Saggio di Luciano Lanna
Gli irregolari dalla parte dei diritti civili
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 5 novembre 2008
Prima parte: Quelle radici libertarie del Novecento arcitaliano
Seconda parte: Tra fiumani, interventisti e goliardi
Terza parte: Quei sediziosi negli anni della fronda
Terza parte: Quei sediziosi negli anni della fronda
Quarta parte: Oltre la morsa clericale e comunista
Quinta parte: Quei libertari dalla parte (non) sbagliata
Come abbiamo raccontato, sul fronte laico-libertario italiano nel 1955 nascevano parallelamente sia i Circoli del Borghese che l’associazione degli Amici del Mondo: «Forse inconsciamente – ha osservato lo storico Raffaele Liucci – riecheggiava nei promotori la memoria storica della grande stagione dell’associazionismo che Milano aveva sperimentato nell’Ottocento», un precedente in cui «la nascita e la proliferazione di club, di circoli e società varie aveva segnato una riorganizzazione degli spazi sociali, codificato nuovi stili di vita e di relazione… E anche il Borghese auspicava un movimento d’opinione che dalla società civile potesse, attraverso il proprio prestigio e la propria influenza, giungere alla società politica ». Ma l’avventura “politica” degli amici di Pannunzio non conobbe un destino migliore che non fosse, per allora, quello del minoratismo intellettuale e dell’incapacità di incarnare le proprie istanze libertarie e garantiste – l’istituzione del divorzio, la revisione del codice penale, in particolare le norme che tutelavano il reato di vilipendio, la lotta ai monopoli e agli abusi di potere – in un vero e proprio soggetto politico. Restava, insomma, un grande sfogo giornalistico. E una delle migliori firme del Mondo di Pannunzio fu indubbiamente il grande giornalista e scrittore irregolare Gian Carlo Fusco, la figura che, stando alle parole del suo biografo Dario Biagi, fu soprattutto «uno spirito indipendente, poetico più che anarchico, fedele alla propria natura e irriducibile nel difenderla». Ma poteva risultare compatibile con il moralismo togliattiano, un ragazzo già reduce di guerra ma anche giornalista, ballerino di tip tap, pugile, animatore del Kursaal, un locale notturno di successo in Versilia e, come si diceva allora, dalla condotta morale irregolare? No, non era possibile e proprio per «condotta amorale» Gian Carlo viene espulso dal Pci e, come se non bastasse, viene anche pestato nel retro di un locale. Siamo nel ’49 e l’episodio può essere assunto a metafora della più generale rottura della generazione più giovane con il Pci, la Dc e con tutte le Chiese, ideologiche o religiose, che avevano in pochi anni egemonizzato il paese.
Lo scrittore Giuseppe Berto parlava a questo proposito del «fallimento del neorealismo». E anche Berto – come Flaiano, Steno, Mario Tedeschi e tanti altri – era stato lanciato proprio da Leo Longanesi che nel ’47 gli pubblicava il romanzo d’esordio, Il cielo è rosso. E, sullo stato d’animo dei giovani intellettuali alla fine degli anni ’40, Berto era sincero come pochi: «Mentre noi pensavamo d’essere i protagonisti della vita non solo culturale ma anche politica del paese, d’essere i facitori della storia nel suo divenire, l’Italia s’era bellamente sistemata sotto i padroni di sempre: burocrazia, polizia, governi e sottogoverni, partiti politici troppo numerosi e troppo avidi di potere e di denaro…».
Ma la definizione migliore arriva, ancora una volta, da Ennio Flaiano. Lo scrittore pescarese, ormai affermato sceneggiatore cinematografico, riesuma l’espressione romagnola dei “vitelloni” per rappresentare tutta questa generazione nel celebre film di Federico Fellini che esce nel ’53. Quale metafora migliore, del resto? Flaiano la pensò ambientando la storia a Pescara e non a Rimini come nel film, ed è probabilmente un alter ego dello steso Flaiano il personaggio di Moraldo, interpretato nella pellicola da Franco Interlenghi, che come la stragrande maggioranza di questi giovani intellettuali parte dalla provincia e va in città – a Roma o Milano, non importa… – in tempo però per accorgersi che la propria generazione sta per essere fregata. Cosa esprimevano, in fondo, i cinque giovani disincantati del film di Fellini? Nel 1953, l’anno di uscita della pellicola, il loro ostinato rifiuto dell’età adulta non è altro che il rifiuto altrettanto netto delle false promesse del dopoguerra catto-comunista. Sostanzialmente indifferenti alle retoriche di stampo ideologico, quello che a loro manca è soprattutto la fiducia nella ricostruzione e non è certo lo spirito della Resistenza ad animarli. Intuiscono anche che il boom economico, ormai dietro l’angolo, è una fregatura che merita il gestaccio del gomito che, nel film, Alberto Sordi rivolge ai contadini intenti a lavorare nei campi, il celeberrimo sfottò: «Lavoratoriiiiii!!!».
Un gesto beffardo e libertario che, in qualche modo, risuonava come una sorta di “me ne frego” postbellico. Perennemente fuori posto, i vitelloni. Perennemente inquieti. Fatto sta che, nell’aprile del ’54, nonostante il fatto che Flaiano sia ormai il caporedattore del Mondo di Pannunzio da ormai cinque anni, Leo Longanesi, che gli continuava a scrivere sempre, gli ricorda in una lettera gli articoli promessi e attesi per il suo Borghese e aggiunge espressamente: «Da I vitelloni non si potrebbe cavar fuori un libro? Il tema è buono e il libro si venderebbe molto». Flaiano ci pensa: «Quando – riflette tra sé e sé in terza persona – si mette a scrivere il secondo romanzo? Perché non manda nulla al Borghese?», così come Leo sollecita da anni. Un fatto è certo: il filo tra i due non si spezzò mai, nonostante tutto.
È la grande stagione di un certo giornalismo laico e libertario: il Mondo, che è considerato la ribalta più prestigiosa di allora, ma – appunto – anche il Borghese di Longanesi, L’Europeo di Arrigo Benedetti, Cronache di Gualtiero Jacopetti e, infine, L’Espresso. Interessante l’esperienza di Jacopetti, un giovane amico di Longanesi e Montanelli, già famoso per i suoi cinegiornali della Settimana Incom, sorta di telegiornale dell’epoca pre-televisiva: «L’Italia di allora – spiegherà – era un immenso dormitorio con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Così io cercavo di divertirmi mettendo in risalto la cattiveria e la mancanza di cultura ».
Lo scrittore e giornalista Sergio Saviane lo definirà «il padre spirituale dell’Espresso», ricordando come Jacopetti sia stato, dalla primavera del ’54 all’ottobre ’55, il creatore e direttore del settimanale Cronache, esperienza giornalistica da cui l’Espresso di Arrigo Benedetti sarebbe derivato per filiazione diretta, ereditandone davvero tutto: formula, taglio, redazione e collaboratori. «Avevo messo su – ha raccontato Jacopetti – una redazione di giovani: Furio Monicelli, Bruno Zevi, Antonio Gambino, Cesare Brandi, Sergio Saviane…». E tutto torna: gli intrecci si tengono. Flaiano e Fellini si ispireranno proprio alla figura di Jacopetti per scrivere La dolce vita, anzi lo vorrebbero come interprete. E il trentaduenne scrittore libertario Sergio Saviane – all’Espresso fin dal primo numero – pubblicherà nel ’58 Festa di laurea, un racconto-inchiesta sulla generazione dei “vitelloni”. Ed è anche attraverso questi percorsi che emerge nella sua articolazione e nella sua difficoltà a trovare un’univoca identità pubblica la “via italiana al libertarismo”. Esistenze e biografie intellettuali che, anche sul piano giornalistico, procedettero in parallelo, tanto che molti di loro si ritroveranno in zone di “confine” – lavorare per il cinema, scrivere per il cabaret o la satira – oppure si ritroveranno a costituire le colonne delle prime riviste erotiche italiane.
Pensiamo al toscano Luciano Bianciardi – lo scrittore del quale Indro Montanelli, che voleva assumerlo al Corriere della Sera, dirà che aveva il suo «stesso sangue» – che, malgrado il successo dei suoi libri, era tanto scomodo e libertario da farsi licenziare da Feltrinelli. Avrebbe potuto battere cassa in un ambiente, quale quello letterario, amministrato dai burocrati progressisti, ma aveva finito per trasformare la sua protesta esistenziale in una alzata di spalle, collaborando con i giornali sportivi, con i settimanali popolari o con le riviste “per soli uomini” come Playmen. Anche Bianciardi, ex comunista deluso, appassionato del garibaldinismo, irregolare e libertario sino al midollo, non troverà mai una casa per le sue idee e la sua sensibilità sino alla sua morte nel ’71.
Così, nel ’66 Bianciardi figura tra i collaboratori di ABC, un settimanale popolare ma dai toni libertari. Ed è in buona compagnia: ci sono anche Marcello Marchesi, Milena Milani e, soprattutto, l’immancabile Fusco. «ABC– scrive Dario Biagi in L’incantatore. Storia di Gian Carlo Fusco – è già lanciato per la china erotica, ma riscuote un certo successo anche per lo spirito barricadiero: cavalca la battaglia per il divorzio...». E Fusco, aggiunge Biagi, «imbarcandosi con quella ciurma, si omologa a loro e non si leverà più di dosso il marchio del libertario-radicale. Più tardi, ad esempio, verrà aggregato al club de Il Male, tramite l’amico Pino Zac, e glorificato come un maestro della fronda». E anche questo è uno dei strani intrecci del ’900 italiano: il quattordicinale che ha dato impronta al libertarismo del ’77, che lancerà nomi come Vincino, Vauro e Pazienza annoverò Fusco tra i suoi padri conclamati. Se normalmente si tende a disegnare il movimento degli indiani metropolitani come un ritorno generazionale al libertarismo e se Il Male viene considerato come uno dei migliori frutti di quella stagione, non si può non far finta che insieme a Angelo Pasquini o a Vincenzo Sparagna ad animare quella rivista c’erano in redazione anche due rappresentanti del vecchio libertarismo come Saviane e Fusco.
E se Saviane, per anni irriverente critico televisivo de L’Espresso, verrà ripescato da Montanelli per il suo Giornale, considerato di destra, Fusco – che come abbiamo visto iniziò al Mondo di Pannunzio, era amico di Mino Maccari e aveva collaborato col settimanale Cronache – nella sua ultima stagione, come riferisce il suo biografo Biagi, stringe amicizia «con Pino Romualdi e Franco Petronio » due esponenti di pirmo piano del Msi. E, a Playmen, con Enrico de Boccard, altro ex repubblichino. Un altro intellettuale “di destra”, poi, Michele Calabrese, «lo coinvolge nelle attività dell’associazione culturale “Il poliedro” e della sua rivista…». Non a caso, del resto, già nel 1959, sulla rivista di Romualdi, L’Italiano, era apparso, tra l’altro, un articolo di Julius Evola favorevole al divorzio.
Per anni, comunque, il ritrovo serale di Fusco a Roma sarà “Da Poldo”, a via della Penna. Qui erano immancabili Ennio Flaiano e Vincenzino Talarico, Mino Maccari e Gian Gaspare Napoletano, Carmelo Bene e Sandra Milo, Gabriele Ferri e Tinto Brass… Un calderone libertario dove Fusco sguazza, al punto da sposare da sorella di Poldo. Questi, all’anagrafe Leopoldo Bendandi, era un gigante dal volto butterato che aveva militato nella Decima Mas e rischiato il plotone d’esecuzione per l’attentato a una nave e che presterà la sua faccia a molti film: da Viva Maria con Brigitte Bardot sino a Giù la testa di Sergio Leone… E negli anni ’60 e ’70 il suo locale proseguiva di fatto una tradizione che veniva da lontano. Ecco, da Colle Val d’Elsa nel senese alle Giubbe Rosse di Firenze, dal caffè Aragno di via del Corso sino al Poldo di via della Penna è in queste sedi che si è caratterizzata l’avventura dei tanti intellettuali del nostro ’900 che hanno animato la via italiana al libertarismo. Citavamo inoltre una certa editoria popolare e di nicchia. Andrebbero infatti ricordate le battaglie condotte da Luciano Secchi-Max Bunker con la rivista di fumetti Eureka, le iniziative della casa editrice Sugar diretta da Massimo Pini nel pubblicare testi “censurati” come quelli di Henry Miller (non a caso tradotto da Bianciardi come il Gilles di Drieu), per non dire della carica trasgressiva di certi comics come Diabolik e Kriminal e della difesa condotta dall’avvocato Gianni Massaro (libertario e missino) contro la censura di certi film.
Proprio in questo clima, nel 1967 l’editrice Adelina Tattilo aveva mandato in edicola Playmen, la prima rivista mensile italiana sexy, alla quale collaborarono molti dei nomi della nostra vicenda, da Bianciardi a Fusco sino a de Boccard. E, appunto, negli anni ’60 e ’70, la Tattilo si riteneva portatrice di una spinta libertaria che la porterà negli anni successivi prima ad avvicinarsi al riformismo di Bettino Craxi e, infine, ad avvicinarsi, tra la sorpresa generale, ad An. Solo un caso? Al termine di questa lunga ricognizione storico-culturale non ci pare. Semmai, si tratta di un sentiero da ripercorrere.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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