giovedì 9 ottobre 2008

La vita italiana al libertarismo: prima parte (di Luciano Lanna)

La via italiana al libertarismo
Una ricostruzione a puntate degli intrecci di quest'anima della nostra cultura politica, da Berto Ricci a Indro Montanelli...
Quelle radici libertarie del novecento arcitaliano
Saggio di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 8 ottobre 2008
Le identità politico-culturali non nascono mai dal nulla. E nessuno può ipotizzare una sorta di liquidazionismo del passato che, come una palingenesi antistorica, possa ridefinire nuove categorie archiviando tutto il Novecento dentro una parentesi chiusa. Il presente affonda infatti le sue radici nel passato e solo il ripercorrerne i sentieri, anche quelli interrotti, intrecciati e mai giunti a piena espressione, può aiutare a un serio orientamento nella stessa contemporaneità. È una considerazione che vale, come suggerivamo recensendo l’ultimo libro di Massimo Teodori (nella foto) – Storia dei laici – dedicato alla ricostruzione di una tradizione politica italiana contemporaneamente alternativa sia al clericalismo che al marxismo. Ecco, per vederla riaffiorare – attraverso la delineazione di una possibile destra laica e libertaria – non resta che rileggere alcuni filoni del nostro Novecento e metterli in corto circuito con alcune questioni irrisolte del presente.
«Eravamo molto fascisti», ha annotato il giornalista toscano Paolo Cesarini rievocando in un bellissimo libro scritto in prima persona – Italiani cacciate il tiranno, ovvero Maccari e dintorni – l’epopea della sua generazione: quella degli “strapaesani”. È vero, sul finire degli anni Venti del Novecento, erano proprio tanti i ventenni – ma anche gli adolescenti – che si riconoscevano nelle pagine del Selvaggio, la rivista diretta da Mino Maccari, che dal 1924 al ’42 diede anima e forma al movimento di Strapaese. Quel foglio, Il Selvaggio, era nato a Colle Val d’Elsa, nella campagna senese, il 13 luglio 1924, un mese dopo l’uccisione di Matteotti: proprio mentre in molti stracciavano la tessera del partito di Mussolini, questi giovanissimi tornavano all’attacco e reclamavano la loro “rivoluzione generazionale”. Dalla campagna toscana, dove veniva creato quel fogliaccio (la testata che era contrassegnata da due motti: «marciare, non marcire» e «né speranza, né paura») si rilanciavano le parole d’ordine diciannoviste, quelle dei fasci “libertari” della fondazione milanese a piazza San Sepolcro. «Eravamo – ha appunto spiegato Cesarini per dare il senso di quella temperie – molto fascisti. Romano Bilenchi aveva addirittura la tessera, invidiatissima, del 1922, di quando aveva appena tredici anni, io credo del '26 o ’27. Ci consideravamo anzi esemplarmente fascisti soprattutto perché, secondo noi, le gerarchie tradivano la rivoluzione…». Dei futuri sodali di questa pattuglia generazionale di scanzonati ribelli, l’unico, allora davvero troppo piccolo, che non riuscì a far proprio fino in fondo questo clima fu forse solo il pescarese Ennio Flaiano. E comunque nell’Antipatico 1960, l’almanacco che pubblicava l’editore Vallecchi, il futuro sceneggiatore del film La dolce vita pubblicherà una sua poesia per rievocare le passioni d’inizio secolo del suo amico Maccari e della sua generazione: «Mino, ricordi la Marcia su Roma? / Io avevo dodici anni, tu ventuno. / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino, ricordi? Alle porte diRoma / ci salutammo. / Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m’ero tolto entusiasta il berretto / ricordi? Tu eri perfetto / nella divisa di bel capitano. / Io salutavo agitando il berretto. / Tu andavi a Roma, io andavo a Milano».
Ebbene, a sorpresa questa generazione aveva eletto come propria icona letteraria di riferimento non un eroe della Grande Guerra ma un libertario: Franz Biberkopf, l’anarchico ribelle protagonista del romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, pubblicato in Italia nel febbraio del ’31. «Ci piacque moltissimo – ha ricordato Cesarini – ma di più ci incantò il suo eroe Franz Biberkopf». Costui è un anarchico, omicida, ladro e mantenuto, che combatte la sua drammatica vita nella Berlino dell’immediato primo dopoguerra, tutta popolata di personaggi alla Grosz. Tra gli episodi che incantarono quei ragazzi ce n’era uno che li esaltava: è quello in cui Biberkopf perde un braccio per una sciagurata impresa ladresca ed è costretto, per vivere, a chiedere l’elemosina. Ma lo fa da par suo: mettendosi, cioè, il distintivo di mutilato di guerra. «Questo – si legge in Italiani cacciate il tiranno – ci mandava in visibilio. A tutti i complessi di vittimismo che toccano ai giovani, i tempi singolari aggiungevano che noi ci sentissimo schiacciati come pidocchi da folle di benemeriti reduci: di guerra, di Fiume, di squadrismo, di Marcia su Roma, e poi sansepolcristi, antemarcia, sciarpe littorio, volontari, mutilati, decorati, anche padri di famiglie numerose. Legioni e legioni di italiani, per la grandissima maggioranza nel pieno della virilità, che ci chiudevano completamente l’orizzonte…». Era questo lo stato d’animo che animava la più colta e motivata giovane generazione italiana tra la fine degli anni Venti e i Trenta. E a riflettere bene sul senso di questa contestazione silenziosa, «si scopre – confessa Cesarini – che dell’Italia unita fummo la prima generazione che cominciasse a sentire una certa pienezza per quel vivere melodrammatico, sospettando che dovesse esserci un modo di vivere più serio, con meno squilli di cornette, meno eroismi, meno martiri sempre presenti…». Ed ecco perché, «l’anarchico Biberkopf, che issava sulla prova della sua furfanteria l’attestato di una grande benemerenza combattentistica, faceva la nostra amara vendetta». Una simbolica contestazione sul piano dell’immaginario, una dissacrazione creativa. E, allo stesso tempo, un’epifania di quello che quei ragazzi “molto fascisti” consideravano il loro massimo ideale di riferimento: la libertà. Quel romanzo, infatti, si concludeva con una specie di canto libertario: «Andiamo verso la libertà, avanti verso la libertà, il vecchio mondo deve crollare, destatevi all’aria fresca dell’aurora». E spinti da questa passione quei ragazzi si entusiasmavano anche per L’Armata a cavallo di Babel e per L’amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence. «Eppure – confessa ancora Cesarini – quel duce, che come proclamavano le cronache di palazzo faceva all’amore in piedi, infilzando le visitatrici contro la scrivania, seguitava a piacerci. Più di Biberkopf, più di Babel, più di Lawrence…». Era un stato d’animo che, soprattutto, metteva in primo piano la dimensione squadristica del movimento mussoliniano, il suo aspetto goliardico e di rivolta generazionale. «Lo squadrismo – scriveva Maccari sul primo numero del Selvaggio, il 13 luglio 1924 – è, tra i vari aspetti del movimento fascista, non soltanto il più simpatico, ma quello più importante e più vivo». In esso gli strapaesani vedevano la rivolta contro la «lunga tradizione panciafichista, borghese e pantofolaia» dell’Italia ottocentesca. Una vocazione che animava, a loro dire, «la storia del rammollimento italiano, insegnato persino nelle scuole a mezzo di quel famigerato Cuore di Edmondo De Amicis e nelle caserme a mezzo dei cosiddetti Bozzetti militari dello stesso autore». Contro tutto ciò, questi giovani intellettuali rivendicano la forza simbolica di un’icona letteraria come Biberkopfk e di un’icona storica come Garibaldi. Nella “parentesi garibaldina” Maccari vede l’unico momento positivo cui la sua generazione deve ricollegarsi. E Romano Bilenchi nel 1931 darà vita alla figura di un garibaldino strapaesano – autentico fasciolibertario – e squadrista ante litteram, pubblicando sul Selvaggio a puntate “La vita di Pisto”, un garibaldino di Colle Val d’Elsa la cui giovanile militanza tra i combattenti in camicia rossa lo indurrà, alla fine della sua vita, a indossare la camicia nera delle squadre fasciste. «Chi è – sottolinea Paolo Buchignani – il Pisto di Bilenchi (personaggio realmente esistito, fratello del nonno materno dell’autore) se non un valoroso combattente garibaldino di Colle Val d’Elsa, che alla fine aderisce al fascismo, individuando in esso, e in particolare nello squadrismo ribelle, libertario, antiborghese, anticlericale, antimonarchico una versione aggiornata del garibaldinismo della sua giovinezza? Chi è Pisto se non uno squadrista avanti lettera, castigatore violento e beffardo di “borghesi”, “signori”, “codini”, “bacchettoni”, “preti”?». La biografia di questo libertario arcitaliano che, come scriveva Bilenchi, «non andava troppo d’accordo coi codici e coi regolamenti», verrà pubblicata anche in uno specifico volumetto, alla vigilia del cinquantesimo anniversario della morte di Garibaldi e del decennale della marcia su Roma. «Evidente – annota ancora Buchignani nel suo La rivoluzione in camicia nera – l’intenzione dello scrittore senese e dei suoi sodali (i maestri, ex combattenti e squadristi, Mino Maccari e Ottone Rosai, l’amico Berto Ricci, gli esponenti del fascismo rivoluzionario toscano raccolti attorno al Selvaggio, all’Universale, al Bargello) di cogliere questa duplice ricorrenza per sottolineare l’anima rivoluzionaria (che significa squadristico-garibaldina) del fascismo». Scriveva non a caso Berto Ricci: «I rimasuglioli di un’Italia nata in falde e cilindro alla quale tutti i distintivi del mondo non daranno mai un’anima nuova e tanto meno un’anima fascista farebbero bene a non commemorare Giuseppe Garibaldi… Oggi come cinquanta, come cento anni fa egli appartiene al popolo e ai giovani».
Ecco, verso la fine degli anni Venti, Firenze diventa la piazza ideale per tutti questi fermenti libertari. Qui lo squadrismo è stato più vivace che altrove, qui fioriscono le riviste letterarie e studentesche. Qui il grosso dei giovani intellettuali si incontra al caffé Giubbe Rosse, mentre gli strapaesani di Mino Maccari e gli amici di Berto Ricci si danno convegno al Pazkowski. Qui anche Indro Montanelli aderisce a questo fascismo attraverso il Guf, l’organizzazione degli universitari fascisti: «Sono stato fascista dal momento in cui ho potuto essere qualcosa», racconterà in un articolo-saggio che apparirà nel 1955 sul settimanale il Borghese del suo amico Leo Longanesi. Durante un soggiorno estivo a Rieti, dove lavorava suo padre, Indro conobbe Diano Brocchi – sindacalista fascista e nel dopoguerra dirigente del Msi – che lo affascinò e contagiò politicamente. E tramite Brocchi entrò in confidenza con Berto Ricci, Romano Bilenchi, Mino Maccari, Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Ottone Rosai e Leo Longanesi. Ma il vero maestro fu – a suo dire – soprattutto Berto Ricci: «Se oggi – scrive lo storico Sandro Gerbi – il suo nome è abbastanza conosciuto, anche al di fuori della cerchia degli specialisti, lo si deve soprattutto a Montanelli. Il quale più volte, nell’arco di settant’anni, ne scrisse con ammirazione e rimpianto».
Ricci, che – come ricordava Montanelli – voleva trasformare il fascismo «dalla mezza burletta qual era stata sino ad allora» in «una rivoluzione autentica»,
aveva un mai rinnegato passato da anarchico. Si era avvicinato al fascismo attraverso le posizioni “ribelli” dello Strapaese di Maccari per poi fondare nel ’31 a Firenze con alcuni amici il mensile – poi quindicinale – L’Universale. Il programma del foglio, che uscirà fino all’estate del ’35, è stato così descritto in seguito dal suo collaboratore Montanelli: «Era un giornale frondista, che predicava il ritorno alla “prima ondata” e la necessità della “terza ondata”. Attaccava tutte le autorità costituite, accusandole di eterodossia borghese e di antirivoluzionarismo».
1 - continua
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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