Saggio di Luciano Lanna
Quei libertari dalla parte (non) sbagliata
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 5 novembre 2008
Prima parte: Quelle radici libertarie del Novecento arcitaliano
Seconda parte: Tra fiumani, interventisti e goliardi
Terza parte: Quei sediziosi negli anni della fronda
Quarta parte: Oltre la morsa clericale e comunista
Negli anni Cinquanta, in un clima di doppia egemonia, democristiana e comunista, nella società italiana, il fascio-libertario e già frondista Leo Longanesi si getta tutto, negli ultimi suoi due anni di vita, nel lavoro alla sua casa editrice e al Borghese. E, paradossalmente, finisce per attorniarsi soprattutto di giovani ex repubblichini.
«Voleva – ha rievocato Piero Buscaroli – come fattorini portieri, garzoni, commessi, eccetera, solamente quelli che avevano fatto la guerra coi fascisti ed erano stati con la Repubblica Sociale. Lui non c’era stato, era stato nel Sud e se ne vergognava e non ne parlava mai, ma voleva intorno solamente repubblichini e si fidava soltanto di quelli». Lo ha raccontato anche l’ex repubblichino Mario Tedeschi: «Quando lo conobbi, nel 1950, stava uscendo il Borghese, io ero già stanco della mia prima esperienza politica e avevo scritto un libro Fascisti senza Mussolini, sulle organizzazioni clandestine fasciste dopo il ’45. Andai a Milano e glielo portai… mi aprii uno spiraglio al Borghese. A lavorare stabilmente con lui cominciai, però, nel 1953. L’anno dopo mi dette la direzione dell’ufficio romano, nel ’56 mi fece direttore responsabile…».
Del resto, è indubbia la vena scanzonata e libertaria che accompagnò la generazione dei cosiddetti “ragazzi di Salò”. Ha ricordato Vittorio Banfi, figlio del papà della televisione italiana, da ragazzo nella Milano repubblichina: «La Rsi fu un’istituzione molto strana, potrei dire “movimentista”. I tedeschi avevano sì il controllo della situazione, ma delegavano molto agli italiani». E in questo scenario, si erano determinate condizioni apparentemente paradossali: non c’era più, ad esempio, l’obbligo per i giovani di aderire alle organizzazioni giovanili: «Assolutamente no, era tutto – ammette Banfi – su base volontaria, non c’era un rigido inquadramento come nel ventennio, durante il quale la “cimice” del Pnf all’occhiello era praticamente obbligatoria per stare tranquilli. Nella Rsi solo chi voleva metteva all’occhiello il distintivo del partito, si ve deva poco il fascio. Molti portavano il distintivo col teschio e le tibie incrociate. La Rsi aveva del resto connotazioni persino socialisteggianti e anarchiche e non c’era obbligo di iscrizione al partito, almeno in certi ambiti». L’attore Giorgio Albertazzi, ad esempio, ha spiegato il suo arruolamento tra i ragazzi di Salò con «la spinta, gli umori e i sentimenti di una gioventù così ribelle e libertaria da scegliere la strada fortificante della Rsi». Un atteggiamento esistenziale confermato anche dalla confessione di Giano Accame, l’ultimo ragazzo ad arruolarsi a Salò, proprio il 25 aprile del ’45, a soli 17 anni: «Io che sono rimasto fascista nel cuore, non avevo comunque particolarmente amato la divisa di balilla e il falso piccolo fucile con il quale mi facevano sfilare, così come mal sopportavo i miei capi, mucchio di istitutori e di professori, di piccoli arrivisti congestionati dalla voluttà del gregario che, persino di sabato pomeriggio, quando la scuola era chiusa, pretendevano di urlarmi degli ordini».
Si tratta di sensazioni e umori diffusi tra i giovani e che avevano spinto molti di essi all’arruolamento a Salò come una scelta autenticamente libertaria. Sulla base di questa spinta esistenziale, anche l’attore Raimondo Vianello ha spiegato la sua adesione giovanile all’esercito della Rsi «per ribellione verso i Savoia dopo quello che era successo l’8 settembre, per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre, con un piede già nella macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a base voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”». Così, anche Albertazzi ha spiegato che la sua adesione giovanile alla Repubblica sociale fu vissuta e sentita come una scelta libertaria, anticlericale e anticonservatrice. Nato a Fiesole da una umile famiglia, non a caso immediatamente dopo essere stato ufficiale repubblichino, è l’uomo che nel ’45 ad Ancona fonda il primo “teatro anarchico italiano”. E non nasconde i due anni passati in prigione per la sua esperienza da “ragazzo di Salò”, trascorsi però leggendo Marx e i classici dell’anarchia, da Stirner a Malatesta. E per quanto riguarda la scelta di schierarsi politicamente oscillerà tra il sostegno alla battaglia radicale nel ’74 e una candidatura da indipendente con An nel ’96, sempre in uno stato irrisolto tra queste polarità. Un discorso analogo si pone per Piero Sebastiani, un ragazzo toscano di 17 anni, ribelle per natura, che sceglie di combattere l’ultima battaglia di Mussolini nelle squadre delle Brigate nere di Lucca, la sua città Natale. «Lui – ha ammesso Giampaolo Pansa – è un singolare esempio di centauro, nel senso che non ha mai rinnegato la sua vicenda umana, la scelta compiuta a diciassette anni, i camerati di allora, pur essendo divenuto un libertario quasi anarchico, un refrattario assoluto rispetto alle superbie dei tanti caporali delle varie ideologie». Insomma, nell’immediato dopoguerra anche questi ex ragazzi di Salò potevano essere collocati a pieno titolo dentro la generazione che, secondo Flaiano, «l’ha preso in culo. I preti da una parte, i comunisti dall’altra».
C’è infatti una cifra scanzonata che emerge rileggendo tutta la letteratura memorialistica. Una vena libertaria che arriva sino a Mario Castellacci, l’autore negli anni della Rsi di quella Canzone strafottente – «Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera…» – e negli anni ’60 principale autoreanimatore del Bagaglino, il cabaret romano che irrideva la Dc, i preti del dialogo, i comunisti alla moda, il benpensantismo piccolo-borghese… . Una vena che è evidente anche nei libri e nella vicenda di Carlo Mazzantini: il suo ultimo libro si è intitolato proprio L’ultimo repubblichino. Lo stesso Mazzantini che dovendo indicare lo “spirito” della sua generazione fa riferimento a un’altra canzone scritta da Castellacci, ma negli anni ’70 e per Gabriella Ferri, Sempre: «Questa è un’altra canzone repubblichina». Ed è lo stesso Mazzantini a ricordare come, subito dopo la guerra, «nonostante la pressione che veniva dal rigetto che il mondo esterno ci manifestava, quello che ci prospettavano i nostalgici, cui si erano attruppati vecchi marpioni del regime, conservatori e reazionari, non ci convinceva… ». La maggioranza di quei ragazzi che poco più che adolescenti erano stati volontari a Salò hanno continuato a sentirsi, anche dopo, «ribaldi e scavezzacollo ». Racconta, coinvolto, Mazzantini: «E che c’era di più congeniale, di più nostro, artistoidi vagabondi dilettanti sradicati, incazzati, improvvisatori geniali! Sparavamo pezzi infuocati sui giornaletti di allora, terze pagine su quei fogli dai nomi di battaglia La Rivolta Ideale, Asso di Bastoni, montavamo improvvise mostre d’arte, andavamo ad adorare i sacchi bruciati e i cretti di Alberto Burri che era tornato dal Fascist’s Criminal Camp del Texas insieme a Gaetano Tumiati, a Beppe Berto e a spernacchiare le mistificazioni di pretese avanguardie…». Lo stesso stato d’animo è stato raccontato anche da Piero Vivarelli, arruolatosi a 17 anni nella Decima Mas – anche «perché il principe Borghese gli ricordava John Wayne» – nel suo bel libro Più buio che a mezzanotte non viene (Edizioni dell’Oleandro). Il futuro paroliere delle prime canzoni di Celentano (Il tuo bacio è come un rock e 24mila baci), l’autore insieme a Lucio Dalla del Manifesto del beat italiano, il regista di film cult come Satanik o Il Dio serpente, andò a Salò perché da vero libertario si era imbevuto di letteratura statunitense: Dos Passos, Faulkner, Caldwell, Steinbeck. «E oltre alla letteratura yankee – annota – amavo visceralmente il jazz». E oltretutto era un dichiarato antirazzista: «Grazie all’amata musica jazz avevo capito, fin da piccolo, che il colore della pelle, la razza, e via discorrendo sono cose che non contano. Consideravo stronzate tutti i discorsi sulle razze...». Introducendo il libro Il passo dei repubblichini, lo storico Francesco Perfetti individua la cifra comune di tutta questa generazione con un parallelismo tra l’autore di quelle note, Enrico de Boccard, e uno scrittore con tutt’altra biografia alle spalle, Gian Carlo Fusco: «Più che per la somiglianza fisica e per una affinità di scrittura, il richiamo è, forse, dovuto al temperamento guasconesco dei due, al loro gusto per l’avventura, per il modo di vivere al di sopra delle righe e al di fuori delle regole, per un certo anarchismo esistenziale…». Enrico de Boccard, d’altronde, si è raccontato nel romanzo autobiografico sui giorni di Salò Donne e mitra, del 1950, un eccellente Dizionario della letteratura erotica, del ’77, e una edizione critica” del celebre testo goliardico Il processo di Sculacciabuchi, del 1971. E tale era il suo spirito libertario e scanzonato che, nell’immediato dopoguerra, fu protagonista insieme a Mario Tedeschi, a Luciano Lucci Chiarissi e altri di una iniziativa che fece discutere: l’irruzione in una cabina della Rai a Monte Mario a Roma e la messa in onda, nel corso del giornale radio delle 13, dell’inno Giovinezza…
È uno stato d’animo, più che una identità politica, ciò che in fondo accomunava questi ragazzi. Ha raccontato Giorgio Albertazzi: «Una volta sono andato a presentare un libro e sui muri di Ravenna c’era un manifesto di Rifondazione in cui si diceva: “Non andate a vedere Albertazzi, è fascista”. La piazza era però strapiena. Io sono sempre stato anticomunista, è l’unica vera matrice che mi riconosca. Anche se una militanza politica vera l’ho fatta infatti solo con i radicali nel ’74, nella battaglia per il divorzio». Ecco, l’unica battaglia in prima persona è stata per i diritti civili. E nel corso di una intervista rilasciata al bimestrale Ideazione nel gennaio del 2004, ammetteva: «Il mio sogno? Una destra progressista». Un’affermazione che spiega il percorso del libertarismo di tutta la sua generazione: «La vita è movimento, è eros. Tutto ciò che si standardizza, anche se altissimo, ti dà invece l’idea tombale, è come un’epigrafe, un epitaffio. Vallo a dire alla sinistra che si è impossessata dal dopoguerra in poi della parola progressismo etichettando e lasciando drammaticamente dietro di sé immobile la destra, costretta a svolgere, suo malgrado, la funzione conservatrice. Eppure bisogna togliere la destra dall’ufficio della conservazione e dei bilanci. Bisogna restituirle la sua vera tradizione, Marinetti, Gentile, Pirandello, il D’Annunzio di Fiume. La destra dovrebbe avere più immagini per il futuro. Deve riappropriarsi della propria storia e della propria vocazione. E torniamo alla famosa parola di cui si è impossessata la sinistra il futuro che è dinamismo, cambiamento. Conservazione è staticità e morte. Miller diceva di non essere stato abbastanza conservatore per essere comunista...». E riappare così un’altra idea della destra. Quella immaginata da Albertazzi. Futurista, laica e libertaria.
(5 - continua)
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
Figlio di un legionario fiumano, fascista perché conservatore e nazionalista sono sempre stato di destra perché ho sempre avuto in odio i partigiani e la cosiddetta resistenza. Ho visto(oggi ho 76 anni) che l'antifascismo invece di spiegare perché Mussolini avesse tenuto in pugno l'Italia per 20 anni, hanno continuato a infangare e ridicolizzare il regime pur avendone fatto parte con entusiasmo. Poi come d'incanto tutti son diventati acerrimi antifascisti. Mi sono accorto di far parte di un popolo di buffoni e avendo sempre votato ho sempre votato contro. Votare contro significa non dare corda a chi scimmiotta di essere un cittadino democratico. In Italia non esiste la democrazia ma il lassismo patologico. Leo Longanesi disse che nel campo bianco del tricolore si dovrebbe scrivere" Tengo Famiglia" orche l'italiano riconosce da sempre solo quel modo di sentire,non essendo mai superato il vecchio detto" O Franza o Spagna purché si magna "
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