mercoledì 9 maggio 2007

Imperdonabile Cristina, genio controcorrente

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 9 maggio 2007

Insolenza gratuita e luoghi comuni contro la Chiesa cattolica. Basta poco per procurarsi un quarto d’ora di celebrità, persino per un Rivera che non è Gianni: un palco, un microfono e una platea a pugno chiuso. Parliamo dell’ultimo prodotto dell’ideologia sinistra, per il quale già si invoca la libertà d’espressione e un posto non più da precario in Rai. Sai che ridere se il citofonista di Serena Dandini in Parla con me andasse a suonare il campanello dell’abitazione romana di Cristina Campo. Peccato non sia più tra noi. Riservata e bellicosa com’era, al nuovo eroe della sinistra avrebbe rinfrescato le idee (stantie) con una bella secchiata d’acqua. Lei sì, scomoda, piccola e sola contro le due grandi “chiese” del Novecento italiano, la cattolico-progressista e la comunista, senza che nessuno la difendesse. Tanto da meritare l’oblio, ancora adesso. E senza liquidazioni miliardarie, appelli solidali e celebrazioni postume, queste ultime dispensate sin troppo generosamente.
E’ scomparsa - a soli cinquantaquattro anni - la notte tra il 10 e l’11 gennaio del ’77, ma il “trentennale” dalla morte è passato sotto silenzio: solo qualche articoletto e pochi approfondimenti per colei che Guido Ceronetti ha definito «la più misteriosa delle scrittrici italiane, la più sfaccettata e complessa, al punto che chiamarla scrittrice è attributo impoverente e generico». A distanza di tanti anni, Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini (Bologna, 29 aprile ’23), intellettuale autodidatta ma coltissima, saggista, poetessa e traduttrice, è ancora innominabile negli ambienti culturali egemoni e le sue opere, “riscoperte” grazie all’Adelphi, rimangono pressoché sconosciute al grande pubblico. L’ha ricordata - invece - Annalisa Terranova in un libro di cui, come ha scritto Isabella Rauti nella quarta di copertina, «si sentiva il bisogno», perché accende i riflettori su storie poco note quanto importanti: Camicette nere. Donne di lotta e di governo da Salò ad Alleanza Nazionale (Mursia). E la Campo, dopo la caduta del fascismo, a Salò sarebbe andata volentieri. Quando nel ’44 i tedeschi si ritirano, lei - interprete volontaria per il comando della Wehrmacht di Fiesole, dov’è sfollata - vorrebbe seguirli al nord, ma si lascia dissuadere dal padre Guido, direttore del conservatorio Cherubini di Firenze e fondatore dell'AGiMus (l'associazione musicale giovanile ancora oggi attiva in tutta Italia). I bombardamenti angloamericani - in cui perirà la sua migliore amica, Anna Cavalletti - così come l’arresto e la lunga detenzione del padre, del tutto ingiustificata, nel campo di prigionia di Collescipoli (Terni), sono avvenimenti che la segnano profondamente.
Come ha scritto Cristina De Stefano in un altro bellissimo libro, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo (Adelphi, 2002), «da allora in poi gli sconfitti saranno sempre per lei eroi dolcissimi, al di là delle loro colpe». Gianfranco Draghi, con il quale fondò La posta letteraria, supplemento culturale del “liberale” Corriere dell’Adda - capace di «suscitare scandalo pubblicando nella stessa pagina Machado, Pound e Brasillach» - ricorda come «Cristina evitasse volutamente di parlare di politica. Sapeva che ero stato nella Resistenza, ma rispettava le mie idee». Meno tenera è nei confronti del mondo letterario, «un circo», e degli scrittori alla moda, «mestissime marionette». Non le interessano gli argomenti di cui si parla nei salotti. Raramente ne accetta gli inviti e regolarmente se ne pente: «Ogni peccato contro il tempo (andare tre minuti dai Bellonci) si sconta con il tempo». Poche le amicizie, selezionatissime. Quando le presentano Silone è diffidente. Anche se lo scrittore è ormai lontano dal partito comunista, si tratta pur sempre di uno degli «antichi avversari». «Per educazione e per inclinazione è una conservatrice» scrive Cristina De Stefano ricordando come la scrittrice frequentasse personaggi come Ida Samuel, figura di spicco della destra emiliana, legata alle associazioni di reduci della Repubblica di Salò: «La Campo non nasconde il passato fascista della sua famiglia. Una delle amiche del periodo romano è Maria Grazia Bottai, figlia del ministro. Remo Fasani ricorda che negli anni del dopoguerra, a Firenze, si divertiva a lodare ad alta voce Mussolini per scandalizzare i passanti».
Bella e raffinata, schiva quanto intransigente, di salute cagionevole - una grave malformazione cardiaca la costringe a lunghi periodi di riposo - quanto forte di carattere, è impetuosa, incendiaria nei rapporti con gli altri. La sua spada, affilata e di metallo purissimo, è la scrittura, curatissima, concepita come esercizio spirituale e ricerca etica di verità e bellezza, affrontata con spirito di rinuncia, lo stesso che la spinge a firmare i suoi scritti con pseudonimi diversi per lasciare che l’opera venga giudicata in sé, indipendentemente da chi ne abbia la paternità. «Credeva che la perfezione esistesse e non sapeva cosa farsene della perfettibilità» diceva di lei Mario Luzi, che le fu amico. Indaga incessantemente sulla tecnica della scrittura, sul significato “altro” delle fiabe e dei simboli, ma non cerca lettori che non siano in grado di «capire subito», non è mossa da intento divulgativo, non insegue riconoscimenti. Scrittrice atipica, essenziale, parlando di sé in terza persona conclude: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». «La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo rendere conto», ha dichiarato in un’intervista. Quel che rimprovera alla letteratura moderna è la perdita dei valori spirituali causata dalla più generale massificazione dei costumi. Prova sincero orrore per la società di massa. Osserva la De Stefano: «Il mondo nato dal dopoguerra e dal boom economico è per lei un pianeta inabitabile dove volti, abiti, usi agonizzano nell’omogeneità, dove ogni gesto è intercambiabile e quindi ormai privo di senso. Un mondo dove si è persa per sempre l’idea di destino, per lei così importante. È profondamente antimoderna. Pensa che il mondo moderno sia un’impostura e il progresso - idea atea per eccellenza, ha scritto Simone Weil - una bugia pericolosa. Si affaccia su altri secoli, intimamente insoddisfatta del suo». La solitudine, del resto, non le pesa, l’ha sempre coltivata, sin da bambina, costretta dalla malattia a studiare in casa. Ne è serenamente consapevole e persino fiera: «So bene che ho contro tutto il costume italiano in blocco, centrosinistra, neo-realismo, paura di tutto e tutti (soprattutto del “diverso dal solito”), protezioni, embrassons-nous, corse di quintana, sentimentalismo, vecchie generazioni che adoperano ogni arma contro le nuove, eccetera».
Nel ‘56, quando i carri armati del Patto di Varsavia occupano Budapest, vince la caratteriale ritrosia alla “mischia” e si prodiga organizzando aiuti per i profughi ungheresi che giungono a Roma: ritiene il comunismo la peggiore delle sciagure che possano colpire un popolo. Alla fine degli anni ’50 inizia a lavorare con regolarità per la RAI curando una rubrica radiofonica di poesia e conosce Elémire Zolla, il giovane intellettuale che diventerà il compagno della vita.
I due si assomigliano, entrambi detestano il mondo borghese e cercano ciò che non si vede, «quello che va al di là del reale: l’aura che circonda le cose e le persone». Scelgono di vivere all'Aventino, davanti alla Chiesa di Sant'Anselmo. E insieme danno vita ad un cenacolo elitario, estraneo alle mode culturali. L’influenza della Campo spinge Zolla ad abbandonare l’impostazione neo-illuministica per scoprire i maestri tradizionali del Novecento: Simone Weil - tanto amata dalla Campo - Eliot, Guénon e i mistici pagani e cristiani. Gli anni che vanno dal ’60 al ’75 sono intensi, segnati dal riavvicinamento alla religione cattolica. La fede l’ha aiutata ad affrontare la malattia, che pure finirà per sconfiggerla. Come San Giuseppe da Copertino la ritiene «sempre e unicamente qualcosa che Dio ha da dirci, cercarvi altre cause è buttar via la perla preziosa». Nel ’66 è la principale animatrice del manifesto - firmato da trentasette artisti e intellettuali - che chiede al Papa di conservare la liturgia latina nella messa. E’ sua l’iniziativa, l’anno successivo, di aprire la prima sezione italiana di “Una Voce”, l’associazione internazionale con sede centrale a Zurigo che si batte per la difesa del rito latino.
I suoi scritti più importanti, in buona parte pubblicati in vita, confluiranno nel volume Gli imperdonabili (Adelphi ‘87). Il saggio che dà titolo al volume qualifica come “imperdonabili”, agli occhi contemporanei, quelle persone che ancora cercano «la perfezione perduta in un’epoca di progresso puramente orizzontale e di massacro universale del simbolo, di crocifissione della bellezza». E grazie alla casa editrice di Roberto Calasso - frequentatore giovanissimo di casa Campo - vedranno la luce altre raccolte: La tigre assenza (’91), Sotto falso nome (’98) e l’epistolario Lettere a Mita (’99, Mita è Margherita Pieracci, ndr, curatrice delle sue opere). Del ’71 è il suo Il flauto e il tappeto e - considerando le tematiche antilluministe - a darlo alla stampa non poteva essere che la Rusconi. Artefice della pubblicazione è il più temerario e brillante degli organizzatori culturali, Alfredo Cattabiani, direttore editoriale della casa editrice milanese, scomparso il 18 maggio del 2003, amico ed ammiratore della Campo: «E’ stata forse la più grande prosatrice italiana di questo mezzo secolo. Del suo libro vendemmo poche copie, e non ottenemmo nessuna recensione perché l’autrice era giudicata reazionaria».
Su richiesta di Cattabiani, anche Zolla e la Campo entrano a far parte del ristretto nucleo di consulenti editoriali della Rusconi, impegnata in una coraggiosa battaglia da destra contro l’avvilente quanto intollerante conformismo della cultura “ufficiale”. Entrano così in “catalogo” diversi autori amati dalla Campo, tra i quali Marcel Lefèbvre. Lo ha voluto conoscere personalmente, gli scrive spesso, ne condivide l’impegno in difesa della Chiesa preconciliare. Ma a parere di Cattabiani è piuttosto il monsignore ad esserne «un discepolo. Fu Cristina a spingerlo su posizioni di rottura». Probabilmente Cattabiani esagerava, ma di certo è lei a curarne il libro Un Vescovo parla, pubblicato da Rusconi nel ’74 e ritirato quasi subito per intervento del Vaticano. Imperdonabile Cristina, anche dopo trent’anni.

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