Quei sediziosi negli anni della fronda
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 22 ottobre 2008
Seconda parte: Tra fiumani, interventisti e goliardi
Prima parte: Quelle radici libertarie del Novecento arcitaliano
Sarà Roma, nel ventennio che va dagli anni Venti ai primi Quaranta, la capitale della “generazione dei vitelloni” di cui scriverà Gian Carlo Fusco. Vale per tutte la testimonianza esistenziale di Filippo Anfuso, giornalista catanese arrivato entusiasta nella capitale, reduce dalla presa di Fiume insieme a d’Annunzio e frequentatore abituale di artisti, creativi e intellettuali. Sono gli anni in cui, a Roma, il ritrovo del caffé Aragno è una tappa obbligata per la giovane generazione intellettuale: «Mi ero fermato in un caffé che si chiamava Cassiano. Qui si riuniva un gruppo di artisti che discuteva troppo dell’immortalità per esservi preparata. Risalendo il corso Umberto trovai un altro caffé, Aragno, il più grande, il quale costituiva una congregazione più vasta alla quale appartenevano svariati tipi di persone: il loro dilettantismo aggressivo mi fece supporre che avrebbero avuto maggiori probabilità dei frequentatori del Cassiano di risalire il corso della fama. Qui mi fermai».
Nella terza saletta di quel ritrovo giovanile e intellettuale, in via del Corso, si ritrovavano così giornalisti, pittori, scrittori, autori di teatro e di cinema. E qui, a un tavolo a parte, erano di casa, insieme ad Anfuso, Curzio Malaparte, Leo Longanesi e Orio Vergani. Tutti quasi sempre senza un soldo in tasca, vita irregolare. Tra l’altro, il gruppo del quale faceva parte il futuro ambasciatore della Repubblica di Salò a Berlino era oltretutto famoso per l’irriverenza e la carica goliardica con cui fischiava le commedie “passatiste” al teatro Valle, al Quirino o all’Argentina o per come, dall’appartamento di Anfuso in via Quattro Fontane, si divertivano a bersagliare i passanti con bucce di cocomero. Negli anni Trenta, comunque, davanti al caffè Aragno di Roma a tenere banco, era soprattutto il loquace e irriverente Leo Longanesi.
Tutto era iniziato qualche anno prima con una lettera inviata da Leo, giovane romagnolo di Bagnocavallo, allo strapaesano e arcilibertario Mino Maccari. Ai primissimi tempi del Selvaggio Leo scrive infatti a Mino e gli propone la sua collaborazione al foglio di Colle Val d’Elsa, avvertendolo a scanso di equivoci che si è posto un solo scopo nella via: fare tanti quattrini. E Maccari ci mette poco a convincersi che in un’epoca di retorica trononesca all’ordine del giorno e di facili ardori retorici quel ragazzo disincantato doveva essere davvero fuori del comune. I due si incontrarono e si avviò l’intreccio politico-culturale tra il foglio ribelle di Colle Val d’Elsa e L’Italiano, una rivista messa su da Longanesi dopo la sua adesione convinta ai postulati di Strapaese.
Ne nacque un sodalizio che durò fino alla fine della guerra e si interruppe solo per ragioni geografiche, perché la fine delle ostilità trovò il senese in Versilia e il romagnolo a Napoli. E subito dopo le posizioni si invertirono ancora: Longanesi a Milano per partecipare da editore e direttore del Borghese al decollo dell’Italia postfascista, Maccari di nuovo a Roma nella sua cattedra all’Accademia e come collaboratore del Mondo.
Una cosa è certa: di tutta questa generazione di giovani intellettuali, Longanesi era indubbiamente il fratello maggiore, l’anima, il simbolo e il portabandiera. «Non ricordo – ha rievocato Stefano Vanzina, il regista nel dopoguerra noto come Steno – quando lo conobbi, ma so che mi parve di averlo sempre conosciuto. Simpatizzammo subito. Allora noi dei giornali umoristici eravamo snobbati dalla cultura ufficiale. Leo Longanesi, invece, si dimostrò subito amico e interessato al nostro Marc’Aurelio, al gruppo di Metz, Giovanni Mosca e Marcello Marchesi, e questo mi piacque. Lui che dava del lei a tutti a me diede subito del tu. Fu allora che diventai amico di Longanesi: cominciai ad andare a casa sua e a vederlo tutti i tutti i giorni. Fu Leo che mi introduse nel mondo del cinema…».
È una generazione intellettuale, quella degli anni Trenta, che si sentiva in fondo unificata da un certo spirito libertario che in qualche modo scavalcava le stesse differenze tra fascisti che propugnavano una “seconda ondata” rivoluzionaria copntro il conservatorismo dei gerarchi, giovani intellettuali che facevano la cosiddetta “fronda” – un’opposizione al regime più esistenziale che politica – e potenziali antifascisti. È lo stato d’animo attestato, ad esempio, da libro collettaneo Processo alla borghesia, curato da Edgardo Sulis. Qui, tra gli altri, Berto Ricci sollecitava una «scuola aperta a tutti in ogni suo ordine e grado». Una richiesta coerente con la sua matrice libertaria e socialmente avanzata: «Finché il professionista – scriveva – sarà il figlio del professionista, lo spirito borghese cacciato dalle piazze avrà rifugio nelle case, l’azione politica dovrà spendere metà del suo lavoro a disfare i domestici pregiudizi, la famiglia sarà defilata al tiro fascista...». E qualche pagina avanti Alberto Luchini confermava l’adesione di tutto il gruppo – con loro anche Icilio Petrone, Roberto Pavese, Diano Brocchi, Gianni Calza, Omero Valle e Gino Barbero – a un pensiero politico-culturale che aveva un suo indiscutibile percorso: «Inizialmente squadrismo 1919-20-21-22, fiumanesimo dannunziano 1919-20, arditismo 1917-18, interventismo mussoliniano e corridoniano 1914-15: in quanto, e quindi, collegato senza iati, né psicologici né cronologici, coll’africanismo garibaldino delle prime ondate oltremare e il volontariato insurrezionale risorgimentale...».
Era uno stato d’animo teso al rinnovamento che, in fondo, era condiviso anche da coloro che non erano troppo allineati con il fascismo. Così, ad esempio, c’erano tra i tanti intellettuali che discutevano nei caffé di Roma anche il modenese Antonio Delfini e il lucchese Mario Pannunzio, giovani aspiranti scrittori. Loro non erano fascisti ma, come ammetterà col senno di poi Delfini anni dopo, «non erano antifascisti. Anzi sfoggiavano all’occhiello un magnifico, lustro, distintivo Pnf». E anche questi – che collaboravano alla rivista Il Saggiatore – strinsero tra di loro un forte patto generazionale e li ritroveremo accanto a Pannunzio durante tutto l’arco della sua esistenza e dei suoi tentativi di trovare una casa a questi fermenti libertari. Nel 1933 lo scrittore e giornalista lucchese dà ad esempio vita a Oggi, un settimanale che voleva essere un giornale attento alla nuova generazione. Pannunzio ha chiara in testa l’idea, scrive Cesare De Michelis, che se l’opinione pubblica «non “consuma” idee nuove, diventa pericoloso soggetto di una società mostruosamente massificata, “folla” ottusa e angosciosa, disponibile a qualsiasi perversa manipolazione».
Poi Pannunzio lascia temporaneamente il giornalismo e si appassiona al cinema. Quando, nel novembre 1935, Luigi Chiarini dà vita al Centro sperimentale di cinematografia Pannunzio si iscrive ai corsi convinto di aver trovato la sua strada. E quando Leo Longanesi lo richiama al giornalismo reclutandolo tra i redattori di Omnibus inevitabilmente a Pannunzio viene assegnato il ruolo di cronista e critico cinematografico. Per uno strano gioco degli intrecci non fu forse un caso che a condurlo da Longanesi fu Primo Zeglio, suo compagno di studi al Centro e da anni collaboratore di Mino Maccari al Selvaggio. Il primo numero di Omnibus, il primo settimanale italiano nella logica del rotocalco che arrivò in edicola il 28 marzo 1937, andò a ruba arrivando a vendere più di quarantamila copie. Pannunzio svolgeva le funzioni di caporedattore insieme all’amico lucchese Arrigo Benedetti. Erano i giovani che “creavano” la via italiana al giornalismo pensando di realizzare in questo modo la propria rivoluzione generazionale. In qualche modo, spiega ancora Cesare De Michelis, «si trattava di tornare ai tempi della Voce prezzoliniana… Con Longanesi si impara a fare la “fronda”, a svelare l’inganno e l’imbroglio, senza tuttavia schierarsi all’opposizione, si impara a dire male di Garibaldi senza prendersela col Risorgimento, si impara a ragionare con la propria testa».
Leonardo Sciascia definirà nel suo complesso questa generazione di intellettuali come gli «scrittori trentenni che guardavano altrove per guardare meglio dentro». Ecco, al di là delle particolari contingenze storicopolitiche, questi giovani intellettuali sono stati sicuramente lo specchio di una sensibilità che potremmo definire la “via italiana al libertarismo”, uno stato d’animo che, al di là della loro specifica collocazione – tra fascismo e postfascismo – non può non accomunarli in un sentimento individualista e anarcoide. «Longanesi – disse di lui Mario Monti, che fu suo editore nel dopoguerra – era un piccolo borghese anarchico e, come tutti gli anarchici, veniva anche lui dalla borghesia. Era anarchico per eredità familiare, materna, per il nonno, il Papa, Mazzini… Era un anarchico puro».
Molto di questo stato particolare d’animo lo ritroveremo, andando avanti negli anni, soprattutto negli scritti e nello stile dello scrittore Ennio Flaiano. Anche quest’intellettuale, nato a Pescara e cresciuto a Roma, dopo la guerra d’Etiopia torna nella capitale e va ad abitare nel centro della città, a via dei Greci, nel quartiere dove gravitano gli artisti, tra il Caffé Greco e la Trattoria Il Gambero, e lì conosce Mino Maccari, Vincenzo Cardarelli, Orfeo Tamburi, Mario Pannunzio e, soprattutto, come più volte ricorderà, Leo Longanesi. Li chiamavano gli “intellettuali da caffè”: «Questa accusa mi è stata rivolta spesso – ricorderà lo stesso Flaiano – senza turbarmi troppo… le più belle serate le ho trascorse per anni nei caffè con persone la cui amicizia era già un giudizio: Cardarelli, Barilli e Longanesi. Mi è rimasto il debole di preferire il caffè al salotto, al club, all’anticamera…». C’era poi chi si spingeva anche oltre. In quegli anni ’40 a Roma in via Frattina 99 c’era infatti anche la sede del quindicinale Domani che verrà pubblicato dall’aprile all’agosto del ’41. Dirigeva il giornale Francesco Pasinetti che faceva il critico cinematografico, Vasco Pratolini era il redattore capo. Tra i collaboratori Giansiro Ferrata, Tommaso Landolfi e, nome già citato, Antonio Delfini. Federico Fellini disegnava le vignette satiriche. Racconterà uno di loro, Felice Chilanti: «Era venuto fuori un incredibile giornale di “fascisti dissidenti”». Non a caso uno dei frequentatori di quella casa era il poeta americano Ezra Pound che ne parla anche nel suo Cantos LXXVII. «Pound – ha rievocato Chilanti nel bel libretto Ezra Pound fra i sediziosi degli anni Quaranta pubblicato nel 1972 da Scheiwiller – non veniva per incontrare i letterati che avevano scritto nel Domani. Non gli interessavano. Veniva a cercare proprio noi, i “politici”, i fascisti dissidenti »… Pound ci ascoltava attento, amichevolmente… Ascoltava e condivideva il nostro disprezzo per i gerarchi e la loro stupidità e fellonia. Si trovava a suo agio, con fascisti “in crisi permanente” puri, delusi, indignati, ribelli». Una cosa è certa: «Eravamo – conclude Chilanti – fascisti anarchici, cantavamo “addio Lugano bella” e con Pound fra noi, per Pound». (3 - continua)
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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