

«Non voglio che i negri mi tocchino!». Livio Strumendo, 56enne impresario edile di Portogruaro, comune della provincia di Venezia, piuttosto che farsi medicare dall’i
nfermiera congolese, avrebbe messo a ferro e fuoco il reparto del Centro Ustioni dov’è ricoverato in seguito a un incidente. «Tutti a casa, Bossi ha ragione», avrebbe urlato – il condizionale è d’obbligo – scagliando un computer a terra e strappandosi le bende prima di essere sedato dal personale medico. È successo venerdì notte al Policlinico di Padova. Profondo nord e pregiudizi radicati. Altro che integrazione e apertura ai nuovi cittadini. L’insofferenza nei confronti degli immigrati di colore ha raggiunto il disco rosso. Vanno aiutati, sì, ma a casa loro, come ha ribadito il leader della Lega. Poco importa se Isabel, l’infermiera quarantenne in questione, sia in Italia da anni e abbia dimostrato di saper fare il proprio lavoro. Faccia le valigie. Raccolga i suoi stracci e tolga il disturbo. E come se non il clima non fosse già abbastanza arroventato, Bossi già ha annunciato per l’anno prossimo una nuova iniziativa: dare vita a una catena umana sul Po, un atto che dovrebbe simboleggiare una barriera contro l’immigrazione.
A restituire il ritratto di un nordest che, malgrado il benessere economico, continua a presentare preoc
cupanti segnali di chiusura, per non dire di grettezza, è Matteo Righetto – giovane narratore padovano già autore di apprezzate pubblicazioni per l’infanzia – nel suo Savana Padana (Editrice Zona, pp. 120 € 13), da poche settimane in libreria. Il suo è il primo romanzo “sugarpulp”, come l’autore ha battezzato la corrente letteraria che ha recentemente fondato col conterraneo Matteo Strukul, giovane consulente editoriale e critico musicale, autore del saggio Il cavaliere elettrico. Viaggio romantico nella musica di Massimo Bubbola (Meridiano Zero, pp. 287, € 15). Il progetto è spudoratamente ambizioso: rompere le geometrie narrative attraverso la contaminazione dei generi più diversi – western, pulp, noir, folk e quant’altro – e soprattutto coniugare un certo stile di scrittura made in Usa – rapido, veloce, cinematografico – rappresentato dalle opere di Cormack McCarthy, Victor Gischler e Joe Lansdale, con i paesaggi epici, la realtà sociale e i sapori di un Veneto selvaggio che sembra richiamare le suggestioni, la cultura contadina e le grandi estensioni del Texas. Tanto che il logo del visitatissimo sito del movimento – www.suga
rpulp.it – è la raffigurazione stilizzata della sezione della barbabietola da zucchero, prodotto di punta della bassa padana, motore dell’economia locale. L’idea è quella di scrivere storie che nascono dalla terra. Storie piene di polpa, per l’appunto. Il lettore è avvisato: non avrà modo di annoiarsi. «Vogliamo realizzare qualcosa di diverso – ci spiega Righetto – dalle autoreferenziali contemplazioni dell’ombelico che caratterizzano buona parte della produzione dei sopravvalutati autori italiani, qualcosa che metta insieme gusto dell’azione e arte della narrazione. Il nostro intento – continua Righetto – è creare un vivaio di appassionati della scrittura che vogliano dare vita a una narrativa giovane, fresca, dinamica, che racconti storie slabbrate, rischiose, piene di humor nero, legate al nostro territorio, così vivo eppure incredibilmente trascurato dai produttori d’inchiostro». E le adesioni fioccano, le aspirazioni si materializzano. Sul sito, inaugurato a gennaio con un’intervista in
edita a Pedro Juan Gutierrez, il Bukowski cubano, si alternano recensioni a romanzi e fumetti e consigli di lettura con racconti veneto… americani. Sì, perché se una volta c’era il West adesso è la volta del Nordest. La prospettiva – dichiaratamente ispirata al maestro dello spaghetti-western Sergio Leone – è proprio quella di creare e soprattutto consolidare un genere nuovo: il western in salsa padana o anche polenta western. Di cui Savana Padana si propone come l’opera prima. I fans del “gruppo” appositamente aperto su facebook sono cinquecento e il numero è destinato a crescere in un passaparola che ha già reso il romanzo un vero e proprio “caso letterario” del social network.

A restituire il ritratto di un nordest che, malgrado il benessere economico, continua a presentare preoc



Il dibattito, quanto mai attuale, è aperto. La realtà sociale rappresentata da Righetto, sia pure filtrata da una
consapevole chiave fumettistica e da uno spiccato gusto per la provocazione, è una giungla in cui gli uomini, loro malgrado, finiscono per “animalizzarsi” proprio come i grandi mammiferi della Savana. Non è certo un caso se i malavitosi, equamente distribuiti tra veneti, zingari e cinesi – perché non ci sono buoni e cattivi ma, semmai, cattivi e supercattivi – hanno soprannomi come il Bestia e il Tigre. Il primo a comparire in scena e subito impegnato a occultare un cadavere, del resto, è Berto, «uomo di poche parole e tante bestemmie al punto di essere soprannominato “Sacramento”». Malgrado, va detto, fosse devoto della Madonna di Monte Berico e solo di quella, ché le altre sono straniere e, come tali, prive di interesse. La location, infatti, è determinante: il Brenta da una parte, il Piovego dall’altra. Due corsi d’acqua che stringono a tenaglia una terra
piatta umida e tignosa dove l’afa d’estate è mortifera. Tra queste campagne c’è l’apparentemente sonnolenta San Vito Oltrebrenta. Una chiesa, tre condomini e qualche villetta su una strada lunga e dritta che spacca in due l’intero paese. Un bar da una parte e uno dall’altra, uno contro l’altro armati. Meglio: tutti contro tutti. Delinquenti locali, la sgangherata quanto spietata gang dei tosi, e mafiosi cinesi che nascondono i loro traffici loschi dietro il paravento di attività commerciali. A rompere il fragile equilibrio ci penseranno gli zingari, che ogni 13 giugno arrivano da ogni parte d’Europa per onorare Sant’Antonio (devoti, come sono) e profittano dell’occasione di festa per saccheggiare le case inabitate. Ma stavolta commetteranno l’errore di rubare nella villa sbagliata e da lì prenderà il via un’escalation di violenza, una girandola impazzita di ritorsioni e omicidi in una sorta di delirio collettivo. Fedele alla linea sugarpulposa, nel romanzo n
on manca il ricorso al dialetto, lingua principale dei protagonisti. Il che non significa che l’autore apprezzi l’idea leghista dell’introduzione del dialetto nelle scuole né dei test cui i professori “terroni” dovrebbero sottoporsi per iscriversi all’albo apposito. Anzi. «Intendiamoci, io parlo bene i dialetti veneti, ma insegnando lingua e letteratura italiana, non vedo perché dovrei sostenere un test in dialetto per poter svolgere il mio mestiere – puntualizza – e poi sarebbe come far fare un corso di volo a vela a un pescatore di trote. Anziché insegnare il dialetto ai docenti si insegni piuttosto l’italiano agli studenti, che qui parlano tutti il dialetto come prima e a volte unica lingua. Stesso discorso per l’inno nazionale, che non è un’acconciatura o un pullover che si possono
cambiare in base allo stato d’animo o alla convenienza politica del momento. La Lega fa male a strizzare l’occhio alla fascia più retrograda dell’elettorato e dimostra di non fare l’interesse del popolo. E sbaglia Feltri. Ho trovato del tutto fuori luogo l’attacco populista a Fini pubblicato sul Giornale – conclude – che mi è sembrato un disegno premeditato e ben preciso mirato a zittire l’unico politico del Pdl in grado di proporre una destra laica, moderna, liberale, europea, che è proprio quello di cui ha bisogno l’Italia in questo momento».




3 commenti:
Ottimo articolo, come il libro di Matteo del resto!
Molto interessante...
Grazie! :-)
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