Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 2 novembre 2008
Parola magica, blues. Parola d’ordine per riconoscersi all’istante tra confratelli della più carnale delle religioni, o del più spirituale dei piaceri: adoratori del ritmo, il ritmo inarrestabile della vita che scorre; e iniziati ai misteri, dolci nella nostalgia, amari nella fatalità, dell’inafferrabile tempo che scappa. L’incanto per quello che l’esistenza ci dà. Il rimpianto per quello che l’esistenza ci toglie.
Blues: l’eccitazione di esserci, la malinconia di essere di passaggio. L’accettazione di come stanno le cose, il desiderio di farle stare a modo nostro. La saggezza come eventualità, non come programma. La saggezza, forse, in fondo alla strada, e da conquistare comunque a colpi di errori. Né ottimisti né pessimisti: autentici. Mezzo pieno o mezzo vuoto, il bicchiere è lì per noi. Per essere bevuto fino all’ultima goccia. E poi riempito daccapo, se appena è possibile.
Guardate B.B. King, oggi. Guardate come se ne sta ancora sul palco, imperterrito e instancabile. Deliziato dalla musica che lo attraversa e che rifluisce verso il pubblico. Avvolto nei suoi oltre ottant’anni come nel più caldo e confortevole dei mantelli. Vecchio e spelacchiato e ciccione. Fuori. Giovane e poderoso ed entusiasta. Dentro. Uno che se la fa con la chitarra da sempre. E che prima di averne una vera… «Prendevo un pezzo di fil di ferro – racconta nella sua bellissima autobiografia Blues All Around Me – e lo fissavo a un manico di scopa: poi, lo pizzicavo, tendendolo o allentandolo: il suono cambiava, e così ero convinto di stare suonando».
Settanta anni dopo, o qualcosa di più, conosciamo tutta la storia. Un’ottantina di album e più di quindicimila concerti. All’inizio solo nel suo Mississippi. Poi negli altri Stati del Sud. E via via più lontano, fino a girare tutto il mondo. Vecchia scuola: i musicisti suonano dal vivo tutte le volte che possono. Non è che vanno in tournée per promuovere l’ultimo disco. Interrompono i loro interminabili tour per il tempo (strettamente) necessario a inciderlo. Non accontentarti di ascoltarmi alla radio. Vieni a sentirmi dal vivo. Molto, molto meglio. Molto più divertente. Uno spasso, believe me.
Eccolo qui, B.B. King. A 83 anni suonati. Fresco reduce dall’apertura di un museo a suo nome, nella stessa cittadina di Indianola in cui, da ragazzino, andava a sbirciare ogni sabato sera dentro il Jones Night Spot. «Osservavo quanto avveniva dentro da una fessura in una delle sue pareti laterali: troppo giovane perché mi venisse consentito l’ingresso, premevo la testa contro le assi e occhieggiavo all’interno. C’erano sempre non meno di 300/400 persone pigiate là dentro, e la gente già ballava per la strada prima ancora di entrare nel locale, dove le coppie ballavano strette, ballavano in modo sexy, a un centimetro dal mio occhio e dal mio punto di osservazione, dal quale potevo scorgere la curva di un’anca o la punta di un capezzolo o annusare l’aroma del profumo che la gente si metteva addosso o del fumo di sigarette che aleggiava ne locale e sul palco dove – e questa era la cosa migliore di tutte – c’era Count Basie che suonava.»
Settant’anni dopo B.B. King trova ancora la voglia di provare un altro colpo. Una partita vera, non l’ennesima amichevole con una sfilza di ospiti di grande o di grandissimo nome. One Kind Favor nasce così. E non ha una singola nota fuori posto. Un album che rischiava di essere solo l’ennesima replica di cose già fatte e che invece, anche o soprattutto grazie alla produzione di T-Bone Burnett, si carica di una densità che è l’opposto della routine. T-Bone Burnett è un maestro, in questo: qualsiasi canzone tocchi, vedi l’ottimo Raising Sand di Robert Plant & Alison Krauss, riesce a imprimerle una seduzione speciale. Colori del passato. Abiti fuori moda. Ma niente a che vedere con la semplice citazione. O con la riverniciatura superficiale. Non è il vintage banalotto di tante altre operazioni, ispirate dalla voglia ingenua di svagarsi o dal desiderio cinico di arricchirsi. Sono tre quarti di fascino puro e un quarto di sottile inquietudine. Rievocazioni del passato talmente riuscite, talmente credibili, da farti venire il dubbio che non si tratti solo di una messinscena. Chi sono quelli che ci sfilano davanti? Attori fantastici? Oppure… fantasmi?! È solo una recita, o invece (mio Dio) è una seduta medianica?
One Kind Favor ha questa stessa magia. Non sembra affatto un disco appena inciso. Sembrano vecchie fotografie che tornano a vivere. Che si sovrappongono. Che si confondono. Basta un piccolo, piccolissimo spostamento e sprofondi nel passato, anche in quello più remoto. Ne basta un altro e torni al presente. B.B. King è al meglio. Governa la propria voce, e quella della sua chitarra (l’amatissima “Lucille” dalle molte reincarnazioni), con sicurezza assoluta. Con la sapienza dell’anziano e l’ardore di un giovane. È come se fosse diventato il padre di se stesso. Il padre – o addirittura il nonno, cioè un padre con ancora più esperienza e senza più antagonismo – di tutti i B.B. King che è stato, dal ragazzino che lavorava duro nei campi di cotone al musicista in crescita che ci teneva a vestirsi in modo impeccabile per andare in scena, fino alla superstar che è diventato dopo.
Blues: l’eccitazione di esserci, la malinconia di essere di passaggio. L’accettazione di come stanno le cose, il desiderio di farle stare a modo nostro. La saggezza come eventualità, non come programma. La saggezza, forse, in fondo alla strada, e da conquistare comunque a colpi di errori. Né ottimisti né pessimisti: autentici. Mezzo pieno o mezzo vuoto, il bicchiere è lì per noi. Per essere bevuto fino all’ultima goccia. E poi riempito daccapo, se appena è possibile.
Guardate B.B. King, oggi. Guardate come se ne sta ancora sul palco, imperterrito e instancabile. Deliziato dalla musica che lo attraversa e che rifluisce verso il pubblico. Avvolto nei suoi oltre ottant’anni come nel più caldo e confortevole dei mantelli. Vecchio e spelacchiato e ciccione. Fuori. Giovane e poderoso ed entusiasta. Dentro. Uno che se la fa con la chitarra da sempre. E che prima di averne una vera… «Prendevo un pezzo di fil di ferro – racconta nella sua bellissima autobiografia Blues All Around Me – e lo fissavo a un manico di scopa: poi, lo pizzicavo, tendendolo o allentandolo: il suono cambiava, e così ero convinto di stare suonando».
Settanta anni dopo, o qualcosa di più, conosciamo tutta la storia. Un’ottantina di album e più di quindicimila concerti. All’inizio solo nel suo Mississippi. Poi negli altri Stati del Sud. E via via più lontano, fino a girare tutto il mondo. Vecchia scuola: i musicisti suonano dal vivo tutte le volte che possono. Non è che vanno in tournée per promuovere l’ultimo disco. Interrompono i loro interminabili tour per il tempo (strettamente) necessario a inciderlo. Non accontentarti di ascoltarmi alla radio. Vieni a sentirmi dal vivo. Molto, molto meglio. Molto più divertente. Uno spasso, believe me.
Eccolo qui, B.B. King. A 83 anni suonati. Fresco reduce dall’apertura di un museo a suo nome, nella stessa cittadina di Indianola in cui, da ragazzino, andava a sbirciare ogni sabato sera dentro il Jones Night Spot. «Osservavo quanto avveniva dentro da una fessura in una delle sue pareti laterali: troppo giovane perché mi venisse consentito l’ingresso, premevo la testa contro le assi e occhieggiavo all’interno. C’erano sempre non meno di 300/400 persone pigiate là dentro, e la gente già ballava per la strada prima ancora di entrare nel locale, dove le coppie ballavano strette, ballavano in modo sexy, a un centimetro dal mio occhio e dal mio punto di osservazione, dal quale potevo scorgere la curva di un’anca o la punta di un capezzolo o annusare l’aroma del profumo che la gente si metteva addosso o del fumo di sigarette che aleggiava ne locale e sul palco dove – e questa era la cosa migliore di tutte – c’era Count Basie che suonava.»
Settant’anni dopo B.B. King trova ancora la voglia di provare un altro colpo. Una partita vera, non l’ennesima amichevole con una sfilza di ospiti di grande o di grandissimo nome. One Kind Favor nasce così. E non ha una singola nota fuori posto. Un album che rischiava di essere solo l’ennesima replica di cose già fatte e che invece, anche o soprattutto grazie alla produzione di T-Bone Burnett, si carica di una densità che è l’opposto della routine. T-Bone Burnett è un maestro, in questo: qualsiasi canzone tocchi, vedi l’ottimo Raising Sand di Robert Plant & Alison Krauss, riesce a imprimerle una seduzione speciale. Colori del passato. Abiti fuori moda. Ma niente a che vedere con la semplice citazione. O con la riverniciatura superficiale. Non è il vintage banalotto di tante altre operazioni, ispirate dalla voglia ingenua di svagarsi o dal desiderio cinico di arricchirsi. Sono tre quarti di fascino puro e un quarto di sottile inquietudine. Rievocazioni del passato talmente riuscite, talmente credibili, da farti venire il dubbio che non si tratti solo di una messinscena. Chi sono quelli che ci sfilano davanti? Attori fantastici? Oppure… fantasmi?! È solo una recita, o invece (mio Dio) è una seduta medianica?
One Kind Favor ha questa stessa magia. Non sembra affatto un disco appena inciso. Sembrano vecchie fotografie che tornano a vivere. Che si sovrappongono. Che si confondono. Basta un piccolo, piccolissimo spostamento e sprofondi nel passato, anche in quello più remoto. Ne basta un altro e torni al presente. B.B. King è al meglio. Governa la propria voce, e quella della sua chitarra (l’amatissima “Lucille” dalle molte reincarnazioni), con sicurezza assoluta. Con la sapienza dell’anziano e l’ardore di un giovane. È come se fosse diventato il padre di se stesso. Il padre – o addirittura il nonno, cioè un padre con ancora più esperienza e senza più antagonismo – di tutti i B.B. King che è stato, dal ragazzino che lavorava duro nei campi di cotone al musicista in crescita che ci teneva a vestirsi in modo impeccabile per andare in scena, fino alla superstar che è diventato dopo.
B.B. King a 83 anni. Un gran bel disco e una nuova tournée, cominciata il 29 ottobre all’Iowa State Center di Ames. Tante altre date già programmate, e annunciate, fino ai primi di gennaio. Oklahoma, Texas, Georgia. East Coast e West Coast. Il 29 novembre ad Atlantic City, il 3 dicembre a Los Angeles, il 31 dicembre a Fresno. Si torna a correre, ragazzi. Abbiamo mai smesso, capo? B.B. King se la godrà. Per come suonerà egli stesso, per come suoneranno i musicisti che lo accompagnano, per come reagirà il pubblico. E giocherà ancora una volta a fare l’imbonitore. Ma non lasciatevi ingannare. Ama troppo il blues per esserlo davvero. Vorrebbe riempire il locale, questo sì, ma solo perché spera che in tutti, nessuno escluso, ci sia abbastanza ricchezza di sentimento, e abbastanza libertà di giudizio, da farne dei degni ascoltatori. Dei degni partecipanti a questa festa, a questo banchetto di emozioni in cui il numero dei presenti è un requisito essenziale per la piena riuscita. Ricordate? Il Jones Night Spot di Indianola, e tutto il resto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
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