Dal Secolo d'Italia di martedì 28 ottobre 2008
È indubbio: il pontificato di Karol Wojtyla resta il simbolo indiscutibile non solo del passaggio del millennio ma anche l’emblema della transizione tra il Novecento e il nostro ventunesimo secolo. Lo aveva spiegato Franco Cardini: «Il ventesimo secolo si era aperto mentre in tutta Europa trionfavano regimi laici e il Papa era prigioniero in Vaticano; si è chiuso con un pontefice che ha imposto la sua immagine». Se tutto questo è vero, vale davvero la pena leggersi Perché credo. Una vita per rendere ragione della fede (Piemme, pp. 429, euro 20,00), una lunga intervista in cui Vittorio Messori, il più noto scrittore cattolico, e autore di due colloqui con gli ultimi due papi, si racconta in prima persona al giornalista Andrea Tornielli. È l’autobiografia che incarna al meglio e nella concretezza di un’evidenza di vita vissuta il passaggio dal quale siamo partiti. È interessante il percorso di un perfetto prodotto della cultura laica e agnostica della Torino di Norberto Bobbio e di Alessandro Galante Garrone (intellettuali di cui Messori è stato allievo), degli autori della casa editrice Einaudi, degli editorialisti della Stampa (dove il nostro ha lavorato per dieci anni come redattore) diventi – nel periodo che va tra il 1964, l’anno della conversione, al 1976, quando uscì il suo bestseller Ipotesi su Gesù – il più noto scrittore cattolico a livello internazionale.
Osserva Tornielli: «La sua vicenda personale non è soltanto curiosa, ma rappresenta un percorso con cui è utile, per tutti, confrontarsi. In effetti, Messori è diventato l’autore che sappiamo perché, in un’epoca in cui anche molti religiosi, credendosi alla moda, scoprivano con entusiasmo Marx e Freud e sul pulpito sembravano sociologi, comizianti o psicanalisti, ha avuto il coraggio di domandarsi chi fosse quel Gesù di Nazaret sulla cui resurrezione sta, o cade, l’intero edificio della fede. Erano gli anni della crisi del postconcilio... ». In effetti, soltanto la Riforma protestante, quasi cinque secoli prima, aveva determinato uno svuotamento quasi equivalente di parrocchie, monasteri, seminari e associazioni cattoliche. Ebbene, in questo scenario laicizzato e in cui si era spinti a vergognarsi del cosiddetto “mondo cattolico” sociologicamente inteso – «i cattolici – ammette Messori – erano il pullman e il pranzo al sacco della gita parrocchiale, l’odore repellente di cibo stantio dei refettori delle case religiose, la retorica dei buoni sentimenti, i canti inascoltabili, le chitarre dei gruppi dell’Azione Cattolica, il pretone sudato stretto nella nera tonaca ovviamente impataccata... il cattolicesimo, insomma, era innanzitutto cattivo gusto, era l’alito pesante... ». Il ventiquattrenne Vittorio, neoconvertito per “illuminazione improvvisa” al cristianesimo, anzi alla Santa Madre Chiesa cattolica e romana, nella laica e illuministica Torino della prima metà degli anni Sessanta, impiega dodici anni per scrivere un libro, il già citato Ipotesi su Gesù, e sfonda nelle librerie non confessionali, imponendo un successo di massa inatteso e imprevedibile. In quel ’76-77, in cui trionfavano il terrorismo, la degenerazione del sindacalese, la corruzione esplicita della politica, nella classifica del bestseller Ipotesi su Gesù stette per mesi e mesi al primo posto dei libri più veduti della saggistica accanto, nella colonna della narrativa, al romanzo Porci con le ali, manifesto letterario dell’allora rivoluzione sessuale. Era il sintomo evidente di qualcosa che stava cambiando.
Niente del resto sembrava lavorare a fare di Messori quello è diventato. «Mio padre – ricorda – da uomo di destra, da tempo temeva che, come tutti, o quasi, i giovani di allora, diventassi comunista...». D’altronde, suo padre cresciuto nelle organizzazioni giovanili fasciste, «aveva militato in una delle divisioni della Repubblica Sociale addestrate in Germania e – aggiunge Messori – molti miei parenti si erano schierati col fascismo... ». Dunque, nonostante lui sia nato nel 1941 a Sassuolo, dopo la guerra i suoi ritennero che non fosse «igienico tornare – ricorda ancora – dalle campagne bresciane dove eravamo sfollati, proprio nella zona emiliana detta “triangolo della morte”. Qui, a lungo, ogni notte i comunisti prelevavano e massacravano preti ed ex repubblichini, spesso mascherando sotto etichetta politica vendette private, rapine, sadismi. Meglio stare alla larga, per mio padre, che da sottufficiale furiere aveva maturato una certa esperienza di uffici e che accettò, dunque una proposta per fare l’impiegato a Torino». Quindi la capitale laica d’Italia, la città di Gobetti e Gramsci, «il ginnasio e il liceo, ovviamente, al Massimo D’Azeglio, questa sorta di laicissimo seminario della classe dirigente della città: la scuola dove gli Agnelli inviavano, per tradizione, i rampolli della dinastia, il liceo dove nacque una certa Juventus, dove un gruppo di allievi decise di fondare una editrice, che fu quella di Giulio Einaudi». E in questa Torino una famiglia comunque, a modo suo, anticlericale. Anche se suo padre, tra le righe di un manoscritto dove raccontava la sua storia di soldato in una “guerra perduta”, raccontò comunque un episodio “aperto” al mistero: «Una sera – spiega Messori – a Bielefeld, nella Renania-Westfalia, durante la libera uscita, sedeva su una panchina, tormentato dalla fame e dal desiderio di tabacco. Era afflitto anche dalla nostalgia di casa, dove l’aspettava la giovane moglie e un piccolo di poco più di due anni, Vittorio, che aveva potuto vedere pochissime volte... Davanti alla panchina c’era una vecchia villetta con tutte le finestre sbarrate. D’improvviso, la porta si aprì e ne uscì una bella bambina, ovviamente bionda, che gli consegnò un pacchetto confezionato con carta elegante e un nastro dorato. Dentro vi era una fetta di torta e due sigarette. Una benedizione...». E, racconta ancora Messori, il giorno dopo ci fu un bombardamento e la villetta venne rasa al suolo. Dissero a suo padre che non c’erano stati morti perché da molto tempo l’edificio era disabitato. E quando replicò che da quella porta murata era uscita una bambina lo presero per pazzo. «Ma mio padre – conclude Messori – aveva conservato la carta e il nastro... E nel suo manoscritto parla di un “angelo” come l’ipotesi più ragionevole... Oso pensare – conclude oggi lo scrittore – che quella bambina bionda apparsa dalle tenebre nel crepuscolo terribile del Terzo Reich lo abbia accolto anni dopo con lo stesso sorriso al di là della porta del tempo».
Ecco, nonostante questo contesto familiare e culturale – come annota Tornielli – «mentre i suoi coetanei sfilavano, manifestavano, talvolta sparavano, Vittorio studiava a rifletteva sull’enigma del Gesù della storia, aspettando dice, “che come tutti i carnevali, finisse anche quello”». E in questo percorso mai il rischio di una sola tentazione moralistica. Più volte scriverà, invece, che dovere del credente laico è «vigilare, perché il clericalismo è la patologia che minaccia sempre il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo». Anzi, la morale, i temi – oggi tanto di moda – legati all’etica, sono quelli che lo hanno sempre interessato di meno, convinto, invece, che ciò che importa è la fede. Il suo sguardo – sempre realistico e ironico – è sempre stato, sin dalla conversione, quello di chi sa che l’uomo non ha bisogno di un discorso, di una ideologia, di una rassicurazione dottrinale, e neanche di una teroria o di una regola di vita, ma dell’imbattersi nella bellezza e nella pienezza della gioia, cioè percepire come viva e presente l’evidenza di un Incontro. Un incontro che, secondo Messori, si esplica nella logica dell’et-et, «la formula segreta del cristianesimo». Il cattolico – a differenza del protestante – non è costretto a scegliere qualcosa e a negare qualcos’altro, lui vuole possedere in un certo qual modo tutto, non deve scindere, laddove questo scegliere, assolutizzando un unico aspetto, rappresenta l’inizio dell’eresia. Il cattolicesimo, in fondo, non è un vero monoteismo e – proprio per questo – è immune dal virus del fondamentalismo, si adora un Dio sì unico ma che, nel contempo, è tre Persone eguali e distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo: «La Trinità – ammette Messori – è il supremo et-et... E non poteva essere diversamente nella prospettiva di chi, come il cristiano, vuole tutto: l’unità e la molteplicità, la semplicità e la complessità». Il cattolicesimo, aggiunge è la religione dell’ossimoro, capace di coniugare «l’intransigenza sui princìpi con il pragmatismo caritatevole davanti alla realtà concreta».
Da queste intuzioni il cammino di fede di Messori, destinato ad approfondirsi con l’incontro personale con don Giovanni Rossi – «puntava dritto su Cristo in un ambiente molto cattolico, fedele nell’ortodossia, eppure molto laico; nell’assenza della sciatteria, dell’odore di cibo stantio, dei fiori di carta e delle tovaglie di plastica» – e quello intellettuale con Blaise Pascal: «Sentii quest’uomo come un contemporaneo, avvertii che aveva le risposte giuste per chi stava a suo agio in una modernità che proprio allora andava verso il postmoderno».
Una passione, quella per Pascal, che Messori estende a tutta la cultura francese, sino a Jean Guitton, e che contrappone alla cultura americana: «Non mi ha mai contagiato – dice – il mito degli Stati Uniti per i quali, sia prima sia sopo l’adesione al cattolicesimo, ho sempre avvertito diffidenza, se non timore, per un Paese che crede di essere investito di da Dio stesso di un ruolo messianico, che pretende che tutti vivano e pensino come loro, che ha fatto guerre e finanziato colpi di Stato più di ogni altro e che pure si autodefinisce, ed è questo il pericolo, l’Impero del Bene. Un Paese che, se non accetti di vivere come lui e di inchinarti alla sua egemonia economica, politica, culturale, ti dichiara Stato canaglia e ti bombarda a tappeto».
E anche in questo, come sottolinea Tornielli, Messori sorprende e spiazza: «Non si trappa le vesti, non tuona contro i tempi... E con un atteggiamento positivo, disincantato, per nulla bigotto o clericale, non si fa proprio arruolare tra i moralisti e i teocon. Aborrisce l’uso strumentale della fede cristiana in funzione di battaglie politico-culturali o il riferimento alle radici cristiane ridotto a puro slogan da parte di coloro che non sono interessati alla vita reale di queste radici, ma a manifesti ideologici per giustificare scontri di civiltà o magari carriere politiche». Quello che gli interessa, semmai, è quel desiderio infinito di felicità e bellezza che albergava nei nostri antenati di duemila e oltre anni fa. In quel gruppuscolo di uomini, realisti e concreti, in carne e ossa, – non per nulla pescatori, artigiani, esattori delle tasse o ribelli – che non si sono inventati una nuova religione o una battaglia di civiltà ma si sono invece arresi a un’evidenza così vera e così reale da appassionare l’uomo ancora oggi.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
3 commenti:
Ciao Roberto,
Bello! Molto bello!
Mi permetto di aggiungere, come scriveva G.K. Chesterton, che il cristianiesimo "è centrifugo: esso erompe". Aggiungendo - sempre lo scrittore inglese - che la croce, che ha nel centro una collisione e una contraddizione, "può stendere le sue quattro braccia all'infinito senza alterare la sua forma"...
Per alcuni è un male. Per me ed altri un bene...
E per quel che posso mi sforzo onestamente di capire (e rispettare "esistenzialmente" ) le posizioni degli uni e degli altri.
Anche se, come non spiegare con la forza di quella croce, la croce del persuaso per dirla con uno che non faceva sconti al cristianeismo (Michelstaedter) il percorso di fede di Messori, nella laicissima Torino?
Ciao Roberto,
Carlo
Grazie per il commento molto interessante, Carlo.
A presto!
Caro Carlo, mi piace quest'immagine della croce che si estende all'infinito. Io mi sento pagano, però quelli che dici lo sento profondamente. La croce è un qualcosa che però va ben al di là del cristianesimo. Troppi anni fa lessi sia Michelstaedter che Guenon. E poi come negare che è proprio Platone a scrivere che "l'anima sta sul mondo a forma di croce".
Forse tra paganesimo e cristianesimo c'è più attinenza che opposizione, se escludiamo per il paganesimo romano, che reagì al cristianesimo in un modo che era legato forse più alla cultura e alla concezione dello stato che della religione.
Per questo ho sempre letto con passione e commozione Simone Weil, che critica l'Impero romano ma continua a vedere una sorta di continuità tra paganesimo e cristianesimo. La stessa cosa sembra intuirla un filosofo più discutibile (ma a suo modo affascinante) come Rudolf Steiner.
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