Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia del 16 novembre 2010
Un libro sulla famiglia attraverso il racconto di "una" famiglia d'Italia del Novecento, i Vanzina, i cineasti che hanno scritto e diretto alcuni dei più grandi successi della commedia all'italiana degli ultimi sessant'anni. Il titolo è semplicemente Una famiglia italiana (Mondadori, pp. 158, € 18,00).
E l'autore, Enrico Vanzina, si spiega subito: «Racconto - scrive - questa storia perché è una bella storia. Quella di una famiglia per certi versi privilegiata, ma per altri versi semplice, normale. È una storia di sentimenti, di sogni realizzati ma anche svaniti, di dedizione al lavoro, di rimpianti, di umorismo, di dolori profondi. Una storia che attraversa la storia recente del nostro paese, ricostruendo gli umori di un'Italia complicata e contraddittoria, ma anche meravigliosa. Intorno, una miriade di personaggi straordinari, attori, scrittori, pittori, registi, ma non solo, una lunga lista di uomini e donne celebri e no, ricordata attraverso la lente dell'amicizia». E come in ogni famiglia italiana d'un tempo il primo incontro è quello con l'album dei ricordi, quella raccolta di fotografie che ti venivano illustrate e commentate nel salotto per farti capire chi ti trovavi di fronte, quella precisa rete di storie e percorsi incrociati. Non a caso, al centro di questo bel libro ci sono ben 62 fotografie in bianco e nero che attestano questa condivisibile visione delle cose. "Where there is a child's family" (dove c'è un bambino c'è una famiglia) è lo slogan che da qualche tempo sta facendo giustizia di una visione delle famiglie come monadi mononucleari, chiuse in se stesse, non comunicanti sia nel senso delle generazioni precedenti sia di quelle successive e soprattutto con la pretesa dell'autosufficienza. Come a dire una famiglia sarebbe un'identità giuridicamente certificata e considerata "naturale" solo in quanto costituita da un papà, una mamma e da uno o due figli. E stop. Una visione maledettamente triste e, al di là della retorica valoriale con cui è di solito codificata e celebrata, espressione di una società che ha perso la dimensione della memoria e del futuro. «Guai all'uomo solo» dice la Bibbia con una massima che nessuno dei neo-convertiti all'ateismo devoto e al familismo retorico da "Family Day" ricorda mai all'occasione. No, pensiamo noi, c'è una famiglia alle spalle e di fronte a qualsiasi bambino e il libro di Enrico Vanzina ce lo spiega raccontandolo attraverso gli occhi di quel bimbo che è stato il suo autore. Lo dimostrano le fotografie di lui paffutello e sorridente insieme a suo papà Steno, a sua mamma Maria Teresa, al suo fratellino minore Carlo, ai padrini di battesimo Age e Marcello Marchesi, agli amici "di famiglia" Totò e Alberto Sordi.
Una famiglia intesa così, nel senso autentico e caldo di una rete di relazioni che ti orienta nel mondo, che è la tua particolare prospettiva nell'esistenza, e non ti fa sentire solo e abbandonato, è di per sé "allargata". Ed Enrico sente di raccontarli tutti, come meritano, i personaggi importanti di questa sua (e nostra) idea della famiglia. Compresi due ragazzi che hanno un altro cognome: Marco e Virginie. «Marco di cognome fa Sanguinetti, Virginie fa Marsan. Lui è biondo, figlio - scrive Enrico - figlio della mia bionda moglie tedesca. Lei è mora, nazionalità monegasca, figlia della morte di Carlo, Lisa Melidoni...». Per Carlo c'è stato infatti un secondo matrimonio da cui sono poi nate Isotta e Assia. Ed Enrico, che non ha avuto figli propri sente comunque fortissimo il legame familiare con tutti loro: «Le mie due nipotine mi hanno fatto sentire vivo come non lo ero mai stato. Anni dopo, poi, nasce Sveva, la figlia di Marco, e questa precisa sensazione si ripete...».
Pur se divisi da una situazione difficile, Vanzina inserisce nella sua famiglia anche Aldo Sanguinetti, il primo marito di sua moglie, «perchè - ribadisce - nelle storie di una famiglia, prima o poi entrano altre famiglie». Nella ricostruzione della sua lunga cronaca familiare, fatta soprattutto di tanti e tanti debiti di riconoscenza, Enrico ci tiene comunque a sottolineare chi è stato ed è il suo «compagno di vita più fedele», ovvero suo fratello Carlo con cui condivide quasi tutto da sessant'anni. Lui è nato a Roma nel 1949, suo fratello due anni dopo e da allora sono un po' tra di loro come i due amici del cuore. «Ci sono poi persone - leggiamo - che fanno parte della tua famiglia ma tu te ne rendi conto solo a distanza di tempoi, dopo molti anni. A me - osserva Enrico - è successo con Guareschi. In casa nostra era un mito. Papà lo aveva conosciuto a Milano, credo insieme a Cesare Zavattini. Ne parlava spesso in casa. Lo considerava uno scrittore di grandissimo livello. Noi ragazzi, però, eravamo più portati a frequentare la letteratura straniera: i grandi romanzieri russi, gli americani, i narratori stranieri...». Poi, di recente, Enrico si accosta ai romanzi guareschiani e deve ammettere: «Mi piace, Guareschi. È spiritoso e sempre imprevedibile. Nelle famiglie italiane c'è molto di più di quello che sembra essere stato conservato nella memoria. E alla fine tutto ritorna a galla».
Sullo sfondo, la presenza del capostipite, di quello Stefano Vanzina che, nato nel 1917, arriva a Roma da Arona, sul lago Maggiore, a tredici anni con la mamma dopo la morte prematura del padre. Quindi il liceo al Mamiani e, a vent'anni, l'assunzione al Marc'Aurelio, la rivista satirica degli anni '30, dove con lo pseudonimo di Steno fa il segretario di redazione, scrive testi e disegna vignette. E quando anche un giovanissimo Federico Fellini arriva a Roma dalla sua Rimini, Steno lo assume come disegnatore: «E così fu sempre Fellini a essere riconoscete nei confronti di papà per avergli trovato il suo primo lavoro a Roma...».
Steno, dopo aver firmato e realizzato capolavori della commedia all'italiana come Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Guardie e ladri, Febbre da cavallo, morirà ancora giovane il 13 marzo 1988: «Da ventidue anni - si legge in Una famiglia italiana - viviamo senza di lui. O meglio, cerchiamo di vivere senza di lui. Perché la sua presenza, affettiva e umana, era il centro della nostra esistenza». Nel libro si ricorda la volta in cui, per tutta una giornata, anche suo papà pianse: «Il giorno il cui morì il suo grande amico Leo Longanesi. Si chiuse in salone, tirò giù le persiane e rimase tutto il pomeriggio da solo, al buio. A piangere». Lo stesso ricordo personale di Enrico è ancora vivo: «Tra i grandi amici di papà, quelli che ci tennero sulle ginocchia, il più affascinante era proprio Leo Longanesi. Tanti italiani intelligenti del secolo scorso hanno affermato che fu l'italiano più intelligente tra gli intelligenti. A sostenere questa tesi furono Indro Montanelli, Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati. Passare una serata con Leo era un dono di Dio. Quell'omino piccolo, immensamente colto, che fu scrittore, giornalista, caricaturista, pittore, editore, era di uno spessore così profondo che ancora oggi risulta attuale...». Non a caso anche Steno, un vero liberale, «nel dopoguerra fu non-comunista, avendo capito prima di altri che la dittatura del proletariato portava inevitabilmente alla dittatura tout court. E in vita fu ostaggiato dai cattolici integralisti e dai massimalisti di sinistra».
Enrico, della sua famiglia, ci tiene a dire soprattutto una cosa: «Abbiamo sempre amato l'Italia». In una sintesi davvero tutta italiana: «La nostra era una famiglia religiosa ma anche profondamente laica. Mamma era un po' papalina. Papà era profondamente scettico, non se la faceva molto con i preti. Sopportava con fastidio i comunisti, ma allo stesso modo anche i democristiani. Ma la domenica, insieme a mamma, Carlo e io andavamo in chiesa. Io poi sono diventato credente a quarant'anni. Carlo è sempre stato un fervente praticante». E anche tutto questo può rientrare a suo modo nelle apparenti contraddizioni della nostra identità italiana. «Pensavo di cambiare un po' il mondo, poi - conclude Enrico - il mondo ha cambiato me. Però lo ha fatto in maniera gentile. Senza farmi diventare troppo diverso da quello che, tutto sommato, speravo di riuscire a essere. Un ragazzo italiano, semplice, generoso, coraggioso, che cerca d'imparare da quelli più intelligenti e migliori di lui». Uno di noi, un italiano gentile.
Luciano Lanna
1 commento:
Due sole piccole cose.
Anch'io ho il mio bell'album di foto in bianco e nero della mia famiglia a cui tengo moltissimo, soprattutto oggi che dei 5 membri, di cui era composta, siamo rimasti soltanto in due, io e mia sorella (mio padre, mia madre e la mia sorella maggiore hanno da tanto tempo iniziato l'"altro cammino").
Poi volevo tributare il mio omaggio personale al grande Steno, padre dei due Vanzina dei giorni nostri. I film citati da Lanna li amo tantissimo, li vedo e li rivedo senza stancarne mai e in qualche modo mi riportano con dolce nostalgia agli anni lontani di mio padre e mia madre giovani sposi e le mie sorelle piccole, ancor prima che io nascessi nel 1959. Grazie Maestro Steno!
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