee si può apprezzare la serietà e la buona fede. D’altronde molti laziali da sempre mi sussurrano “peccato che sei romanista!”». Chi scrive, che romanista non è, conferma. Perché Venditti si fa amare, comunque.

Ne sa qualcosa Giampaolo Rossi, uno dei blogger di destra più seguiti, che nel suo cliccatissimo (e molto ben fatto) “Blog dell’Anarca”, (l'indirizzo web è il seguente: (http://www.blogdellanarca.blogspot.com/) ha recentemente dedicato un lungo e ironico post di odio-amore proprio ad Antonello Venditti che ha provocato decine e decine di commenti tra gli utenti della “rive droite” del web. Ad irritarlo – come dargli torto? – la già citata intervista. Premessa e sottolineatura necessaria: «L’Anarca ha amato molto Battisti e forse lo ama ancora: Roma Capoccia meriterebbe un posto d’onore tra le canzoni d’autore del secolo. Modena è un gioiello inestimabile per l’indimenticabile sax di Gato Barbieri. Insomma – osserva – dispiace che uno come Venditti venga ricordato solo come “er Mameli della Roma”, per quanto, quando la Sud intona imponente "Roma Roma Roma", pure ai tifosi del Liverpool scorre un brivido lungo la schiena». Rossi si dice disposto persino a sorvolare sul giudizio di Venditti su una «Roma mai stata così bella, negli stessi giorni in cui Giuseppe Tornatore è stato pestato da tre balordi mentre passeggiava sull’Aventino» ma rimprovera al cantautore di non aver dedicato neanche «una canzoncina, una strofa, almeno un ritornello» a quanto accaduto nel mondo dopo il ’76 – anno della famosa chiaccherata tra Venditti e Veltroni in cui pianificarono, sia pure a lunghissimo termine, la nascita del Pd – e quindi: Solidarnosc in Polonia, piazza Tien Ammen, il Muro di Berlino che crollò portando alla luce l’orrore del comunismo dell’Est... «Da un poeta cantautore “attento ai diritti civili e lontano da Mosca” ci saremmo aspetatti di più». Finendo con il domandarsi: «Ma se nessuno nel Pci era comunista, negli anni ’70 i comunisti dove stavano? Nella Dc?». Questione che nessuno ha interesse a sollevare, men che mai chi quell’appartenenza ha rinnegato, affrettandosi a seppellire l’album di famiglia sotto il tappetto, gettando l’acqua sporca con il bambinello. E c’è da credere che difficilmente Veltroni, nella sua playlist, citerà Dolce Enrico, dedicata da Venditti a Enrico Berlinguer. In tempi di saldi di fine stagione (ideologica) Berlinguer, evidentemente, seduce meno di Veronica Lario e Alba Parietti.

mercoledì 26 settembre 2007

Marco Lodoli, il "céliniano" democratico

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 26 settembre 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Si è candidato all’assemblea costituente del Partito democratico nelle file veltroniane. Eppure, Marco ha da sempre i suoi affezionati lettori in tanti irregolari, destrorsi e non-allineati, sin dal suo primo romanzo da esordiente trentenne, il «céliniano» – per sua confessione – Diario di un millennio che fugge (Theoria ’86). E invece sì, Il Corriere della Sera ha fatto il suo nome per quelle liste. Nessuna omonimia, è proprio lui: «Marco Lodoli, scrittore». E in quella compagnia... Passi per Lidia Ravera e i suoi "porci con le ali", volino pure dove meglio credono. Passi per il matematico Piergiorgio Odifreddi che – fedele al proprio cognome – non molto tempo fa ha sentenziato che la parola “cretino” deriva etimologicamente dalla parola “cristiano”. L’ultima fatica “letteraria” di quest’ultimo è (sic!) Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici). I libri di Lodoli, però, sono altra cosa: sentieri impervi e mai scontati, «percorsi danteschi dal fango alla luce» nei quali non c’è traccia di valori prêt-à-porter in saldi di fine stagione (ideologica), ma solo di uomini e donne dalle vite zoppicanti e sconclusionate che cercano disperatamente il significato del loro soggiorno terrestre. Sfuggono alla vita, si riparano in giornate tranquille alimentate da piaceri addomesticati e caute speranze, fino a quando accade qualcosa di inatteso e «tutto viene messo in forse da una verità più grande. E allora la cuccia si fa stretta, il pasto scialbo, la catena troppo corta: viene voglia di farsi lupi e amare».
La destinazione del suo viaggio letterario è – citando Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata» – la riscoperta del nostro essere individui, la nostra unicità nel mondo, la dolorosa felicità della naturalezza. Consapevole – parole sue – che quanto più a fondo ti scava un’infelicità, tanta più felicità potrai contenere. Nelle sue pagine, sospese tra sogno e realtà, lirismo e ironia, luoghi fantastici e marciapiedi romani, vicine alla fiaba almeno quanto distanti dalla denuncia sociale – «dove le parole creano piuttosto che riferire» – non c’è traccia di neorealismo ruffiano e di materialismo neo-illuminista e neo- marxista. Lui è figlio – letterariamente parlando – di Anna Maria Ortese e Cristina Campo (foto a lato), scrittrici solitarie e irregolari (e non certo di sinistra). Come loro, è alla ricerca della voce più segreta delle cose, delle presenze invisibili, dei pensieri inespressi. Di Dostoevskij e Céline, spiriti visionari. Intendiamoci, non che Marco Lodoli sia un allineato. Si è sempre rifiutato di prestare la sua letteratura al «dibattito sui problemi della società». E quando la critica militante, ferma «all’equazione tra libro e mondo da rappresentare», glielo ha rimproverato, opportunamente ha obiettato che «fino a ieri l’altro, in tutto il Novecento, l’arte è stata un’altra cosa: la creazione di mondi in cui accade un pensiero».
Per questo, dalle colonne del nostro Secolo d’Italia – primo giornale a salutare il suo debutto con una appassionata recensione in anni ormai lontani – gli rivolgiamo un appello: ci ripensi! Sì, primo quotidiano a occuparsi di Marco Lodoli. Grazie all’affetto e alla stima del suo primo lettore, suo padre, l’ingegner Renzo, classe di ferro 1913, combattente in Africa e Spagna, «innamorato della guerra ancor prima che del fascismo». Cui rimase fedele nella Repubblica Sociale e anche dopo, non facendosi mancare un anno di prigione per aver incitato – a guerra finita – i giovani a combattere. Renzo Lodoli (nella foto a destra) nel ’46 è stato tra i fondatori del Msi, salvo poi dedicarsi all’ingegneria e alla scrittura di racconti «dalla parte sbagliata», come titola una sua raccolta pubblicata nel dopoguerra. Senza nessun pentimento. «Perché io non ho nulla di cui vergognarmi» ha recentemente ribadito in una lunga intervista a Repubblica, quotidiano di cui il figlio è collaboratore da diversi anni (la sua rubrica settimanale nell’edizione romana, “Isole”, è diventata un libro, il bellissimo Isole, guida vagabonda di Roma, Einaudi 2005). Pur da posizioni evidentemente distanti – Marco si colloca a sinistra, anche se in una sinistra immaginaria – di quella generazione Marco apprezza la capacità di sacrificarsi, la stessa che, lamenta, manca ai suoi studenti, «insidiati dal demone della Facilità, una divinità tanto ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave ma che ha un becco così sottile e feroce da mangiarci il cervello».
Dimenticavamo di dirlo: Marco Lodoli, prima che scrittore è un professore, un educatore che non si rassegna ad assistere al «genocidio delle intelligenze degli adolescenti» e ancora si indigna nei confronti di chi concepisce la cultura come supponente esercizio di “bravura” utile ad occupare narcisisticamente una vetrina. Ci riconosciamo nell’invito che ha lanciato: «Abbandonare ogni superbia intellettuale, ogni facile schema e ogni rassicurante abitudine per arrivare a quella finestra che affaccia sul significato ultimo delle cose». L’intelligenza – osserva – separa, giudica, contrappone: «La letteratura abbraccia, perdona e coglie l’unità segreta che sta dietro l’apparente frantumazione del reale». E certo non è facile trasmettere ai giovani l’etica del sacrifico quando «il mondo intero afferma il contrario e in televisione e sui manifesti pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato». Del resto, la modernità ci aveva promesso «una società nella quale non avremmo più sofferto, il sogno di una rosa senza spine». Senza badare agli effetti collaterali: «Ogni nobile illusione viene immediatamente scartata perché prevede una fatica che non si desidera più compiere». I ragazzi, specialmente quelli delle periferie (Lodoli insegna in un istituto professionale), non sono più disposti a impegnarsi, si ritirano da ogni confronto, anche da quello più importante: con la loro vita e i loro sogni. Rinunciano a «essere gli artigiani della propria esistenza». Si rassegnano a un futuro da spettatori e consumatori. «Un tempo l’ammirazione per le persone famose spingeva all’emulazione, grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli». Adesso si invidiano i vip «solo perché si sono sollevati dal fango». Poco importa se hanno realizzato un film o commesso una rapina, quello che conta è uscire dal cono d’ombra, avere i soldi perché con i soldi puoi prendere le distanze dallo squallore della vita che ti circonda, erigere un muro di cinta, piantare una parabolica per pay tv, evitare lavori faticosi e degradanti, tutto pur di non ripetere la vita dei loro nonni e dei loro genitori.
«I nostri padri hanno preso a schiaffi la sofferenza – ricorda Lodoli – noi invece restiamo zitti e buoni, grassi e pigri, scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna». C’è una certa nostalgia in Lodoli nel ricordare quel mondo a misura d’uomo, «ultimi bagliori di una comunità reale, interclassista, pettegola ma disponibile». Il sentimento della nostalgia affiora spesso nella sua prosa, in quel sentirsi «frammenti di una vetrata forse bellissima infranta da una martellata. Nostalgia di quella vetrata, di un assoluto che spinge i miei personaggi a cercare l’unità delle cose». Questa è la sua scrittura: «cercare tramite le parole il cammino da fare, come ritrovare delle briciole o dei sassolini che mi potessero portare là dove qualcosa mi aspettava». Al primo romanzo – che non è, come recita il sottotitolo, il romanzo di una generazione senza qualità, perché quella in cui è cresciuto aveva come parola d’ordine la creatività – è seguito Snack Bar Budapest (Bompiani, ’87), suo unico noir, scritto a quattro mani con la compagna Silvia Bre, da cui Tinto Brass ha tratto ispirazione per un suo (brutto) film. Poi sono seguiti i racconti surreali e grotteschi del Grande raccordo (Bompiani ’89) e la triologia di romanzi brevi Fannulloni, Crampi e Grande circo invalido (tutti pubblicati nei primi anni Novanta da Einaudi, che rimarrà la sua casa editrice), e successivamente raccolti in unico volume, I principianti. Principianti, marginali, anime nude e dolenti, creature smarrite e dal passo traballante in favole metropolitane dalle tinte picaresche. Lodoli le accompagna «fino alla sbarra della frontiera estrema, e poi laggiù, tremando d’irresponsabilità, quella sbarra ho provato ad alzarla». Già, perché «se la nostra storia di uomini termina quasi sempre contro una morte nemica, la letteratura può con la morte stabilire una confidenza, un’intimità irridente che riesce a cambiare anche il colore della vita». Ed è proprio sul crinale di questo confine incerto, in bilico tra deriva e speranza, che scrive le sette storie che compongono la raccolta di Cani e lupi (’95) e i romanzi Il vento (’96), I fiori (’99) e La notte (2001), altra trilogia (raccolta ne I pretendenti) di una Roma odierna ed eterna nella quale i “protagonisti” sono alle prese con «l’Inevitabile» sempre lì, pronto ad allungare le mani su ogni cosa. Non poteva mancare una raccolta di nove racconti sulla scuola, I professori e altri professori (2003), «un mondo che esce dai suoi confini di gesso» e di fronte al quale sia gli allievi che gli insegnanti sono principianti al cospetto dell’imprevedibilità della vita.
All’attività narrativa lo scrittore romano ha anche affiancato quella di critico cinematografico, o meglio di “spettatore esigente”, come s’intitolava la sua rubrica per il Diaro della settimana, la rivista diretta da Enrico Deaglio. E’ nata così una suggestiva quanto originale antologia composta dalle recensioni di 100 film, Fuori dal cinema. «Fuori dal cinema significa forse dentro alla vita, a quel grumo di pensieri ossessioni debolezze e speranze che ogni giorno e con ogni mezzo – comprese le immagini dei film e le parole dei libri – proviamo a depurare affinché un barlume di verità possa traversarlo d’improvviso».
La sua ultima opera, Bolle, diciannove racconti sul filo dell’illusione e della verità, è del 2006. «Brevi storie – come recita la quarta di copertina – che ci aprono al mondo dell’immaginazione, del sogno, delle speranze che sole possono aiutarci a vivere: bolle luminose tra i pungiglioni della vita». Non ci rimane che aspettare il prossimo libro e nel frattempo confidare che il 14 ottobre siano pochi i romani che scrivano il suo nome sulla scheda, così da non distrarti dalla letteratura, per continuare a porci, leggendoti, quelle domande invalicabili….

mercoledì 12 settembre 2007

Keith Haring, la rivoluzione dei graffiti

dal Secolo d'Italia di mercoledì 12 settembre 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Scrivilo sui muri. Il film di Giancarlo Scarchilli sarà nelle sale il 21 settembre ed è già polemica. Malgrado i visi puliti dei giovani protagonisti: Cristina Capotondi – la Claudia di Notte prima degli esami – Primo Reggiani e Ludovico Fremont. La questione non è nuova, ma l’uscita della pellicola la ripropone: quella dei writers è arte o “crimine”? E’ giustificato l’allarme emulazione? Dopo i lucchetti saremo invasi dalle “piece” dei “tags” (il marchio degli autori)? Il decoro delle città è a rischio più di quanto lo sia affidarlo a certi sindaci? «Non è un film sui graffiti, sono solo la metà della storia», si è affannato a precisare il regista. «Questi ragazzi non sono vandali, ma artisti pronti a tutto, anche a beccarsi una pallottola, pur di lasciare il segno». E poi, per tagliare la testa al toro, una frase di quelle definitive: «I writers sono gente invisibile, come i partigiani». Forse è per questo che i murales fioriscono soprattutto nei centri sociali di sinistra, viene da pensare. L’equazione sembrerebbe ancora una volta scontata quanto rassicurante: ribellismo esistenziale uguale (ultra)sinistra, anche se il film rimane una commedia agrodolce e il regista ci tiene a sottolinearlo, perché evidentemente confida nel gradimento del popolo mocciano di Tre metri sopra il cielo. Che poi, a dirla tutta, al destrorso Step interpretato da Scamarcio, il “pubblico” dei centri sociali preferisce l’icona per eccellenza del graffitismo, l’americano Keith Haring (nelle foto), scomparso a soli trentun anni nel ’90, artista di fama mondiale, come e più di una rock star. Quando si parla di graffitismo, infatti, non si può prescindere dal ruolo giocato da questo folletto dinamico e geniale, indimenticato Peter Pan dell’arte, la cui biografia, ad opera di John Gruen, è stata da poco e per la prima volta tradotta in italiano (Keith Haring, Baldini Castoldi, p. 266, € 20,00). Com’ebbe a dire William Burroghs, scrittore maledetto della beat generation: «Si può guardare un girasole e non pensare a Van Gogh? No. Esattamente allo stesso modo nessuno può entrare nella metropolitana di New York senza pensare a Keith Haring». Già, perché da lì partì, a metà degli anni Settanta, l’impresa – tutt’altro che facile – di indirizzare il disagio metropolitano in compiuta espressione culturale, di elevare il graffitismo underground ad arte apprezzata in tutto il mondo, spalancando per centinaia di writers ribelli le porte, sino a quel momento inaccessibili, di musei e gallerie. Sfidando le autorità come le baronie, non certo coltivando, diremmo oggi, i salotti, né tanto meno andando incontro ai desiderata dei critici. «Pensare che il pubblico non apprezzi l’arte perché non la capisce, può significare che sia l’artista a prosperare in questa “conoscenza dell’arte autoproclamata” che alla fine è una grande stronzata. Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi. L’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare». Erede della pop-art di Andy Warhol, Haring concepisce l’arte come work in progress, esibizione e spettacolo del fare, esplosione di vitalismo. La sua filosofia è chiara: «Un muro è fatto peressere disegnato, un sabato sera per far baldoria e la vita per essere celebrata».
Dimostrando una capacità autopromozionale pari al suo enorme talento, disegna le sue figure stilizzate e provocatorie sui cartelloni dei sottopassaggi destinati alla pubblicità, dove transitano migliaia e migliaia di persone, ma anche su tutto quello che gli capita tra le mani. I suoi happening no-stop fanno notizia, creano attenzione, i suoi lavori – che nessuna cornice può contenere – rispondono ad un’esigenza espressiva condivisa, fanno tendenza, vengono strappati e rivenduti, i giovani lo emulano, occupano gli spazi pubblici, cresce a macchia d’olio una vasta sensibilità artistica. Di più: inventa un nuovo linguaggio urbano, un universo di ominidi in movimento, un bestiario fantastico animato da sagome dall’apparenza infantili, caratterizzate da un segno nero che richiama esplicitamente il fumetto. Le sue creazioni, dagli uomini radianti ai cani che abbaiano alla televisione, sono entrate nell’immaginario collettivo e si ritrovano ovunque, dalle tazzine di caffè alla pubblicità, icone di massa in cui è spontaneo riconoscersi. Il bambino a carponi, la piramide, i dischi volanti, le figure umane che si abbracciano, amano, danzano e baciano, sottolineano la necessità di trasmettere uno stato positivo, creativo. L’intera l’opera di Haring si fonda proprio su questo assunto: stimolando l’immaginazione si possono influenzare positivamente gli uomini e cambiare il mondo in meglio, a partire dai giovani. Non è un caso che l’arte di Haring sia in gran parte dedicata proprio ai bambini: «I bebè rappresentano la possibilità del futuro, di come potremmo essere perfetti. Non c’è mai nulla di negativo in un neonato, nulla. La ragione per la quale il bebè è diventato il mio logo o la mia firma è che si tratta dell’esperienza più pura e positiva dell’esistenza umana». Nei suoi disegni, sospesi tra suggestioni primordiali e futuristiche, affronta l’attualità: il nucleare, l’aparthied, l’orrore dell’Aids, la malattia che scriverà la parola fine ad una vita consumata all’insegna della velocità. Dopo il liceo frequenta l’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh e la scuola di Commercial Art, ma il richiamo, prima della strada – gira il paese in autostop sull’onda della contestazione giovanile – e poi di New York, è troppo forte. Nei primi anni Ottanta le sue opere attraversano l’oceano: espone a San Paolo del Brasile, Londra, Tokyo, Roma, Milano, Parigi, Berlino – rappresentando sul famigerato muro dei bambini che si tengono per mano – mentre ad Harlem realizzerà un enorme Crack is wack (il crack è una porcheria). La consacrazione definitiva arriva nel ’86, quando dà vita nella grande mela al suo celebre Pop Shop (due anni dopo ne aprirà un altro a Tokyo), negozio dove è possibile vedere l’artista al lavoro e acquistare gadget con le sue opere riprodotte in serie: graffiti stampati su orologi, magliette, poster, felpe e gadget d’ogni tipo. Migliaia sono le persone che hanno indossato le sue T-shirts ed egli stesso le ha spesso sfoggiate divertito, protagonista assoluto e consapevole dell’art business. Anche per questo lo apprezziamo, perché sembra farsi beffe del “no logo”, della contestazione – da sinistra – dell’iconologia, del pensiero simbolico e del ludico dell’estetica, quasi che il Novecento non sia stato il secolo delle luci e dei sogni, dell’immaginario e della contaminazione della comunicazione culturale con quella commerciale.
Nel farsi griffe di se stesso, Haring sembra affermare come anche il commercio dell’arte – senza logo e privato dei colori della pubblicità – si riduca a mera transazione tra soggetti destinati a rimanere distanti – artista e consumatore – e l’arte stessa finisca per diventare un “prodotto” usufruibile da soli iniziati o per pochi “danarosi” collezionisti. Il paradosso, semmai, è come l’esteta narcisista e nietzschiano Keith Haring possa rappresentare un mito per tutti coloro che vivono ancora di mitologie ideologiche, vetero-illuministiche, passatiste e anti-immaginifiche.
Se ancora non è scomparso del tutto, l’impatto sociale del graffitismo si è certamente ridimensionato, probabilmente proprio a causa del suo farsi – a partire dagli anni Novanta con il movimento studentesco della Pantera – esclusivamente messaggio politico, strumento per battaglie di retroguardia contro la modernità. Chi è venuto dopo Haring non ha avuto il coraggio (e la personalità) per affrontare il cambiamento, perché – per dirla con l’artista statunitense – «essere vittima del cambiamento significa ignorarne l’esistenza».
«Ciò che non finisce mai di stupirmi è come gli esseri umani costruiscano la propria vita intorno all’idea che non esistano differenze e cambiamenti. Si può vivere la vita con la consapevolezza che si cambia in continuazione e si è il prodotto di infiniti cambiamenti dell’ambiente circostante. L’uomo moderno può affrontare questa realtà, metterla in discussione, esplorarla e conviverci».
Attitudine a convivere con la modernità che la sinistra ha mostrato di non avere, manifestando atteggiamenti schizofrenici, oscillante tra permissivismo e repressione. Così, dopo aver previsto, in quel di Firenze, la “geniale” trovata dell’arresto per i lavavetri, dopo l’uscita del film si prevederanno misure più severe anche per i writers. Del resto, già nel 2001, persino un graffito di Haring dalle dimensione di 6 x 2 metri realizzato nella metropolitana di Roma (linea A, tratto Flaminio-Lepanto, sulle pareti trasparenti del ponte sul Tevere), è stato cancellato senza complimenti. Se in Francia, all’università di Saint Denis, Cultura Pop e graffiti sono diventati materia d’esame, qualche anno fa l’allora ministro ai Beni Culturali Alberto Ronchey ingaggiò una sua personale battaglia presentando un apposito disegno di legge contro quella che riteneva una “forma di vandalismo”. La soluzione attualmente allo studio sembrerebbe essere quella – oltre alla solita campagna di sensibilizzazione – di limitare l’illegalità destinando spazi autorizzati ai writer, con tanto di albo professionale al quale iscriversi. Magari anche un sindacato. Niente di più lontano dal pensiero di Haring – annotato sui suoi Diari (Oscar Mondadori 2001) – sulla detestata mentalità di gruppo «di questa società antindividualista, in cui gli stereotipi hanno tutto il potere e la sovrappopolazione ci ha costretto a credere di esistere in quanto “tipi di persone”. L’arte è individualità. Credo che sia questo il messaggio fondamentale dell’arte moderna. Un’artista distrugge i suoi stessi obiettivi proprio prendendo parte a gruppi, seguendo movimenti, scrivendo manifesti di gruppo e inventando idee collettive. Quella dell’artista è un’affermazione individuale. Nessun artista fa parte di un movimento. A meno che non sia un seguace. E allora non è necessario e della sua arte non abbiamo bisogno. Nel momento in cui si definisce seguace e accetta come vere le verità che non ha esplorato lui stesso, tradisce lo scopo dell’arte come espressione individuale: l’arte in quanto arte».

mercoledì 29 agosto 2007

Pino Cacucci, la via italiana al Messico

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 29 agosto 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Spesso le appartenenze ideologiche si annullano di fronte al bisogno esistenziale di un “altrove”. E’ il fascino perenne dell’esotismo, da Salgari a D’Annunzio, da Lawrence d’Arabia e Giuseppe Tucci sino a Hemingway e Chatwin. Ed è anche per questo che un narratore che per la vulgata consolidata starebbe a sinistra può attrarre fatalmente anche chi si colloca dall’altra parte. «Esistono luoghi, i grandi ‘altrove’ che non ci danno requie quando ne siamo lontani, capaci di scatenare pulsioni latenti, forse non di crearne di nuove, ma soltanto – e non è poco – rievocare sensazioni smarrite, assopite, rimaste in qualche meandro ad aspettare la scintilla che le risvegli». E’ quanto scrive Pino Cacucci – il più sudamericano degli scrittori italiani – nella prefazione a La polvere del Messico (Mondadori ’92, Feltrinelli, ’96), uno dei suoi romanzi più intensi. Per alcuni questo grande “altrove” è stato rappresentato dal fascino esotico del Tibet o dell’India, per altri dal “mal d’Africa” dell’epopea coloniale o dal richiamo delle atmosfere magiche del nord Europa, per Cacucci – che è anche sceneggiatore e traduttore appassionato di autori spagnoli e latinoamericani – la «messicanità» è stata il punto di arrivo di un viaggio intrapreso nei primi anni Ottanta «per la voglia di allontanarmi da un’Italia - ha confessato - che mi era insopportabile, con tutto il corollario di cialtroneria e cinismo eletti a valori per imbecilli a sedici valvole nel cervello e in divisa da caricature di yuppie». Sulla scia di Hemingway, «il grande amore letterario di una vita», e animato dagli «ideali libertari» di George Orwell, a Cacucci, appartenente a una generazione «colpevole di un eccesso di sensibilità in un’epoca dalla quale ogni sensibilità è bandita», non rimaneva che la fuga per andare alla ricerca di «quella energia vitale che temevo di aver perduto irrimediabilmente».
Così come accade a molti dei protagonisti dei suoi libri, persone normali che provengono da ambienti diversi quanto ordinari, che improvvisamente vengono travolte da situazioni imprevedibili e costrette ad abbandonare le piccole certezze della quotidianità, a confrontarsi – spesso drammaticamente – con la precarietà della vita. E’ quanto accade a Mario, il protagonista di Puerto Escondido (il secondo libro di Cacucci, Interno Giallo ’90, ripubblicato successivamente da Mondadori), al quale Gabriele Salvatores, nella fortunata trasposizione cinematografica del ’92, ha dato la fisicità di Diego Abatantuono (che nel ’95 interpreterà anche Viva San Isidro, tratto da San Isidro Futbòl e prodotto da Salvatores, nei panni di padre Pedro, sanguigno missionario dai metodi sbrigativi). L’unica preoccupazione di Mario è vestire elegantemente, non si fa scrupolo di trattare sprezzantemente i clienti della banca dove gode del gratificante potere di vice direttore, ma quando assiste casualmente ad un omicidio la sua vita si trasforma in un incubo e non gli rimane che cercare rifugio in uno sperduto villaggio messicano (dove incontrerà Alex e Anita, interpretati da Claudio Bisio e Valeria Golino) e ricominciare da zero. In questa idea di “fuga” non c’è nulla di immorale, tanto che Cacucci – nella postfazione a Punti di fuga (l’esilarante storia parigina di Andrea Durante, killer per “bisogno”, disadattato e nostalgico, Mondadori ’92, Feltrinelli 2000) – arriva a teorizzarne l’irrinunciabilità: «Siamo abituati a dare una valenza negativa al concetto di fuga; i sussidiari delle medie ci insegnavano che è un gesto vile, una rinuncia ad affrontare avversità e responsabilità. La fuga è invece l’unica scelta dignitosa quando non puoi cambiare più nulla, e non vuoi neppure lasciarti coinvolgere, diventare complice».
Nato nel ’55 a Alessandria, cresciuto a Chiavari (Ge) e trasferitosi a Bologna nel ’75 per frequentare il Dams, Cacucci trascorre lunghi periodi tra Barcellona e Parigi, «la metropoli dai molti altrove», fino a quando sente che anche l’Europa «decadente e algida, congelata, liofilizzata e “decaffeinata”» gli sta stretta e scopre «sin dal primo viaggio» che il suo grande “altrove” è il Messico con il suo caos apparente che pure emana un’inspiegabile armonia, il paese «che per me rappresenta in modo sublime come la mescolanza di tante razze arricchisca immensamente una terra e un popolo, genti così abituate alla diversità da potersi concedere senza la minima riserva, pur conservando una forma di autodifesa istintiva, il freno naturale di fronte all’invasione di becere way of life geograficamente vicinissime eppure tenute a distanza siderale da millenni di civiltà». Un paese con radici talmente tenaci che neanche cinque secoli di saccheggi e devastazioni sono riusciti a cancellare, «una terra tutt’altro che tenera quando smetti di essere un turista e ti devi procurare da vivere alla giornata». Scegliere il Messico per Cacucci non è sinonimo di disimpegno o di moda improntata al sinistrese terzomondista. Al contrario rappresenta il suo personale modo per esprimere nella scrittura l’insopprimibile bisogno di «contrastare il cinismo, l’intolleranza, il sopruso, l’arroganza dei vincitori di sempre». Nasce da qui il desiderio di recuperare la memoria di vicende passate - «senza la memoria siamo sacchi vuoti che vanno dove li sbatte il vento» - di ritrovare e narrare le tragiche e a volte comiche e assurde storie di ribelli e rivoluzionari, irregolari e sconfitti di ogni causa che non si sentono né perdenti né vinti perchè non hanno rinunciato alla loro dignità. Di fronte a chi, sulla scorta di Brecht, dice che è beata la terra che non ha bisogno di eroi, lui risponde che di eroi invisibili c’è sempre bisogno, indipendentemente dalla nazionalità, che si tratti di leader politici, di indios, di sacerdoti come Alex Zanotelli in Africa o Samuel Ruiz in Chiapas o di chi, come il fascista Paolo Casaroli, «nel dopoguerra, si sentiva tradito dalla realtà quotidiana e costantemente umiliato, in una situazione di sbandamento e crollo di qualsiasi valore, oppressi da una marmaglia di “buffoni” sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori». E’ a tutti loro e alle loro vite spesso dimenticate che Cacucci si rivolge, riconoscendosi nella definizione di Elsa Morante: «Lo scrittore è una persona a cui sta a cuore quanto gli accade intorno fuorché la letteratura». Più che libri di viaggio, infatti, i suoi sono libri di soste, di lunghe fermate durante il tragitto, nelle quali soffermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare, sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, prima ancora che sulle idee, «perché le idee senza le persone sono come bellissime farfalle disseccate in una teca di vetro e quando le metti in pratica le sporchi irrimediabilmente». Per scrivere i suoi romanzi si è servito «dell’immaginario dei film di Sergio Leone, che non mi stancherò mai di rivedere, di letture e ovviamente di un po’ di fantasia in funzione riciclante. Ma ho l’impressione che sarebbero rimasti un magma senz’anima, un’accozzaglia di dati, senza la vita vissuta accanto a genti così diverse da quelle tra cui sono cresciuto». L’approccio di Cacucci si basa su «un gesto di resa incondizionata: la rinuncia a propri schemi e abitudini, liberandosi dall’inconfessata certezza che la realtà sia univoca e unidimensionale, e che tutto possa venire interpretato da un solo modo di guardare».
Per questo, più che scrittore si sente «un raccontatore di storie raccolte da viandante, sia sulla strada che nella memoria e, considerando che la storia la scrivono i vincitori di sempre, le mie semmai sono controstorie, cioè in contrapposizione alle menzogne e alle dimenticanze dei libri di scuola, dei giornali e dei telegiornali». Senza la pretesa di correggere i mali del mondo, né di poter combattere contro un progresso «cui do più spesso una valenza negativa, cioè dell’odierna corsa verso il caos e la devastazione in nome di un aberrante modello economico» ma con la ferma convinzione che ribellarsi sia giusto, pur nella consapevolezza che «opporsi a tutto questo con la penna è poca cosa, e sarebbe stupido illudersi di farlo, anche se con la scrittura di genere e il fumetto si possono provocare piccole incrinature nella sfera gelida di questa che vorrebbero fosse “la migliore delle società possibili”». Un vizio ereditario. Metalmeccanico il padre, tessile la madre, «decenni di lotte e alla fine stessa conclusione: licenziamento per chiusura e tanti saluti». Ha raccontato di aver respirato sin da piccolo «un’aria carica di speranze vicine e lontane, dove si ascoltavano gli echi della rivoluzione cubana e si parlava dei ‘barbudos’ di Castro e Che Guevara come se fossero vicini di condominio». E’ stato anche questo il suo collocarsi a sinistra, forse poco di politico ma molto di esistenziale. E quindi nulla di ideologico. Quando muore il Che, trova i genitori in lacrime: «Con una stretta al cuore, pensai fosse morta una persona cara, pensai ai nonni o allo zio preferito… la stessa tristezza l’avevo respirata dopo l’assassinio di Lumumba, e non saprei neppure spiegare come i miei genitori sapessero della sua esistenza e ne seguissero le gesta, ma per me Lumumba era un nome che evocava dignità per l’Africa». Appropriazione più indebita della nostra non poteva esserci, eppure la sua anarchia «esistenziale» non ci è poi così estranea. E, forse non caso, nel 2004 Cacucci non ha avuto problemi a scrivere l’introduzione a Una passione per Che Guevara di Jean Cau (edito da Vallecchi), scrittore di destra, considerato in Francia un vero e proprio “fascista”, e autore del manuale di resistenza alla decadenza intitolato Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (Ciarrapico edizioni). Comunque, Outland rock, la raccolta di racconti dell’esordio cacucciano, nonostante i suoi vent’anni, è tornata recentemente in libreria grazie a Feltrinelli (Universale Economica, pp.165 € 7,50, 2007). Nel ’88 l’editore Canalini per pubblicarne la prima edizione con Transeuropa – da cui Pier Vittorio Tondelli negli stessi anni lanciava il progetto “Papergang under 25” – pretese che l’autore cambiasse il nome, o almeno che assumesse una sfumatura straniera: «troppo brutto il nome Pino Cacucci per vendere». Così quella prima raccolta di racconti risultò opera prima di uno sconosciuto P. D. Cacucci. «Dove la D. stava per debosciato» ha raccontato con autoironia lo scrittore. La D. si è smarrita subito per strada, senza rimpianti, ma Cacucci è rimasto l’irriducibile bastiancontrario di allora.

mercoledì 25 luglio 2007

Sì, Fantozzi è vivo e lotta insieme a noi

Dal Secolo d’Italia di mercoledì 25 luglio 2007
Rubrica settimanale Appropriazioni (in)debite
Paolo Villaggio, il genio che con una battuta demolì l’immaginario della sinistra cinefila

«Una cagata pazzesca». E’ una battuta del Secondo tragico Fantozzi a liquidare, una volta per tutte, l’agghiacciante Corazzata Potëmkin cara a tutti i marxisti-leninisti e ai cinofili di sinistra. La carrozzina con il bambino che rotola giù dalla scalinata. Il dolore della madre fucilata dai soldati. E a infierire oltre ogni umana sopportazione, il dibattito a seguire il film, con i “cari dipendenti” (qualità sadicamente rimarcata) invitati a commentare la scena “preferita”. Il trionfo della sottomissione estrema. Almeno fino all’atto di insubordinazione di Ugo Fantozzi negli inusuali panni di agguerrito leader dei colleghi: occupazione della sala aziendale – visione di film non certo amati a sinistra come Quel gran pezzo dell’Ubalda, Giovannona coscialunga e La polizia s’incazza… – e strenua resistenza all’assedio (con tanto di gas lacrimogeni) delle forze dell’ordine. Rivolta contro l’autorità del megadirettore galattico che, neanche a dirlo, si conclude tragicamente per i nostri eroi. Li attendono le non meno drammatiche gite aziendali. Eppure quel estemporaneo moto di ribellione un effetto concreto finì per produrlo, al di là della finzione cinematografica: la pellicola da allora scomparì dai cineforum aziendali. Come a dire: una risata vi seppellirà. Sembrerebbe una leggenda metropolitana, ma non lo è.
Ne abbiamo chiesto conferma a Paolo Villaggio, autore e interprete dell’intera saga del mitico ragioniere, versione impiegatizia dell’italiano medio nell’era democristiana, sfiorato dal boom economico e intrappolato tra burocrazia e quotidianità. «Sì, è vero, è stata una liberazione per molti, che poi nei cineforum proiettavano anche di peggio…». Fantozzi, invece, rimane un evergreen. Di più: un cult. Non c’è passaggio televisivo dei suoi film che non venga salutato favorevolmente dal pubblico, le sue battute appartengono a pieno titolo all’immaginario collettivo, fanno parte del nostro linguaggio. E per quanto “fantozziano” sia inequivocabile sinonimo di goffo e perdente, il personaggio, malgrado rappresenti la maschera del mediocre per eccellenza, si è dimostrato più che fortunato.
Il ragionier Ugo (così come gli altri cavalli di battaglia di Villaggio, il professor Kranz “tedesco di Germania” e l’impiegato Giandomenico Fracchia) debutta sul piccolo schermo in piena contestazione, nel ’68, ma non presenta certamente i tratti del rivoluzionario, né del lavoratore sindacalizzato, per quanto Villaggio si sia sempre schierato all’estrema sinistra. Nel ’71 fa la sua prima apparizione in libreria con Fantozzi (Rizzoli). Ed è subito best-seller internazionale, così come i libri che seguono e preparano il terreno alla consacrazione cinematografica del ’75 con l’omonimo film diretto da Luciano Salce, cui seguiranno altre nove pellicole (un’altra di Salce, sette di Neri Parenti e una di Domenico Saverni, l’ultima, nel 1999, Fantozzi 2000 - La clonazione, senza il ragionier Filini, lo storico compagno di disavventure, perché, nel frattempo, l’attore Gigi Reder era morto davvero). In un primo momento Villaggio aveva pensato di far interpretare la sua creatura ad un attore già famoso, Ugo Tognazzi. Ma era troppo costoso. E Renato Pozzetto, seconda scelta, troppo milanese. Così gli diede la sua faccia. Il film incassò sette miliardi, una cifra incredibile a quei tempi. Preludio di un successo travolgente. Non c’è nella storia del nostro cinema un altro personaggio altrettanto longevo. Eppure sin dall’inizio Fantozzi si manifesta come un anti-divo insofferente alle mode e al consumismo di massa – raccapriccianti i suoi pantaloni ascellari e il basco nero schiacciato sulla testa – poco incline alla solidarietà di classe, un individualista impacciato e a tratti sprezzante, appassionato viscerale di calcio, marito – suo malgrado – fedele, nonostante sia perdutamente innamorato della signorina Silvani, la collega seducente quanto sfuggente, interpretata da Anna Mazzamauro, che sistematicamente lo sfrutta e lo molla, lo blandisce e lo rifiuta, torturandolo senza quasi che lui – ingenuo quanto romantico – se ne accorga. Collezionista di spaventose figuracce, il nostro dopo ogni sconfitta si rialza, dimostrando una tenacia che rasenta l’incoscienza. Un debole? Un uomo – per rimanere al lessico contemporaneo – con le palle di velluto? Provateci voi a vivere giorno dopo giorno con la signora Pina e la mostruosa figlia Mariangela e poi ne riparliamo.
Abbiamo chiesto a Villaggio – che sta girando un film «e poi un altro e un altro ancora per sfuggire alla morte e per vile voglia di denaro» – cosa prova, a distanza di tanti anni e film, nei confronti di Fantozzi, se lo sente ormai lontano…
«Lontano proprio no, Fantozzi è più vivo che mai. Ma si è mascherato. Adesso è travestito da giovane con il piercing, palestrato e con i jeans rotti artificialmente, segue drammaticamente la moda – è triste non avere creatività nel vestirsi – ed è fondamentalmente infelice. Non sogna più la signorina Silvani ma le veline. Ha per miti i vari Briatore e Lele Mora, gente di non grande spessore culturale ma che ha soldi e potere. Poveraccio, è capace di stare anche cinque ore in fila fuori dal Billionaire sperando che lo facciano entrare ma ogni volta lo rispediscono a casa. Intendiamoci, anche al mio Fantozzi poteva capitare di passare lo stesso tempo in macchina, magari incolonnato, ma era più autonomo, poteva scegliersi da solo la sua tortura. Questi giovani di oggi, invece, cercano di emulare i modelli irraggiungibili che propone la televisione ma restano fuori, non solo dal locale, fuori dalla vita, che è peggio. Quando invecchiano finiscono per intristirsi e si mettono a bere. Fantozzi almeno era convinto di essere felice, mica come questi cloni. E poi diciamocelo: è più simpatico il travet degli anni Settanta di quello del 2007, che ha perso fiducia nei valori della sua cultura».
Parola di Paolo Villaggio, un artista, un intellettuale, che da quando è nato (a Genova il 30 dicembre 1932) non si è mai fermato. Non a caso quando lo chiamiamo è in un aeroporto, pronto a salire su un aereo che lo sta per riportare da Milano a Roma, dove vive da oltre quarant’anni. Dopo gli studi – come poteva essere diversamente – di ragioneria, ha provato i mestieri più diversi e stravaganti, da quello di intrattenitore su navi da crociera in compagnia (anche questa non è una leggenda metropolitana) di Silvio Berlusconi e Fabrizio De Andrè – del quale è stato grande amico, ammiratore, «un autentico poeta a tutto tondo», e coautore di alcune canzoni, tra cui quella dedicata a Carlo Martello e inserita nel primo ellepì del cantautore genovese – a quello di impiegato, principale fonte d’ispirazione per la costruzione del mondo fantozziano. «Io sono nato come scrittore di libri e poi come comico televisivo» ha raccontato. Fino ad arrivare al cinema, dove esordì, prima di lanciare Fantozzi nel firmamento mondiale, nel film Eat it del ’68 e I quattro del Pater Noster (’69). Per un totale di oltre ottanta film. Non solo commedie. Ha recitato anche con maestri del calibro di Federico Fellini, Lina Wertmuller, Ermanno Olmi, Mario Monicelli e Gabriele Salvatores, vincendo premi prestigiosi, come – citandone uno per tutti – il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia del ’92, riconoscimento «che fece gridare allo scandalo». Perché, dopo aver fatto Fantozzi, per molti addetti ai lavori rimaneva un attore di serie B. E poi la scoperta del teatro. Nel ’96 Giorgio Strehler lo vuole nel ruolo di Arpagone ne L’Avaro di Molière. Da attore si fa regista, portando in giro per l’Italia anche spettacoli suoi, tra cui Paolo Villaggio: vita morte e miracolidi un pezzo di merda», come da titolo completo della biografia pubblicata nel 2002 da Mondadori).
Nel mirino di Villaggio – oggi come ieri – rimangono il conformismo, «la situazione drammatica della cultura», la politica (che ha conosciuto direttamente come parlamentare di Democrazia Proletaria nel ’87), i media: «Quello che non sono riusciti a fare i grandi dittatori, lo hanno fatto i media: farci vestire tutti allo stesso modo, farci mangiare tutti le stesse cose. Nemmeno Mao c’è riuscito».
«La verità – ci dice, sottolineando di non sentirsi un moralista – è che non esistono più gli ideali, la religione, la fede, si è perso il senso della famiglia, al cui interno si pensa solo a guardare la tv, non si parla più, ci si azzanna e basta. Prevale l’esibizionismo. E se guardiamo alla condizione dell’Italia c’è da preoccuparsi, l’Alitalia non la vuole nessuno, la Fiat fa finta di vendere la Cinquecento, perdiamo colpi, e la classe politica è fatta di gente che pensa solo a delegittimare gli avversare, che si insulta per poi rincorrere disperatamente l’interesse personale. Penso alla Bonino, all’uscita teatrale che ha fatto mentre sarebbe bastata una telefonata a Prodi per dirgli: guarda che non sono d’accordo. Cosa possono sperano i giovani? E’ uno schifo».
In tutti questi anni Villaggio non ha mai smesso di seguire l’attualità continuando a dire la sua, attraverso l’attività di scrittore: dodici libri all’attivo, di cui l’ultimo, del 2006, è Gli fantasmi (Rizzoli) e quella – da battitore libero – di giornalista, di notista indisciplinato, tanto da trovarsi a scrivere «in piena autonomia» su un quotidiano di destra, l’Indipendente diretto all’epoca da Giordano Bruno Guerri. Alcuni dei brani di quel periodo li ha raccolti nel godibilissimo Sono incazzato come una belva (Mondadori, 2004). Da quella tribuna libera Villaggio getta il suo sguardo beffardo sui tipi e i vizi peggiori della nostra “civiltà”. Dalla copertina ci scruta un fotomontaggio: Villaggio truccato da Gioconda (o viceversa). «Più che un libro, è un safari. E le belve umane siamo noi: personaggi laidi e terrificanti, eppure tragicamente comuni». Ce n’è per tutti, da «l’insostenibile “fichista”, quello che le donne sono “tutte troie” e tutte sue, ai pubblicitari farabutti, luminari assetati di carte di credito, miracolati e miracolanti, vacanzieri a Porto Cervo o a Capalbio». L’ennesimo graffio a quel mondo radical chic che – nonostante il suo personale schierarsi a sinistra – non l’ha mai amato. Anche se oggi, va detto, Villaggio è unanimemente apprezzato. Tempo fa ebbe a dire: «Adesso, persino a Genova, dove per anni mi hanno considerato un coglione, se mi vedono allo stadio mi applaudono. Anche i critici mi amano. Vuol dire che la morte si sta avvicinando». Da allora è passato qualche tempo e noi, fantozzianamente, ci limitiamo ad applaudirlo indebitamente e a «incrociare i diti» per lui.

mercoledì 11 luglio 2007

Elio Vittorini, il deviazionista innamorato dell'America

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 11 luglio 2007
Rubrica settimanale Appropriazioni (In)debite
Per tanti - troppi - anni la vulgata antifascista e catto-comunista dei decenni Sessanta e Settanta ci ha obbligato a leggere i suoi romanzi sui banchi di scuola. Ma a ben vedere, sulla sua reale identità politico-culturale è davvero facile equivocare. Fiancheggiatore dei rossi o antesignano del mito americano? Incasellare Elio Vittorini (Siracusa, 1908 – Milano, 1966), giornalista, scrittore, traduttore, grande organizzatore culturale e guastafeste per antonomasia, tacciato di tradimento prima dai fascisti e poi dai comunisti, è impossibile oltre che inutile. Inizialmente fascista convinto e collaboratore delle tante riviste dell’epoca, allo scoppio della guerra di Spagna, insieme con l’amico Vasco Pratolini – in un articolo pubblicato dal Bargello – incita i camerati italiani a raggiungere i repubblicani spagnoli per battersi contro il reazionario e conservatore Franco. Scelta che gli costa l’allontanamento dal partito e lo porta dall’altra parte della barricata, ma sempre da non allineato. Lo imparerà nel dopoguerra a sue spese Palmiro Togliatti, affidando a quel ex fascista di sinistra la via letteraria all’occupazione militare della nuova cultura italiana. Perché Vittorini detestava sì il provincialismo trombonesco della tradizione letteraria nazionale ma ad ispirarlo non era certo il grigiore oppressivo dell’Unione Sovietica, ma il mito dell’America rappresentata come terra di grandi opportunità e, malgrado le mille contraddizioni, ricca di fermenti culturali di stampo libertario. La sua era senz'altro "una certa idea dell'America".
Del resto proprio l’antologia Americana – raccolta di brani di scrittori nordamericani – da Vittorini curata per Bompiani nel ’41 aveva contribuito in maniera determinante a seminare l’esplosivo vitalismo libertario di quel “mito” che finirà per contagiare attraverso il cinema e la musica, oltre alla letteratura, l’immaginario delle generazioni future. Una curiosità: ad eccezione di una fugace apparizione sul longanesiano Omnibus, è proprio Vittorini a far esordire, tra gli altri, l’italo-americano John Fante in Italia, inserendone un racconto nell’antologia con enorme anticipo su chi, decine di anni dopo, si vanterà di averlo “scoperto”.
Se tale pubblicazione a suo tempo irritò non poco qualche gerarca (vide la luce solo nel ’42 e la prefazione dello scrittore siciliano venne censurata e sostituita con un’altra di Emilio Cecchi), non tardarono a presentarsi momenti di forte frizione anche tra Vittorini e il partito comunista, la cui principale preoccupazione era quella di serrare i ranghi per affrontare la guerra fredda. «Suonare il piffero per la rivoluzione?» Giammai! Vittorini l’aveva detto e non mancò di ripeterlo ai dirigenti del Pci – sessant’anni fa, nel ’47 – spiegando loro che «la cultura non può essere asservita alla politica e farsene ancella», rivendicandone, al contrario, «l’autonomia», il ruolo di sperimentazione permanente e di attenzione ai nuovi linguaggi e ai modelli letterari che arrivavano d’oltreoceano. Se Benito Mussolini, qualche tempo prima, probabilmente ebbe a pentirsi di aver dato il proprio consenso a Giuseppe Bottai per far nascere Primato (la rivista a cui collaborò lo stesso Vittorini), Palmiro Togliatti nel ’47 non indugiò altrettanto: prese carta e penna e in un articolo su Rinascita delegittimò Il Politecnico, la rivista cui Vittorini solo due anni prima aveva dato vita – la cui nascita era stata salutata «con gioia» dal “Migliore” nell’auspicio di «un rinnovamento della cultura italiana» – sfoderando la più micidiale (quanto ricorrente) delle accuse: «Deviazionismo ideologico». In politichese: «Una ricerca astratta e superficiale del nuovo che può portare a compiere o avallare sbagli fondamentali di indirizzo ideologico». In sintesi, con toni ultimativi: o con noi o contro di noi. Moriva così una delle riviste europee più interessanti del dopoguerra – il cui proposito era quello di creare una “nuova cultura”, alternativa al crocianesimo e alla vecchia erudizione da prosa d'arte, la quale non si limitasse a “consolare” i lettori ma puntasse a migliorarne la qualità della vita – aperta, sulla spinta del suo fondatore, ad ogni contaminazione culturale, capace di fondere sapere scientifico e cultura popolare, misurandosi persino con le “nuvolette parlanti”. «“Uno spirito di fumetto” c’era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il Politecnico, dove c’era una appendice interamente dedicata ai fumetti» ha raccontato Vittorini in un’intervista apparsa sul primo numero della rivista Linus (’65).
L’ambizioso tentativo dell’intellettuale siciliano – formatosi nell’esperienza di Solaria (la rivista fiorentina che tra il ’33 e il ‘34 pubblicò a puntate il suo primo romanzo: Il garofano rosso) – di svecchiare la cultura “ufficiale” e farla uscire dall’isolamento stabilendo un contatto rigeneratore con quanto di nuovo andava sviluppandosi in Italia e fuori, venne pertanto fatto fallire dall’intervento a gamba tesa dell’uomo forte del Pci, per il quale certe aperture e lo spazio offerto a posizioni critiche nei confronti dei dogmi comunisti, come le osservazioni di Merleau-Ponty sul «marxismo che dovrebbe salvare la ricerca esistenzialista invece di soffocarla» erano politicamente intollerabili.
L’editore Einaudi giustificò la chiusura adducendo ragioni economiche, ma è indubitabile che non si volessero compromettere i rapporti di buon vicinato con il Pci, i cui militanti rappresentavano un mercato potenziale non trascurabile. L’arroganza di Togliatti fece il resto, mirando a screditare il prestigio e minimizzare il ruolo di Vittorini: atteggiamento riservato a tutti gli intellettuali che, come Silone ed altri, nel corso degli anni ebbero la sfrontatezza di insubordinarsi. Quando nel ’51 lo scrittore siciliano lascia definitivamente il Pci, Togliatti lo saluta polemicamente firmando su Rinascita, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, un velenoso articolo intitolato: «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!». «Era venuto con noi perché credeva fossimo liberali: invece eravamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima?» chiosò sarcastico. A spiegare perché tanti intellettuali fascisti passarono dall’altra parte ci ha provato nel 2005 Mirella Serri nel suo libro I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948 (Corbaccio 376 pag. € 19,60): «Molti divennero comunisti, furono definiti da un vecchio esponente Pci “fascisti redenti” e mondati in tal modo di ogni loro peccato. Per usare il termine born again furono rinati, ma questa assoluzione impartita al fonte battesimale di un partito politico (la definizione è di Paolo Mieli), ebbe l’effetto di oscurare le ragioni del loro passaggio all’antifascismo e quindi della continuità che ha caratterizzato la cultura italiana nel momento in cui il paese cambiava istituzioni e classe politica». La “conversione” di Vittorini all’antifascismo, infatti, non esprime la condanna di un regime politico per l’esaltazione di un regime opposto, bensì la solitaria protesta politico-letteraria di un anarchico-individualista insofferente alle gabbie ideologiche, che si opponeva alla retorica del fascismo senza per questo volersi fare “suonatore di piffero” della rivoluzione comunista. Nelle sue opere non c’è traccia dello scrittore neorealista e materialista, ma c’è spazio soprattutto per l’inquietudine e il lirismo, per l’esigenza – come ha scritto in Diario in pubblico (raccolta di saggi del ‘57) – «di rimettere tutto in questione, caso per caso e problema per problema». Persino in Uomini e no (Mondadori), pubblicato appena dopo la fine della guerra e definito “il primo romanzo della resistenza”, nella nota della prima edizione – poi eliminata – ribadisce il suo convincimento: «Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo, e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana». «Dissemina dubbi e incertezze su quanto è accaduto» dirà Valentino Bompiani. Vittorini, in realtà, rimase fedele alla propria personalissima linea di condotta, convinto com’era che «rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo». Aveva provato a spiegarlo a Togliatti, delineando i rispettivi campi d’azione, per poi giungere all’amara considerazione: «Non capisce o non vuole capire».
Certamente non poteva condividere la grande passione per l’Ovest e per gli autori americani che Vittorini, ragioniere mancato ammalato di letteratura, aveva manifestato sin da giovanissimo. Amore ricambiato. Quando la versione statunitense del suo libro forse più importante, Conversazione in Sicilia, (pubblicato a puntate su Letteratura e edito in volume nel ’41 in Italia) si fregerà della prefazione di un già famoso Hemingway, per Vittorini è la consacrazione internazionale, il punto d’arrivo per un’avventura iniziata vent’anni prima. Nel ’24, dopo tre tentativi di fuga (uno per favorire il matrimonio “riparatore” con Rosa, la sorella di Quasimodo), aveva lasciato definitivamente la Sicilia, che farà da sfondo ai suoi romanzi. Pur di inseguire le sue passioni aveva accettato di lavorare in un’impresa edile in Friuli Venezia Giulia, iniziando – sin dalla seconda metà degli anni Venti, grazie al suo mentore Curzio Malaparte – a collaborare con riviste e quotidiani. E’ un vecchio operaio della tipografia fiorentina dove dal ‘30 lavora come correttore di bozze per La Nazione ad insegnargli l’inglese. Consolida così l’interesse per la narrativa americana, a cui si dedica con sempre maggiore continuità, soprattutto quando un’intossicazione da piombo lo costringe a concentrarsi sull’attività di traduttore e scrittore.
Anche dopo la rottura con la nomenklatura comunista, continua a fare (bene) il suo mestiere, tenendosi alla larga dalla politica, consapevole – per dirla con il suo amico Romano Bilenchi – quanto «Pci e Psi fossero ormai sputtanati, sputtanatissimi». Nel ’59 fonda Il menabò di letteratura, che dirige insieme a Calvino e a partire dal ’60 la Mondadori gli affida la collana La Medusa, cui si deve il merito di aver portato nelle case degli italiani i più bei romanzi del Novecento. Negli ultimi anni della sua vita è consulente della casa editrice Einaudi, finché una grave malattia lo conduce alla morte nel ’66. Sono passati oltre quarant’anni e in questi tempi di bipolarismo coatto di innovatori e di uomini col fiuto di Elio Vittorini ce ne sarebbe un gran bisogno, anche per evitare di sobbalzare ad ogni starnuto della politica e rischiare così di beccarsi un raffreddore.

mercoledì 27 giugno 2007

L’eresia di Nicolini che affascinò anche la destra. E se invece di Walter avesse vinto Renato?

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 27 giugno 2007
Rubrica settimanale Appropriazioni (In)debite
La scenografia del Lingotto è pronta, degna del più sfavillante set cinematografico. L’annuncio, nei giorni scorsi, è stato solenne: dirò sì ma a Torino, nella città operaia per eccellenza. La location prima di tutto, simbolismo prêt à porter e citazioni evocative da grande illusionista. Veltroni, l’unico, a sinistra, a non essersi (ancora?) sputtanato. Nel frattempo, si predispone ad imperare sulla metà progressista, catto-comunista e radical chic degli italiani, passata in poche ore dalla disperazione politica ad una sensazione che, parafrasando una canzone di Carmen Consoli, potremmo definire di «confusione e felicità». Come se per rianimare l’Italia affondata da Prodi bastasse organizzare una notte bianca a mo’ di ricostituente.
E pensare che se trent’anni fa non ci fosse stato il compagno Renato Nicolini (classe ’42) ad inventarsi l’estate romana, oggi Veltroni non siederebbe sul trono dell’effimero trasformato in gigantesca macchina di consenso, della creatività irreggimentata in imprenditoria culturale assistita, della fantasia al servizio - non della politica - ma del potere, delle idee ridotte a spot.
Perché Nicolini è stato il primo a capire l’importanza strategica che la promozione culturale e l'immaginari possono rappresentare per un ente locale e soprattutto per una città. Senza la sua geniale intuizione, non avremmo avuto i Daverio e gli Sgarbi a Milano, men che meno ora ci troveremmo ad affrontare Veltroni che, nella seconda metà dei Settanta, muoveva timidamente i suoi primi passi da piccolo burocrate di partito in Campidoglio. Abbastanza sveglio da capire al volo l’aspetto più appetitoso della lezione nicoliniana: la cultura quale strumento di intervento sulla qualità della vita dei cittadini. Per intenderci: se messi in condizione di respirare – oltre allo smog – un clima di festa permanente, i romani diventano miracolosamente più indulgenti nei confronti dei tanti disservizi. Ma l’approccio di Nicolini (emulato negli anni a seguire, non sempre brillantemente, da decine di assessori e sindaci) non si riduceva certamente a fare da cuscinetto sociale. Al contrario, si presentò come rivoluzionario rispetto alle ingessate e girgie gestioni democristiane e moderate. E se ne accorsero sin da subito gli amministratori dell’epoca, a partire da quell’Eligio Filippi cui il nostro subentrò all’assessorato alla cultura nell’agosto del ’76 (rimanendovi sino a luglio ’85, tanto da veder passare i sindaci Argan, Petroselli e Vetere) e che – ha raccontato lo stesso Nicolini - «aveva gestito l’assessorato come un salottino privato dove incontrava il bel mondo e promuoveva feste di folklore». Quel comunista "creativo" e irregolare rompe radicalmente con i metodi del passato, cambiando per prima cosa interlocutori. Non più intellettuali e istituzioni deputate per “statuto” alla cultura. Si rivolge a realtà associative nuove quanto spontanee, valorizza le tante voci di una società italiana in piena trasformazione, più di quanto raccontino le cronache di quegli anni, la cui attenzione è rivolta soprattutto all’allarmante escalation di violenza urbana. Nicolini investe su un nuovo ceto medio creativo, che è quello che esce dalle esperienze dei cineclub, delle radio libere, delle università. La peculiarità è l’improvvisazione, le iniziative sono lasciate completamente libere di esprimersi. La sfida è lanciata e risulterà vincente, perché risponde all’attesa del pubblico. Come ha scritto Giampiero Mughini, la gente «voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. Tutti volevano dimenticare i giorni lividi dell’orrore, indossare delle belle giacche, fare lunghe vacanze, incontrare ragazze che non avessero più l’aria minacciosa dei ’70, ascoltare della musica la più assordante possibile».
E' Umberto Croppi a sottolineare i tanti aspetti positivi di quella stagione, anche per gli allora "giovani di destra": «Il ’77 non segna – come sostengono alcuni – l’inizio degli anni di piombo, semmai l’inizio della fine di un clima reso cupo dal marginalismo e dalla disperazione di pochi epigoni che, di fatto, finiscono per tenere sotto assedio le città italiane. Ed è anche grazie al moltiplicarsi delle iniziative culturali di Nicolini - prosegue Croppi - che migliaia di romani rompono il coprifuoco dettato dalla paura e riscoprono il piacere di stare all’aperto, di frequentarsi e divertirsi, riappropriandosi di aree della cultura popolare che, sino a quel momento, erano letteralmente proibite a molti e soprattutto ai “fascisti”, come ad esempio i concerti rock, decisamente impraticabili per chi non indossasse il look d’ordinanza». Consapevole o meno, il risultato dell'azione di Nicolini fu proprio questo: «Evitare il rischio di soffocare in lotte tra fazioni». Ovvero rispondere alla contrapposizione ideologica e all’emarginazione delle periferie inducendo i romani ad usufruire degli spazi pubblici e di monumenti troppo a lungo «imbalsamati» offrendo loro gli spettacoli più diversi: dalla musica pop al balletto, dalle maratone cinematografiche di film popolari al teatro da strada, mettendo in scena veri e propri patchwork postmoderni tesi ad abbattere gli steccati culturali tradizionali.
Un’operazione che va nella direzione contraria rispetto a quella portata avanti dai conservatori e burocrati del Pci, tesa a dividere il mondo giovanile – che nel ’77 è trasversalmente , da destra e sinistra, animato dalle stesse pulsioni estetiche e libertarie – per costruire l’egemonia culturale e edificare il totem della superiorità culturale e morale della sinistra, miseramente quanto definitivamente crollato proprio in questi anni. Lo stesso Nicolini, in una tavola rotonda dell’82 su “L’effimero e la cultura di massa”, ne aveva spiegato la valenza innovativa: «Il profilo all’apparenza leggero delle manifestazioni romane contiene in sé la ricerca di una dimensione politica alternativa in grado di conseguire non tanto la prefigurazione di un avvenire ipotetico possibile, la formulazione di modelli di società virtuosa, ma la capacità di scegliere quegli elementi che sono in grado di produrre movimento, di formulare nuove ipotesi, di rinnovare la cultura e la politica stessa».
Nel successo dell’effimero, formula che esprime meglio di tanti saggi storico-sociologici la negazione della cultura materialista, si manifesta la crisi irreversibile del comunismo e l’insofferenza crescente per la rigidità e l’intolleranza dei miti marxisti-leninisti. Di converso si avverte sempre più il bisogno diffuso di irrazionale e spiritualità, di valori condivisi, di immaginario, di partecipazione. Nicolini decide di interpretare fino in fondo tale sentimento collettivo, dimostrando un incredibile coraggio politico che lo porta a rompere con la tradizione sindacale e la retorica delle manifestazioni dei lavoratori e organizzare – il 1 maggio ’81 – una grandissima festa popolare dai tratti mitopoietici e simbolici: centoventimila persone in piazza del Popolo per celebrare i quattro elementi naturali. La terra, rappresentata dalle bande musicali che calcano la piazza; l’aria, con decine di mongolfiere che si alzano in volo; il fuoco, con fuochi d’artificio; l’acqua con una cascata sulla parete del Pincio. Non manca, oltre all’elemento simbolico, quello magico: è un mago a comandare il gioco d’acqua. Altrettanto evocativo il festival del cinema di Massenzio. La cui prima edizione, nell’estate del ’77, piuttosto che riproporre le solite pellicole “impegnate” è dedicata al cinema epico, una formula che anni dopo troverà il suo culmine con la proiezione del mitico Napoleon di Abel Gance al Colosseo, capace di inchiodare sotto la pioggia Danielle Mitterand, moglie del presidente, insieme a famigliole armate di plaid e panini, cinefili e gente semplicemente in cerca di svago. E’, quella del pubblico entusiasta, la migliore risposta alle stroncature dei soliti critici del politicamente corretto, che liquidano le prime edizioni come spazzatura trash. Forse perché l’esplosione di creatività finisce per mettere in discussione il ruolo stesso di arbitri culturali cui gli intellettuali di sinistra non intendono rinunciare. Lo stesso festival dei poeti beat a Castel Porziano del ’79, che richiama trentamila giovani, è un’altra invenzione nicoliniana, tra i pochi a capire come il movimento beat rappresentasse un fenomeno esistenziale che poco o nulla aveva a che fare con il marxismo. E’ difficile ricordare la miriade di iniziative, dalla “Ricerca del ballo perduto” a Villa Ada alla – ebbene sì – “Affabulazione dalle fogne”. Già, perché in quegli anni stravaganti c’era chi gridava “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne” e chi dalle fogne (letteralmente, da impianti fonici inseriti nei tombini) si preoccupava di far ascoltare ai passanti musica o letture di brani celebri.
L’intelligenza di Nicolini - la colpa imperdonabile, per certa sinistra - è stata quella di muoversi in sintonia con lo spirito dei tempi nuovi, sintonizzandosi con un immaginario «restituito al suo potere d’incanto, senza snobismi e distinzioni. Cultura alta e bassa insieme, la libertà e il piacere del consumo come ricetta anche politica per richiamare e far convivere pubblici diversi, senza barriere d’ideologie». Senza manipolazioni, senza modificazioni genetiche, senza ricorrere a fredde operazioni di marketing. «Poi – ha dichiarato recentemente Nicolini – la logica stanca della politica tornò a prevalere, la macchina a subire impacci burocratici, tentativi di lottizzazione, i costi si impennarono… I partiti si sono accorti che iniziative come queste portano consensi e se ne sono appropriati». Così da spingere Nicolini, ordinario di Composizione all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, a dedicarsi ai suoi mille talenti di architetto, autore di testi teatrali e organizzatore culturale itinerante: direttore artistico di Volterrateatro, vicepresidente della Fondazione Festival dei due mondi di Spoleto, commissario del Teatro Stabile de L’Aquila, presidente del Palazzo delle Esposizioni... Parlamentare dall’83 al ’94, assessore all’Identità (altro tema centrale nella sua concezione della politica) del Comune di Napoli a guida Bassolino – da tempo non è più nella politica attiva, il che non gli ha impedito di intervenire per dire la sua, com’è capitato spesso a Roma, lanciando sempre lo stesso invito: «Bisogna tornare a sperimentare!» Dell’amministrazione capitolina non è entusiasta, anzi è critico: «Veltroni non osa più, tutto è ormai all’insegna dei grandi eventi. La Casa del cinema a Villa Borghese? Non era meglio a Cinecittà? Per natura diffido delle cose troppo ordinate. E basta con le aree vip negli eventi culturali. Si inaugura troppo, non solo le opere complete, anche i cantieri».