Quando qualche mese fa Lawrence Ferlinghetti, uno dei monumenti viventi della poesia del Novecento, è venuto a Roma, in Campidoglio consegnava all’appena eletto nuovo sindaco Gianni Alemanno una fotografia davvero significativa con lui, ritratto nella Capitale, che indica una lapide con una scritta “contro l’usura”. C’era la romanità e c’era l’omaggio allo spirito del suo conclamato maestro, Ezra Pound. E il primo cittadino di Roma commentava: «Quella di Ferlinghetti e quella di Pound rappresentano esperienze fondamentali di alternativa al dominio del pensiero unico testimoniato dalla globalizzazione». Per la forza delle solite coincidenze significative un libro che ha fatto tanto discutere negli ultimi mesi – ’68, l’anno che ha fatto saltare il mondo (Mondadori, pp. 448, euro 18) – l’autore, lo storico Mark Kurlansky faceva premettere la sua introduzione da una significativa citazione proprio di Ezra Pound: «Uno dei piaceri della mezza età – annotava il poeta – è scoprire di aver avuto ragione, e di aver avuto tanta più ragione di quanto non si sospettasse a un’età come diciassette anni o ventitré». E in uno dei capitoli più interessanti del saggio si spiegava come il grande poeta americano resta come uno dei punti fermi «nella biblioteca della generazione del 1968». Se non ci fosse stato Ezra Pound, si precisava, «non ci sarebbe stato Eliot e non ci sarebbero stati Dylan Thomas e Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg...». Lo confermava Francesco Guccini nel suo contributo – “Bologna, Dylan e i Provos” – al bel libro collettivo curato da Walter Veltroni Il sogno degli anni ’60: «Mentre facevo il militare mi comperai un eskimo... Gli anni ’60 erano per noi gli anni del nouveau roman francese, avevamo la mania di Eliot e di Ezra Pound...». In Italia, come negli stessi Stati Uniti. Ne I vagabondi del Dharma, il libro più pregnate e incisivo di Jack Kerouac, Japhy, la figura centrale del romanzo – modellata sulla figura di Gary Snyder, poeta beat e futuro ecologista militante – a un certo punto deve rispondere all’amico Alvah che gli chiede: «Che sono tutti questi strani libri? Ehm, Pound, ti piace Ezra Pound?». E Japhy risponde senza esitazione: «Era un buon diavolo, anzi è il mio poeta preferito». E da allora il nome di Pound, il grande talent scout del Novecento, il poeta che aveva aiutato, promosso e lanciato nomi come Eliot e William Butler Yeats, Hemingway e James Joyce, ha circolato con sempre maggiore frequenza nella cultura non solo accademica. Ancora recentemente Patty Pravo ha ricordato – nella sua autobiografia e in un’intervista – i tanti pomeriggi da lei trascorsi ad ascoltare musica in compagnia del vecchio poeta autoesiliatosi a Venezia. E di Ezra che passeggiava per i calli della città lagunare si può leggere anche nel libro che Vincenzo Mollica ha dedicato a Hugo Pratt e Corto Maltese. Non solo: di Pound parlano esplicitamente sia il giornalista Massimo Fini nel suo libro di dieci anni fa Il denaro, sterco del demonio (Marsilio) che il filosofo Giulio Giorello, il quale ricorre abbondantemente alla lezione poundiana – parlando anche della passione del poeta per Walt Disney – nel suo Prometeo, Ulisse, Gilgames. Figure del mito (Raffaello Cortina editore, pp. 350, euro 19,80). Per non dire di Roberto Benigni che recitando La Divina Commedia dantesca in piazza Santa Croce a Firenze – «Dante, l’uomo che fustigava la Wall Street del trecento», ha ammesso – non è riuscito a trattenersi dal citare il verso più famoso di Pound: «Quello che veramente ami rimane / Il resto è scorie / quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità /... Strappa da te la vanità / Ti dico, strappala». Non molti anni fa, d’altronde, in un lungo e autorevole articolo sulle pagine culturali del Corriere della Sera Sergio Romano, l’ex ambasciatore e storico, definiva il poeta americano la bandiera di coloro che ripudiavano la logica della globalizzazione e una visione solo economicistica dell’Europa. E alla fine degli anni Ottanta è stato un economista irregolare come Geminello Alvi, autore di ricondurre l’economia alle sue scaturigini filosofiche e spirituali, a rivalutare nel suo Le seduzioni economiche di Faust (Adelphi) l’interpretazione poundiana dell’economia: «Quando si sappia distaccarsi – scriveva – dal fanatismo delle utopie trascorse, e quindi anche dal fanatismo d’insegnare la democrazia che ammala gli americani, si è adatti a pensare uomini come Ezra Pound. Poeta rinchiuso, solo per le sue idee, dodici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti da una di quelle periodiche esplosioni di fanatica intolleranza che pregiudicarono anche Melville». E, a quel punto in un saggio poetico in cui la chiave del sistema economico e finanziario moderno venivano individuate non sulla base di Adam Smith e Karl Marx ma attraverso Goethe, Adriano Olivetti, Rudolf Steiner e, appunto, Ezra Pound, Alvi introduceva il significato epocale dell’interpretazione poundiana dell’economia moderna: «Pound s’occupo d’economia dedicandosi soprattutto alla ricerca di una riforma economica capace di liberare l’economia dalle prevaricazioni della Haute Finance internazionale [...] Ezra Pound nella sua universale cultura filologica aveva ben chiari il denaro dell’antichità e le sue istituzioni, e non meno presenti gli erano i rimedi all’usura e alla speculazione dell’antichità...». Ecco, per tanti anni del poeta – nato a Hailey, nell’Idaho, nel 1885 e morto nel giorno di Ognissanti del 1972 a Venezia, dove riposa sepolto nell’Isola di San Michele, vicino alle tombe di Stravinskij e di Diaghilev – se ne parlò solo come di un genio delle lettere, di un esteta bizzarro ed eccentrico, e in quanto tale impolitico e sognatore. Eppure quando Pound parlò ripetutamente dei suoi Cantos – l’Odissea del Novecento – come di «un poema che include la storia» e quando concepiva il percorso comune in cui poesia, economia e storia si fondono in un unico prodotto estetico, compiva un’operazione filosofica di circolarità del sapere che entrava in totale rotta di collisione con la visione frammentata e parziale dei ”distinti” di Benedetto Croce. Pound si poneva consapevolmente oltre la visione crociana che pone l’autonomia e la separazione delle singole asfere della spiritualità umana: da una parte l’immaginario, dall’altra la politica, da una la poesia, dall’altra, appunto, l’economia. Ha sottolineato Mary de Rachewiltz, figlia del poeta: «Da due millenni si recita “rimetti a noi i nostri debiti”. La preghiera ci fu insegnata da colui che disse “Date a Cesare quello che è di Cesare” e che scacciò gli usurai dal tempio. E prima di Cristo, Confucio e Aristotele, per citare solo due dei filosofi che hanno influenzato Pound, e poi innumerevoli Padri della Chiesa e poeti, da Dante a Shakespeare a Goethe, hanno puntato il dito contro gli accaparratori, i falsari, gli usurai. Ma nessuno quanto Ezra Pound ha tentato di sviscerare i problemi inerenti alla distribuzione, alla natura del denaro e alla relativa terminologi». E fu un fatto che fece scandalo. «Un poeta – aggiunge la figlia Mary – doveva occuparsi di poesia e basta. E con l’intento, forse, di depistare i curiosi e di non essere infastiditi, gli “esperti” accusarono Pound di confusione, di fascismo...». Eppure, la sua visione dell’economia non emerge dai soli scritti tematici – Abc dell’economia, Lavoro e usura, A che serve il denaro? – ma anche dal suo capolavoro, i Cantos. «Infarcite – ha scritto Luca Gallesi, uno dei più autorevoli studiosi italiani del pensiero poundiano – di citazioni in tutte le lingue, di geroglifici egizi, di ideogrammi cinesi e persino di note musicali, le pagine dei Cantos traboccano di riferimenti alla giustizia economia e sociale che ha ispirato in ogni tempo uomini politici e di cultura, animati da un profondo senso etico». Anche perché tutti questi riferimenti non erano per Pound sfoggio di erudizione: lo scopo della letteratura, a suo dire, era «incoraggiare l’umanità a continuare a vivere, liberare l’animo dalla tensione e nutrirlo» e per fare ciò la poesia non doveva astrarsi dalla vita quotidiana e dalle condizioni economiche dell’esistenza. I Cantos si collocano, insomma, in una concezione nuova, ampia e simultanea, di poesia, mirando a un genere epico al cui centro c’è la riflessione sull’esito dell’intera civiltà. E l’opera corrispondeva all’idea giovanile del poeta – quando contemporaneamente leggeva le teorie eretiche degli economisti Silvio Gesell e Clifford Hugh Douglas – di comporre un «poema epico sull’Occidente». E se il suo modello era Dante, come la Commedia costituisce una sintesi della cultura medievale sintetizzata nella luce di una visione personale, così il poema di Pound aveva in sé l’ambizione di raccogliere in un solo affresco una lettura del ’900 come estremo sviluppo della civiltà occidentale che, in un processo ciclico di ininterrotte metamorfosi, ha conosciuto stagioni luminose come la Grecia classica, il medioevo di Dante e Cavalcanti, il Rinascimento italiano, la vecchia America di Thomas Jefferson e John Adams. A differenza del poema dantesco, però, il cui filo rosso è costituito dalla teologia, i Cantos si definiscono soprattutto attorno attorno alla sintesi di storia, antropologia, politica e arte il cui elemento unificante è proprio l’economia. È un concetto che si fondava sulla convinzione poundiana che lo sviluppo ciclico dell’umanità nella civiltà occidentale sia dovuto a una sintesi di condizioni sociali e rapporti economici strettamente connessi a una consapevolezza etica che, nel loro insieme, costituiscono il paideuma da cui fiorisce ogni cosa, da una politica giusta e bella, alla finezza della parola, alla potenza dell’arte. Il paideuma – termine ripreso dall’antropologo Leo Frobenius – definisce l’elemento “cultura” che nella visione poundiana si contrappone al polo opposto: l’“usura”. Scriveva il poeta nel saggio Carta da visita: «Nella storia troviamo due forze: una che divide, spezza e ammazza, l’altra che contempla l’unità del mistero... Una forza falseggia. Una forza distrugge ogni simbolo figurato con precisione, e trascina l’uomo nelle discussioni astratte». È stato Giano Accame – spinto anche dalle sollecitazioni a indagare l’aspetto economico dei Cantos da parte di un poundiano doc come Antonio Pantano – a pubblicare nel 1995 Ezra Pound economista. Contro l’usura (Edizioni Settimo Sigillo, pp. 262, euro 20) in cui questa dimensione è emersa in tutta la sua evidenza. È nella quinta decade dei Cantos che – alla luce degli studi poundiani sugli Statuti del Monte dei Paschi di Siena – emerge a tutto campo la sua diagnosi sull’economia mondiale. Pound, infatti, aveva scoperta che nell’istituto di credito toscano –risorto nel 1622 con l’impegno, poi fissato negli Statuti, di mantenere gli interessi al 5 per cento – l’erogazione del credito era aperta a chiunque garantisse di adoperarlo per scopi socialmente apprezzabili, distinguendosi in questo modo dalla logica speculativa – e usurocratica – con cui settant’anni dopo sarebbe sorta la Banca d’Inghilterra. Lo spiegò bene lo stesso Pound: «Il Monte dei Paschi trovò e mise in atto le basi valide del credito, e cioé: 1) l’abbondanza della natura; 2) la responsabilità di tutto il popolo». Il poeta introduce questa politica bancaria all’interno della più generale «prima rivoluzione populista moderna» messa in atto in Toscana da Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena che realizzava il miracolo di un sistema bancario fondato sull’abbondanza della natura, sulla capacità del popolo di produrre, sulla fertilità che crea il “credito” della nazione. L’esempio opposto era invece costituito dalla Banca d’Inghilterra nei cui statuti si leggeva: «Il banco trae beneficio dall’interesse sui tutta la moneta che crea dal niente», permettendo così a poche persone di diventare ricche senza usare denaro. Questo modello economico, quello finanziario, s’identificava quindi non con la natura (fertilità) ma con l’usura (sterilitè) che idolatra il denaro creato magicamente dal nulla e per pochi. E da allora i due grandi protagonisti della polemica poundiana diventano il grano e l’oro: «Il metallo dura, ma non si riproduce. Seminando l’oro non si raccoglie oro moltiplicato». Esso, soprattutto, «non germoglia come il grano». Il ”male” dell’economia finanziaria è insomma lo stesso denunciato, già nel 1816, da uno dei riferimenti di Pound, Thomas Jefferson: «Siamo indotti a credere che dei prestigiatori che fanno trucchi con la carta possano produrre una ricchezza solida quanto il duro lavoro sulla terra. `È vano, alla luce del senso comune, sostenere che niente opossa produrre altro che niente; questo è il regno pazzo della pietra filosofale che trasforma ogni cosa in oro». Aggiungeva Ezra Pound: «La scienza moderna è riuscita a moltiplicare la possibilità della ricchezza; la scienza, controllata e pungolata dalla volontà politica, deve risolvere l’altro problema: il problema della ricchezza, in modo che non si verifichi più l’evento illogico, paradossale e al tempo stesso crudele, della miseria in mezzo all’abbondanza». È proprio vero: nessuno meglio di lui – un poeta geniale e visionario – descrive la stessa crisi finanziaria dei nostri giorni.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
mercoledì 22 ottobre 2008
Pound, il poeta contro l'usura (di Luciano Lanna)
Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 19 ottobre 2008
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