Articolo di Pierluigi Biondi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 9 novembre 2008
A spaventarlo di più sono «la violenza cui i giovani d’oggi vengono abituati. Il potere non vuole vedere la gente festosa». Suonano profetiche le parole di Lucio Dalla, dette due giorni prima che accadesse quello che è accaduto in Piazza Navona, quando l’unità generazionale dell’Onda anomala è stata mandata in frantumi (come fosse l’arredo di un bar) dall’arrivo militare e militante dei sostenitori della ineluttabilità degli opposti estremismi. Certo, sosteneva il cantautore bolognese in un incontro presso il teatro Verdi di Salerno, quei ragazzi «hanno il pieno diritto di manifestare per il loro futuro», però, raccomandava, «hanno anche il dovere di studiare e di non pensare che prendere una laurea serva soltanto ad ottenere un posto statale». «Cercate – era l’incoraggiamento finale – di non diventare mai definitivamente adulti, ma lasciate in ognuno di voi una finestra aperta sul mondo del sogno e della fantasia».
Perché, in fondo, le botte di quella mattina nel centro storico di Roma, aldilà dell’età dei protagonisti, sono state un affare da adulti. Adulti senza sogni e senza fantasia. Nostalgici di quel passato fatto di spranghe e assalti (nel migliore dei casi) per cui provano la patetica tenerezza di chi è invecchiato male ed invidia la giovinezza altrui. Per fortuna c’è chi, di quel periodo, non ha alcun rimpianto: «L’Italia, il mondo, sono meglio adesso che negli anni Settanta. Ad un lago puzzolente preferisco un mare in burrasca». È ancora Dalla a parlare, uno che non si è mai sentito un musicista engagé e che pensa che il nostro Paese non abbia bisogno, né ne abbia mai avuto, di vestali o sacerdotesse che tengano acceso il fuoco dell’impegno pedagogico e classista.
Un cantautore, come lui si è definito, con la “c” minuscola: «Volevo fare una canzone civile che migliorasse il grado di cultura e informazione mio e del mio pubblico. Senza però arrivare alla canzone militante da ascoltare sotto una bandiera. Per me non c’erano steccati». La pesante cappa del terrorismo e dell’insicurezza diffusa dell’Italia nell’età del piombo gli ispireranno alcuni tra i suoi pezzi più celebri. È di pochi mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, infatti, L’anno che verrà, che contiene le emblematiche le strofe «Si esce poco la sera compreso quando è festa/e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra/e si sta senza parlare per intere settimane/e a quelli che hanno niente da dire/del tempo ne rimane», che stanno quasi a descrivere uno scenario di guerra. Mentre l’anno successivo saluterà la (precaria) fine delle ostilità con La sera dei miracoli: «La gente corre nelle piazze per andare a vedere/questa sera così dolce che si potrebbe bere, una sera così strana e profonda che lo dice anche la radio/anzi la manda in onda./Si muove la città con le piazze e i giardini e la gente nei bar/galleggia e se ne va, anche senza corrente camminerà/ma questa sera vola, le sue vele sulle case sono mille lenzuola».
La fine dei lutti a catena coincide con il cessato allarme, viene revocato il corpifuoco, e la sera si può tornare a girare per le strade e fermarsi a guardare la luna. Se rimpianti ne ha, Dalla, semmai sono dedicati ai Sixties, anni in cui mosse i primi passi da clarinettista jazz (nella Reno Jazz Gang in cui suonava al fianco del regista Pupi Avati) per poi entrare a far parte del complesso dei Flippers, di cui facevano parte il futuro critico musicale Fabrizio Zampa, il pianista storico del Costanzo Show Franco Bracardi e il cabarettista Massimo Catalano. È in quel periodo che introduce, nei brani eseguiti, spezzoni cantati con la tecnica “scat” – parole incompiute e dal ritmo veloce – che, insieme alla mascella prominente, alla folta peluria e al caratteristico zuccotto sempre calzato in testa, faranno la fortuna dei suoi numerosi imitatori. Ma, soprattutto, i ‘60 lo vedono protagonista – con il paroliere Sergio Bardotti e l’eretico-pop Piero Vivarelli – della redazione del “Manifesto del beat italiano”. Declinato in quattordici punti vi si poteva leggere: «Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa i musei». E ancora: «Siamo, senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessità di aderire a quella “tendenza” che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan». E infine: «Il nostro modo di pensare alla musica è anche il nostro modo di vivere. Noi crediamo nei giovani e lavoriamo per loro. Si può essere vecchi anche a 18 anni... Noi cerchiamo il disprezzo di tutti quelli che non pensano come noi... il resto è abbondantemente contraccambiato».
Un artista di rottura, insomma, che oggi si racconta ne Gli occhi di Lucio (Bompiani, pp. 174, € 20,50). Un’edizione racchiusa in un cofanetto che contiene un libro con scritti inediti, un cd con versioni riarrangiate di Tu come eri, Anidride solforosa, Le rondini, una Malafemmena cantata con la London Philarmonic Orchestra su arrangiamento di Bacalov, e Principessa, adattamento di un testo inedito di Totò, e un dvd con immagini tratte dai suoi spettacoli. A mettere insieme il tutto è stato Marco Alemanno, ventottenne pugliese.che ha lavorato con Dalla negli allestimenti, tra gli altri, dello spettacolo Pierino e il lupo e che è anche l’autore delle fotografie che arricchiscono il libro. Del giovane attore salentino – che ha prestato la sua voce per doppiare Jim Morrison nel mediometraggio animato 46, realizzato da Milo Manara per Valentino Rossi – Dalla dice: «è un deposito di conoscenza di musica e cinema. Io, come esecutore, ho bisogno di un alter ego in una certa misura ostile, che controlli e mi impedisca di ricorrere a scorciatoie musicali o nei testi. Sì, in questo senso è lui il mio doppio, “il contrario di me”». Per inciso Il contrario di me è anche il titolo dell’album del 2007 che corona un curriculum ultraquarantennale di tutto rispetto, costellato da successi del calibro di Cara, Anna e Marco, Nuvolari, Com’è profondo il mare, Futura (che ispirò la stagione pioneristica dell’associazionismo femminile a destra del Centro Studi Futura, che vide tra le sue promotrici le giornaliste Annalisa Terranova e Isabella Rauti, all’epoca giovanissime militanti del FdG) o i più recenti Attenti al lupo, Canzone, Henna.
Una carriera che lo ha visto straordinario interprete della musica italiana, con decine di album pubblicati, la collaborazione con star di primo piano, tra cui Francesco De Gregori (memorabili l’LP e la tourneé di Banana Republic del 1979), Antonello Venditti, Francesco Guccini (con il quale scriverà, a quattro mani, Emilia), Mina e Luciano Pavarotti, che canterà la sua Caruso. Indiscutibile, poi, il suo fiuto di talent-scout, con il carnet delle sue scoperte che vanterà, ad esempio, i nomi di Ron e degli Stadio. Da segnalare, anche, la ricca esperienza nella realizzazione di colonne sonore per i film di Monicelli, Antonioni, Michele Placido e Carlo Verdone. Il libro è diviso in tre sezioni: la prima segue il filo rosso della natura, del rapporto con la terra e gli altri elementi; nella seconda ci sono i testi che invece hanno una connotazione più spiccatamente autobiografica; nella terza sezione, infine, testi narrativi su Benvenuto Cellini, l’irrequieto e policromo fiorentino del ‘500.
Sfogliando le pagine de Gli occhi di Lucio si ritrova tanto il Dalla come eravamo abituati a conoscerlo, che non perde il gusto di riaffermare la sua natura istrionica e guittesca – «se mi metti sul palco sono capace di calarmi le braghe», «sono un bastardo che si diverte» aveva dichiarato in due diverse interviste – tanto il Dalla più intimo, più esistenziale. Quello, per intenderci, che tanto ha fatto parlare di sé in occasione dell’outing sulla sua religiosità e sul suo essere un cristiano praticante. Dio è il «grande e unico profusore di dolci bellezze» ed è il demiurgo che disegna i nostri destini: «La casualità, ad esempio, è un versante dell’aspetto sacro, perché che cosa vogliamo sapere noi dei progetti che il Cielo fa per noi, dei quali facciamo parte?». Quel Dio a cui, già nel 1985 nella canzone Se io fossi un angelo, prometteva di «ubbidire, amandolo a modo mio»: un angelo «zingaro e libero» che vola in Afghanistan e in Sud Africa a «parlare con l’America e anche coi russi», a cui darebbe «due ore al massimo», fissandoli «con sguardo biblico» e su cui, poi, discolo e irriverente, «piscerebbe sulla testa, sui loro traffici, sui loro dollari, sulle loro belle fabbriche di missili».
Ventitré anni dopo, però, siamo di fronte a un rapporto più maturo, con il figlio di Dio visto nelle vesti di un «rivoluzionario come non ce ne sono mai stati prima e come non ce ne saranno mai dopo, cioè un “cambiatore”, un super rivoluzionario, altro che terrorismo». Gli occhi di Lucio è un libro sincopato, come i suoi vecchi gorgeggi “scat”, in cui si alternano i sorrisi legati ai ricordi dell’infanzia – «Mia madre, intorno ai dieci-undici anni, mi portò a fare un controllo in un istituto psicotecnico gestito dall’Università di Bologna, in via Zamboni, dove praticamente le dissero che si doveva rassegnare, perché ero un mezzo deficiente» – all’amarezza per un mondo che sembra non accorgersi dei suoi figli più sfortunati, come quelli ricordati nel brano scritto in favore della campagna per aiutare i bimbi del Darfur: «Pensami, amico, mentre mangi con tuo figlio e tua moglie o dai quel pezzettino di grana al tuo cane. Pensami, mentre mi vedi chiuso nel tuo televisore, dentro il tuo telegiornale. Pensami e guardami, mentre le mosche bevono l’acqua dei miei occhi, tanto io non ho bisogno di lacrime. Io ti aspetto». C’è spazio anche per l’invettiva, tremendamente attuale. Una è contenuta nel prologo che Dalla ha scritto in occasione della sua regia del Pulcinella di Igor Stravinskij: «Dove ti nascondi oggi, finanziato finanziere, ladro dei ladri… Sei nascosto in qualche banca? Rubatore derubato, profitto perso e calcolato, finito il vino hai riempito le cantine di petrolio, hai chiuso il cuore in un barile e hai giurato: “Lo lascio lì, tanto è morto! Hai aperto cambi, uffici, holding… fai profitti sui mercati». L’altra è nel dialogo tra Spoletto e Angelotti nel Tosca – Amore disperato, opera moderna liberamente tratta dal melodramma di Puccini: «Il potere è il contrario dell’amore, è peste nel cuore dove non c’è ombra di Dio… Dio non ha carrozza né oro, imbroglio e convenienza. È uccello che non sbanda, è fulmine che scalda, è vento libero che sposta anche le stelle… È libertà…».
Quella libertà a cui Dalla ha sempre fatto abbondante ricorso e che, talvolta, gli ha fatto piovere addosso critiche di cui, per la verità, sembra non curarsi minimamente. Non soltanto in virtù della sua età (impossibile, anche per il più distratto degli ascoltatori, non sapere che è nato il 4 marzo 1943) o del suo inattaccabile excursus artistico. Quanto piuttosto per la sua particolarità di essere, a distanza di tanti anni, un gioioso beat in servizio permanente effettivo.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).
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