Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 19 ottobre 2008
Uno con quella faccia lì non può non essere che un genio. No non parliamo di Eugenio Scalfari il padre di Repubblica, ma di Woody Allen che ultimamente proprio dal giornale scalfariano ora di Ezio Mauro, a causa del suo ultimo libro scritto a quattro mani con Eric Lax (Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani 2008, 21.50 euro), è stato un po’ maltrattato (Sigmund Ginzberg, Woody Allen. Un monumento un po’ troppo ingombrante, 30 settembre 2008). Un volume che precede di pochi giorni l’uscita dell’ultimo film del regista di Prendi i soldi e scappa (1969): Vicky Cristina Barcelona protagoniste le due super-belle Penelope Cruz e Scarlett Johansson. Un film metà dramma e metà commedia sexy di ambientazione latina. C’era una volta un intellettuale così intelligente da apparire anche bello, un intellettuale (regista e scrittore) che era l’orgoglio della sinistra chic. Uno che (per dire...) anche quando alzava la tavoletta del gabinetto non poteva non essere di sinistra, perché…. perché era ironico e un po’ fifone, nevrotico, relativista e dissacratore. E aveva due occhi consumati dal dubbio anche in quell’esatto momento.
Uno così non poteva essere di destra mai e poi mai, la destra palestrata (dal naso in giù) e delle certezze assolute, quella del superuomo scotch e nicotina, sesso, mazzate e giubbotto nero. La destra trucida insomma che al più poteva accontentarsi di amoreggiare con Tomas Milian (col poliziotto o col ladruncolo), maestro di simpatia ma diciamolo pure non un principe di Galles per modi e pensiero.
Questa era la destra che “piaceva” alla sinistra a cui a sua volta piaceva Woody Allen col suo umorismo yiddish e le battute al veleno (alle quali il laureato della new left rideva con un fuori-sincrono di 10-15 sec. giusto il tempo per mettere assieme i pezzi del discorso), mica con le parolacce tipiche dell’ispettore Nico o le barzellette di Silvio Berlusconi sciocche e volgari perfino per i telegenici del Grande Fratello.
Adesso però Woody (almeno lui) sta diventando serio. Alla sinistra che sul sedile della trasgressione ci ha messo (oltre il cappello), un grattacielo di spocchia e superbia, il newyorkese dallo sguardo cauto e triste comincia a piacere di meno. Udite udite: quel tipetto anarchico che sta (forse) traversando la sua quarta – ultima – stagione non appaga più il pubblico con occhiali, barbetta e jeans strappato. È pessimista, anzi no è troppo tecnico; si è eclissato dietro un origami di pensieri molesti, non è più il ribaldo di molte primavere fa. Il Woody Allen amico-di-una-vita, dopo quattro decenni di onorata carriera mostra qualche rughina di troppo. E si prepara alla pensione.
Si sa però che i mali, se non vengono per nuocere, aiutano a meditare. Così il libro di Allen e Lax denso di ben 600 pagine (quasi una storia del regista per interviste cominciata già nel 1971), è l’occasione giusta per riflettere, così per dire, sul cosmo di trame e soggetti del settantatreenne Woody, e sui perché e sui per come della sua straussiana vita d’artista. Cominciamo da qui. Ovvio che la destra – se la destra è quella sbrigativa di Accio Benassi il protagonista del Fasciocomunista di Antonio Pennacchi - col grande, grandissimo Allen, di oggi e del passato, non può averci nulla a che fare. Ripetiamo: se la destra è una cosa che ha a che fare più con le botte da orbi e meno con l’intelligenza però. Ma quello del destrino tutto fumo (e fiamma) e poco arrosto è uno stereotipo vecchio, anzi mortizzo, figlio di anni nei quali era impossibile fermarsi a pensare. Tutti si viaggiava sul tram della politica (e sovente qualcuno prendeva anche il numero P38) e chi aveva più voce e furbizia cantava per se e per gli altri.
Eravamo impacciati; ecco sì, eravamo tutti poco liberi. E quelli che liberi lo erano veramente sembravano dei grandissimi tomi. Woody nonostante lo neghi (egli stesso s’intende), è un artista ricco di talento, è un signore dotato di un naturale senso del reale tanto da lasciar credere che dietro gli angoli della sua mente non ci sia alcun “platonico” imbroglio. È un antidoto alle cialtronate politiche e le fregature ideologiche, insomma è un americano che si permette il lusso della libertà o almeno prova ad indossarne i simboli, un giorno sì l’altro pure.
Forse negli ultimi anni ha fallito nel colpo di reni (può darsi), ma a guadagnarci è stato il sentimento classico quasi religioso per il rispetto della morte. Tutti eravamo abituati alle battute di Allen; a quelle del tipo: «Uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina”. E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”. E quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”». Ma col cinema drammatico Woody si è ancor più umanizzato. La tristezza però non è per i tristi o per chi mastica amaro; c’è come un senso di rotonda e leggera vivacità nei suoi film che da anni non sono più una raccolta di spassosissimi sketch o di battute sulla vita, i pazzi e le galline. Tanto basta per produrre la speranza di una misera o allegra normalità, provata ancora una volta, giorno per giorno.
Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody dunque ma non avete mai osato chiedere: uno “sperimentatore” che esplora l’orizzonte del nuovo ma che convive col più classico e conosciuto dei “conservatori”, ecco chi è Woody Allen. Un uomo che ha in odio le macchine e la tecnologia e che scrive i propri film a mano e poi utilizzando la stessa macchina da scrivere, un aggeggio che ha imparato ad usare alla perfezione solo parecchi anni dopo averlo acquistato.
Leggere il libro significa andare alla scoperta di un regista (e di un uomo) dai mille volti, anarchico appunto. L’artista amante ora delle tecniche nuove, non “convenzionali” quasi alla Andy Warhol, ora dei musical, ora della nostalgie in bianco-nero, ora delle tecniche utilizzate per i documentari, ora come sappiamo dei gialli con finale a sorpresa. Un uomo di cinema che realizza commedie pensando ai film “seri” (genere che peraltro predilige) e che gira film “seri” pensando anche alle commedie.
Nelle Conversazioni si intrecciano momenti molto diversi della vita del raffinato regista. Si passa nel giro di poche pagine dagli anni Settanta, agli Ottanta fino all’ultimo Woody (quello british, quello di Match point). Il narrato sembra dunque possedere una logica progressiva del tutto lineare.
Uno così non poteva essere di destra mai e poi mai, la destra palestrata (dal naso in giù) e delle certezze assolute, quella del superuomo scotch e nicotina, sesso, mazzate e giubbotto nero. La destra trucida insomma che al più poteva accontentarsi di amoreggiare con Tomas Milian (col poliziotto o col ladruncolo), maestro di simpatia ma diciamolo pure non un principe di Galles per modi e pensiero.
Questa era la destra che “piaceva” alla sinistra a cui a sua volta piaceva Woody Allen col suo umorismo yiddish e le battute al veleno (alle quali il laureato della new left rideva con un fuori-sincrono di 10-15 sec. giusto il tempo per mettere assieme i pezzi del discorso), mica con le parolacce tipiche dell’ispettore Nico o le barzellette di Silvio Berlusconi sciocche e volgari perfino per i telegenici del Grande Fratello.
Adesso però Woody (almeno lui) sta diventando serio. Alla sinistra che sul sedile della trasgressione ci ha messo (oltre il cappello), un grattacielo di spocchia e superbia, il newyorkese dallo sguardo cauto e triste comincia a piacere di meno. Udite udite: quel tipetto anarchico che sta (forse) traversando la sua quarta – ultima – stagione non appaga più il pubblico con occhiali, barbetta e jeans strappato. È pessimista, anzi no è troppo tecnico; si è eclissato dietro un origami di pensieri molesti, non è più il ribaldo di molte primavere fa. Il Woody Allen amico-di-una-vita, dopo quattro decenni di onorata carriera mostra qualche rughina di troppo. E si prepara alla pensione.
Si sa però che i mali, se non vengono per nuocere, aiutano a meditare. Così il libro di Allen e Lax denso di ben 600 pagine (quasi una storia del regista per interviste cominciata già nel 1971), è l’occasione giusta per riflettere, così per dire, sul cosmo di trame e soggetti del settantatreenne Woody, e sui perché e sui per come della sua straussiana vita d’artista. Cominciamo da qui. Ovvio che la destra – se la destra è quella sbrigativa di Accio Benassi il protagonista del Fasciocomunista di Antonio Pennacchi - col grande, grandissimo Allen, di oggi e del passato, non può averci nulla a che fare. Ripetiamo: se la destra è una cosa che ha a che fare più con le botte da orbi e meno con l’intelligenza però. Ma quello del destrino tutto fumo (e fiamma) e poco arrosto è uno stereotipo vecchio, anzi mortizzo, figlio di anni nei quali era impossibile fermarsi a pensare. Tutti si viaggiava sul tram della politica (e sovente qualcuno prendeva anche il numero P38) e chi aveva più voce e furbizia cantava per se e per gli altri.
Eravamo impacciati; ecco sì, eravamo tutti poco liberi. E quelli che liberi lo erano veramente sembravano dei grandissimi tomi. Woody nonostante lo neghi (egli stesso s’intende), è un artista ricco di talento, è un signore dotato di un naturale senso del reale tanto da lasciar credere che dietro gli angoli della sua mente non ci sia alcun “platonico” imbroglio. È un antidoto alle cialtronate politiche e le fregature ideologiche, insomma è un americano che si permette il lusso della libertà o almeno prova ad indossarne i simboli, un giorno sì l’altro pure.
Forse negli ultimi anni ha fallito nel colpo di reni (può darsi), ma a guadagnarci è stato il sentimento classico quasi religioso per il rispetto della morte. Tutti eravamo abituati alle battute di Allen; a quelle del tipo: «Uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina”. E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”. E quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”». Ma col cinema drammatico Woody si è ancor più umanizzato. La tristezza però non è per i tristi o per chi mastica amaro; c’è come un senso di rotonda e leggera vivacità nei suoi film che da anni non sono più una raccolta di spassosissimi sketch o di battute sulla vita, i pazzi e le galline. Tanto basta per produrre la speranza di una misera o allegra normalità, provata ancora una volta, giorno per giorno.
Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody dunque ma non avete mai osato chiedere: uno “sperimentatore” che esplora l’orizzonte del nuovo ma che convive col più classico e conosciuto dei “conservatori”, ecco chi è Woody Allen. Un uomo che ha in odio le macchine e la tecnologia e che scrive i propri film a mano e poi utilizzando la stessa macchina da scrivere, un aggeggio che ha imparato ad usare alla perfezione solo parecchi anni dopo averlo acquistato.
Leggere il libro significa andare alla scoperta di un regista (e di un uomo) dai mille volti, anarchico appunto. L’artista amante ora delle tecniche nuove, non “convenzionali” quasi alla Andy Warhol, ora dei musical, ora della nostalgie in bianco-nero, ora delle tecniche utilizzate per i documentari, ora come sappiamo dei gialli con finale a sorpresa. Un uomo di cinema che realizza commedie pensando ai film “seri” (genere che peraltro predilige) e che gira film “seri” pensando anche alle commedie.
Nelle Conversazioni si intrecciano momenti molto diversi della vita del raffinato regista. Si passa nel giro di poche pagine dagli anni Settanta, agli Ottanta fino all’ultimo Woody (quello british, quello di Match point). Il narrato sembra dunque possedere una logica progressiva del tutto lineare.
Peraltro Woody è il primo a non rendersi conto delle mutazioni, peraltro fisiologiche, occorse alla sua scrittura. Al momento di buttar giù una nuova sceneggiatura sa che deve frugare nel cassettino dei miracoli ove conserva appunti, parti di vecchie sceneggiature, idee precedentemente abortite e “pizzini” con aforismi o comunissimi appunti. Gli esiti delle sue riflessioni data la (eccellente) qualità dei risultati sono già materia per gli storici del Novecento.
Woody ha inserito nel cinema (almeno in quello comico) un’attenzione e per i sentimenti e per gli elementi psicologici dei personaggi pressoché unica, assai diversa peraltro da quella del mito dei miti Chaplin. Quest’ultimo per molti versi, quando non inserisce elementi “seri”, resta il campione del sentimentalismo e della poesia delicatamente comica. Attraverso Allen invece è più facile specchiarsi nelle nevrosi e nelle paure dei “tempi moderni”.
È arduo pensare che nel mondo descritto da Woody alberghino certezze seppure di comodo (tutto è causale, lo sappiamo). E l’arena dei conflitti è in primo luogo quella interiore. È lì che si vince o si perde ed è li che si costruiscono vite, possibilità e posizioni del tutto alternative.
Woody ha inserito nel cinema (almeno in quello comico) un’attenzione e per i sentimenti e per gli elementi psicologici dei personaggi pressoché unica, assai diversa peraltro da quella del mito dei miti Chaplin. Quest’ultimo per molti versi, quando non inserisce elementi “seri”, resta il campione del sentimentalismo e della poesia delicatamente comica. Attraverso Allen invece è più facile specchiarsi nelle nevrosi e nelle paure dei “tempi moderni”.
È arduo pensare che nel mondo descritto da Woody alberghino certezze seppure di comodo (tutto è causale, lo sappiamo). E l’arena dei conflitti è in primo luogo quella interiore. È lì che si vince o si perde ed è li che si costruiscono vite, possibilità e posizioni del tutto alternative.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).
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