lunedì 21 settembre 2009

Un regalo d'autore? Ricordare quando Bruce Springsteen non era ancora il "boss" (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 settembre 2009
La primavera del 1975. Venticinque anni che si avviano a diventare ventisei. Settembre è ancora lontano. Settembre è fin troppo vicino. Dipende da come la vedi di volta in volta. Dipende da come la senti. A proposito: come gli sta andando, a Bruce? Come gli va l’incisione del nuovo album? Va che è indeciso. Col nuovo produttore, Jon Landau, si trova benissimo, ma è come se stessero ancora cercando di capire cosa vogliono esattamente. Forse ci sono troppe possibilità tra le quali scegliere. Forse hanno tutti e due paura di sbagliare il colpo. Potrebbe essere fatale, arrivati a questo punto. Tre occasioni sono già parecchie. E non è detto che ce ne sarà anche una quarta.
I primi due album, Greetings from Asbury Park, NJ e The Wild, the Innocent and the E-Street Shuffle, erano stati buoni, ma non eccelsi. Affascinanti e incompiuti. L’equivalente artistico, in qualche modo, di una camera da adolescente. Pieni zeppi di cose eterogenee e disordinate. Alcune molto intriganti. Altre molto meno. O per niente. Le rotte prestabilite sono un obbligo per i marinai, mica per i ragazzi. Bruce si aggirava per il rock all’incirca come si aggirava per le strade. Andava di qua e di là per mescolare le carte e per scoprire dove cazzo erano finite quelle buone. Gli assi, i re, le donne, i fanti. I valori che sono degni di diventare stelle fisse, qualcuno che sia degno di diventare un modello esistenziale, le donne che vale la pena di amare, gli amici veri che vale la pena di frequentare a lungo – o addirittura per sempre. Andava di qua e di là per il gusto di muoversi e per la voglia di vedere se succedeva qualcosa. Tante cose non le puoi cambiare, ma la velocità con cui le attraversi dipende da te. L’intensità dipende da te. L’orgoglio, la sincerità, il coraggio, dipendono da te. Nello stesso stramaledetto lager, nella stessa stramaledetta periferia, nella stessa stramaledetta routine, c’è chi si trascina e chi sta dritto come un fuso. Oppure fa solo finta, di trascinarsi. Ma dentro di sé è forte e pericoloso e ironico come un hidalgo del miglior sangue.
Tanti altri si limitavano a guardare. Bruce osservava. Tanti altri si limitavano a chiacchierare. Bruce ascoltava. Tanti altri si limitavano a suonare per divertirsi. Bruce suonava per concentrarsi. Per afferrare la propria essenza. Valeva per lui e valeva per tutti. Se quelle stesse cose le dici a cena, e specialmente in famiglia, ti prendono per pazzo. Chi ti credi di essere? Chi te le ha messe in testa, queste idee così strambe, così esagerate? Se le dici su un palco, con la scusa dello spettacolo e il salvacondotto dell’arte, quelle stesse cose diventano lecite e affascinanti, e tanto più suggestive quanto più sono lontane dall’ordinario, tanto più necessarie quanto più sono capaci di trasfigurare la vita quotidiana ed innalzarla ad avventura, a romanzo, a ricerca del meglio di cui siamo capaci noi esseri umani. Noi esseri umani ancora vivi e non omologati.
Bruce sta crescendo, e intanto scrive canzoni. E le incide. E le porta in giro per l’America, affinché si facciano conoscere loro e, soprattutto, facciano conoscere il suo modo di interpretarle. E di concepire i concerti non come un lavoro, sia pure di natura artistica, ma come una passione. Non come un onere promozionale al quale sottostare, sia pure di buon grado, ma come una festa da godere insieme, coi musicisti e gli spettatori distinti nei ruoli ma accomunati nello spirito. Lanciati insieme nella corsa di questi show potenti e ben più lunghi del solito. Col tempo diventerà un’abitudine. Per adesso è una sorpresa, che si rovescia su un pubblico che ne sa ancora troppo poco e che, nella perdurante mancanza di un grande hit da classifica, potrebbe persino essere capitata lì per caso. Bruce Springsteen? Mai sentito. Ma perché non provare ad ascoltarlo, per una volta?
Bruce sta maturando, anche se non ha programmi precisi da seguire. La sua bussola è l’intelligenza. Però il vento che lo spinge è la curiosità – e la curiosità, ovviamente, è un vento assai mutevole. Come tutti quelli che vengono dal basso, e che non hanno fatto studi regolari fino ad approdare all’università, e infine a una laurea, ha i vantaggi e gli svantaggi dell’autodidatta. I vantaggi di chi pensa con la propria testa, al di fuori di sistemi teorici precostituiti e vincolanti. Gli svantaggi di chi rischia continuamente, e ingenuamente, di entusiasmarsi per qualcosa che gli appare come chissà quale rivelazione e che invece, purtroppo o per fortuna, è stato ridimensionato già da un pezzo.
Dove non accumuli certezze, però, accumuli esperienze. Se non sei inchiodato a lavorare tutti i santi giorni sei libero di andartene dove vuoi e di avvicinarti a gente diversa. Incroci le loro vite. Le osservi. Assorbi le loro parole e i loro gesti, quelli che si scambiano vicendevolmente e quelli che rivolgono a te. Se Springsteen è cresciuto così tanto, rispetto al ragazzo che era agli inizi, è proprio perché ha viaggiato in lungo e in largo. In senso fisico e intellettuale. La corsa sfrenata e senza meta di Born To Run – meravigliosa per un verso e nevrotica per l’altro (come tanti altri slanci della giovinezza, quando l’adolescenza si prolunga ben al di là dei diciott’anni) – si è trasformata via via in un’esplorazione più attenta e meditata. Magari ancora inquieta, specialmente all’atto della partenza, ma sempre più desiderosa di non tornare a casa a mani vuote, per poi ricominciare daccapo domani sera. O nel prossimo week end. Quando il motore bollente si sarà raffreddato e il serbatoio sarà di nuovo pieno.
Ma per il momento, nella primavera del 1975, Born To Run è di là da venire. Le canzoni prendono forma a poco a poco, tra momenti di splendido entusiasmo e altri di sconsolato ripensamento. Springsteen non ha ancora raggiunto né il grande successo né tantomeno la definitiva consacrazione. Springsteen è un giovane di belle speranze che non si risparmia, ma che non ignora affatto che quelle speranze potrebbero risolversi in nulla. Quello che gli serve è che la fortuna si innamori del suo talento e gli conceda di coltivarlo, e di sprigionarlo, ancora a lungo, per tutto il tempo necessario a trasformare in frutto anche l’ultimo seme.
Bene. Se lo vedete in giro fategli i nostri migliori auguri. Per oggi e per sempre.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

Nessun commento: