mercoledì 15 ottobre 2008

La via italiana al libertarismo: seconda parte (di Luciano Lanna)

Saggio di Luciano Lanna
Seconda parte: Tra fiumani, interventisti e goliardi
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 15 ottobre 2008
Leggi qui la prima
Quando, ormai vent’anni fa, il giornalista e intellettuale di destra Giano Accame assumeva la direzione del nostro Secolo tentò nei suoi primi editoriali di favorire un processo di auto-consapevolezza d’ambiente con il fine di connettere il mondo politico cui faceva riferimento a un percorso certamente radicato nella storia del Novecento ma, nello stesso tempo, aperto ai travagli e alle esigenze di un mondo in profonda e velocissima trasformazione. E nell’ambito di questi testi – che sono poi una puntuale serie di messe a punto politi prefigurazioco- culturali – è illuminante e profetico quanto Accame scriveva nel fondo del 18 dicembre 1988 intitolato «Cosa sognava Marinetti». Collegandosi esplicitamente a una delle matrici autentiche e non estemporanee del nostro Novecento – il movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti – l’allora direttore del quotidiano missino riusciva anche a indicare un percorso evolutivo per il futuro possibile della destra italiana: «La realtà – scriveva – è che il fascismo non era fondamentalmente avverso alla libertà. Lo fu per una serie di sciagurati, dolorosi, forse difficilmente evitabili accidenti. Lo stesso inno Giovinezza – che nasceva da un filone goliardico e laico-risorgimentale – aveva come ritornello: «Nel fascismo / è la salvezza / della nostra libertà ». D’altronde, lo stesso Manifesto futurista del 1909 esaltava al punto 9 il «gesto distruttore dei libertari». E il successivo Manifesto del partito politico futurista propugnava «scuole laiche elementari obbligatorie con sanzioni penali», il «suffragio universale uguale e diretto a tutti i cittadini uomini e donne» e un «anticlericalismo intransigentissimo e integrale». Emerge già da questi tratti la presenza di un’anima libertaria – esplicità sul fronte della liberalizzazione dei costumi, dei diritti civili, della laicità d’impronta risorgimentale – che attraverso come un fiume carsico la cultura politica italiana del Novecento, dalla goliardia interventista all’avventura fiumana, sino allo stesso spirito diciannovista. La storica Claudia Salaris ha dedicato un saggio alla prefigurazio ne del libertarismo settantasettino nel movimento dannunziano d’inizio Novecento: Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (Il Mulino). Del resto non tutti ricordano che il fascismo delle origini, nel 1919 e nel 1922, proponeva senza mezzi termini addirittura l’abolizione dell’esercito tradizionale da sostituire con la creazione di una milizia popolare. La Salaris, studiando quelle esperienze, ha parlato del fiumanesimo come di un «terreno di coltura per la pratica di massa del ribellismo e per la trasgressione alla norma». Per non dire dell’esplicito libertarismo dei sindacalisti rivoluzionari, sia sul piano civile che su quello economico in cui ritenevano essenziale contrastare qualsiasi monopolio.
Si tratta di filoni, suggestioni che si manifesteranno in molti fenomeni dello stesso fascismo-regime. È stato Elio Vittorini nella sua Conversazione in Sicilia a ricordarci come fu il fascismo, già nel 1922, ad abolire il corpo delle guardie regie, uno speciale corpo di polizia per la repressione dei moti proletari creato dall’Italia liberale dopo la prima guerra mondiale. E sul fronte dei costumi e della libertà sessuale è stato lo scrittore e disegnatore Hugo Pratt a ricordare: «È stato il fascio che, grazie ai suoi movimenti giovanili, mi ha dato la possibilità di uscire dalla cerchia familiare. La promiscuità veniva incoraggiata... Il fascismo ha avuto il merito di liberare da determinati tabù i giovani della mia generazione, ci ha concesso una certa libertà... Il fascismo ci ha permesso di uscire dalle regole oppressive della Chiesa e della famiglia. Spiegava quindi Accame di fronte all’oggettiva esistenza di quelle pulsioni libertarie, esplicite del diciannovismo: «Seppure il fascismo arrivò a contraddire stolidamente queste aspirazioni, esse restano come testimonianza di una diversa prospettiva, di un diverso modo di sentire, che si è realizzato, in fondo, nel Msi, ove accanto alla passione nazionale si è sviluppato un amore fortissimo per la libertà». E al di là degli autori e degli argomenti citati nell’articolo e dei ragionamenti delineati, Accame indicava la possibilità, sino ad allora poco sottolineata, di un ruolo possibile per la destra italiana finalizzato sia a farla fuoriuscire dal ghetto della conventio ad excludendum postbellica che, nel contempo, a salvaguardarne il proprio radicamento storico-politico. Scriveva Accame nell’88: «Le ipotesi di un fascismo libertario furono meno solitarie e peregrine di quanto non si sarebbe portati sulle prime a immaginare». E in uno scritto più recente, del 2003, parlando delle teorizzazioni politiche del futurismo e del dannunzianesimo, lo stesso lo stesso Accame accennava a queste esperienze come di «una occasione mancata» e di una potenzialità che, comunque presente nell’immaginario della destra italiana al di là di qualsiasi concretizzazione storica, è «esemplare di ciò che avrebbe potuto essere il fascismo in versione libertaria».
Del resto, anche storicamente non furono pochi gli anarco-libertari che aderirono al fascismo: oltre a Berto Ricci è il caso di ricordare, almeno, Leandro Arpinati, Massimo Rocca, Edoardo Malusardi e Mario Gioda. In particolare, scrive Alessandro Luparini nel suo documentatissimo saggio Anarchici di Mussolini, «Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria, sì che nel fascismo essi portarono una precisa connotazione ideologica ». Si tratta dell’anarco-interventismo, un fenomeno sicuramente circoscritto ma comunque presente alle origini del fascismo sansepolcrista del ’19. Molti anarchici interventisti già nel ’14 erano infatti confluiti nei Fasci di combattimento fondati da Mussolini e alcuni di loro svolsero un ruolo non marginale – come nel caso di Arpinati – nella vicenda italiana tra le due guerre. La loro matrice culturale? Innanzitutto il garibaldinismo, secondo Luparini, che «costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua del sovversivismo italiano ». Quando il 23 marzo del 1919 Mussolini fondava a Milano i Fasci, la stragrande maggioranza dei giovani accorsi provenivano dall’interventismo e, soprattutto, dai reparti degli arditi. «Io – dirà, ad esempio di se stesso Italo Balbo – non ero in sostanza, nel 1919-1920 che uno dei tanti… Un figlio del secolo che ci aveva fatto tutti democratici anticlericali e repubblicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo…». E Giuseppe Bottai, anche lui interventista, volontario nella Grande Guerra e te libertanente degli arditi, ricorderà: «Numerosi erano, in quelle formazioni di volontari del rischio, gli uomini provenienti da partiti estremi o da estreme posizioni di pensiero: ex anarchici, socialisti, sindacalisti… Non v’erano, per certo, gli uomini del giusto mezzo, della guerra omeopatica, i moderati…».
Di “radici anarchiche” del fascismo parlerà esplicitamente Indro Montanelli che, non a caso, proverà sempre, fino alla fine dei suoi giorni, una grande simpatia per i libertari e per una tradizione politica contemporaneamente alternativa ai comunisti e ai clericali. Accame sottolineava poi il rapporto storico tra Leandro Arpinati e Berto Ricci e quello, non solo nei giorni dell’avventura fiumana, intercorso tra Gabriele d’Annunzio e l’anarchico Errico Malatesta, come il ruolo svolto nell’elaborazione teorica del fascismo da parte di Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo: «Fra i due aspetti della personalità di Marinetti, quello anarchicheggiante e quello fascista, non vi fu una sostanziale contraddizione, perché è proprio in una chiave trasgres siva e libertaria che egli intendeva il suo fascismo. E in questa chiave di interpretazione egli non fu nemmeno stravagante e solo, giacché erano di ascendenza anarcoidi altre personalità eminenti del fascismo-movimento a disagio con il fascismo-regime». In fondo l’inno Giovinezza aveva addirittura come ritornello: «Nel fascismo / è la salvezza / della nostra libertà». E molti, come il fondatore del futurismo, ci credevano: «Filippo »Tommaso Marinetti – scriveva ancora Accame sul Secolo – sognò sempre un fascismo sostanzialmente libertario, socialmente molto aperto, repubblicano, impegnato nello svaticanamento dell’Italia».
Non va inoltre dimenticato che la spinta generazionale che diede a Mussolini il valore aggiunto per la fondazione dei Fasci proveniva dall’arditismo. Quando infatti, la mattina del 19 gennaio 1919 Ferruccio Vecchi, ex capitano dei battaglioni d’assalto, aveva fondato l’associazione Arditi d’Italia lo aveva fatto con il plauso di Gabriele d’Annunzio e la benedizione di F.T. Marinetti. E solo un mese dopo la prima manifestazione milanese, alla fine di febbraio l’associazione aveva già nuclei e sezioni in tutti i principali capoluoghi di provincia. L’anarchico individualista, ma interventista, Mario Gioda arringava quasi giornalmente gli arditi di Torino. Giuseppe Bottai, al lora giovane direttore del giornale Roma futurista, riuscì in poco tempo a chiamare a raccolta oltre duemila arditi romani, consapevole che si trattava di una fenomeno generazionale e, in particolare, della rivolta generazionale dei giovani intellettuali e degli studenti dell’epoca. «Chi ha dimenticato, o vuol dimenticare – scriverà anni dopo – che a portare in trincea, con quell’animo e quella volontà, i combattenti del ’15 concorsero proprio le riviste e i giornali, i libri e i quaderni letterari conservati poi gelosamente nello zaino?».
Lo scrittore Gian Carlo Fusco ha cercato, nel secondo dopoguerra, di descrivere letterariamente lo spirito di tutto quel fenomeno – ricorrendo per questi giovani alla metafora anglosassone dei playboy – e riferiva che la sera del 23 marzo, dopo l’adunata di piazza San Sepolcro, parlando col fratello Arnaldo, Mussolini sarebbe arrivato a definirli “vitelloni”. «Il famoso film di Federico Fellini – annotava Fusco – mi risparmia la fatica d’illustrare cosa intendano i romagnoli per “vitellone”. Una espressione che, a pensarci bene, corrisponde, quasi esattamente, anche se in chiave meno raffinata e mondana, all’inglese playboy. Giovanotto amante del piacere e della bella vita, immemore dei debiti, seduttore per hobby, disponibile alle avventure rischiose…». E sarà soprattutto Roma, nel ventennio che va dagli anni Venti ai primi Quaranta, la capitale di questa “generazione di vitelloni”.
2 - continua
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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