Articolo di Michele De Feudis
Dal Secolo d'Italia del 16 novembre 2010
Sentimenti privati, umani-troppo-umani, nel mondo crudele del calcio business. La storia di Agostino Di Bartolomei può esser riletta solo riportando indietro le lancette degli orologi e sfogliando gli album Panini degli anni Ottanta, alla ricerca del volto sobrio di un capitano vero, di un calciatore tutto d'un pezzo, poco incline ai compromessi nei corridoi delle società ed agli intrecci oscuri che dettano le fortune degli atleti una volta appese al chiodo le scarpe bullonate. L'ultima partita, con l'eloquente sottotitolo Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei (Fandango, pp 210, € 10,00), è un racconto biografico, delicato come un acquerello, firmato da Giovanni Bianconi e Andrea Salerno.
Ripercorre le dolorose vicende di un calciatore che - dirà a caldo la moglie Marisa - «l'ha ucciso il cinismo che ormai s'è impadronito del calcio». Tra le pagine risalta la disperazione, straordinariamente attuale, di un uomo al quale una banca non ha concesso il mutuo, mentre la guerra per far quadrare i conti sembrava prendere una brutta piega, fiaccando le ultime resistenze, quelle che possono allontanare il pensiero di farla finita.
Giorgio Tosatti, firma storica del giornalismo sportivo, ne tracciò così il ritratto sul Corriere della Sera: «Era un amico, di quelli veri. Chiuso, sovente accigliato, inquieto: difficile strappargli una parola, figurarsi un sorriso. Si portava dietro una timidezza mai vinta, un pudore che gli rendeva impossibile esprimere i suoi sentimenti, sfogarsi. Troppo orgoglioso per mostrarsi debole, abbarbicato com'era al personaggio cucitosi addosso in campo e nella vita: un capo, l'uomo capace di caricarsi sulle spalle le responsabilità di tutti, squadra, compagni, amici». Sebino Nela, sulle gradinate dello stadio San Nicola, si commuove al ricordo di un compagno di squadra diverso dagli altri: «Era roccioso, vero, aveva grande carattere e personalità. L'incarnazione del capitano». Scriveva ancora Tosatti: «Quando il Liverpool sbagliò il primo rigore, in quella maledetta finale di Coppa Campioni, dieci anni fa esatti, 30 maggio 1984, mentre Falcao si defilava e Graziani era tutto tremante, non aveva messo lui la palla sul dischetto portando in vantaggio la Roma? Orso, brontolone, troppo invecchiato da un'esistenza difficile per far baldoria con i compagni ed esserne veramente amato. Ma, se qualcuno aveva un problema, faceva l'impossibile per risolverglielo. Perché era buono, generoso, e gli piaceva atteggiarsi a boss: la prova della strada fatta, lunga, dura, spinosa. Ma aveva raggiunto il traguardo: capitano della "sua" Roma, di uno scudetto atteso quarant'anni.
La gente gli voleva bene, lo chiamava familiarmente "Ago", ne ammirava la dedizione totale, francescana al calcio. Era uno di loro, dei tanti ragazzini cresciuti nei campetti di periferia. Il simbolo di ciò che avevano sognato, la bandiera di casa. L'amore della gente gli illuminava gli occhi, lo scaldava. Credeva sarebbe durato per sempre».
Invece, terminata la carriera, inizia un capitolo pieno di difficoltà, e di silenzi, di tanti "vedremo", pronunciati con superficialità dai protagonisti di un mondo del calcio avvelenato dal dio denaro. Pugnalate nel cuore debole di chi avrebbe desiderato continuare a coltivare la speranza di ritornare il punto di riferimento in un ambiente nel quale aveva vissuto tutta la vita.
La parabola di Di Bartolomei si ritrova anche nel primo lungometraggio del regista Paolo Sorrentino, L'uomo in più, nel quale descrive le vite parallele di un noto cantante (Toni Servillo) e un noto calciatore (Andrea Renzi). «Nel 1980 - scrisse Maurizio Cabona recensendolo su Il Giornale - sono ricchi e famosi, nel 1984 sono poveri e dimenticati. Il più giovane, il più onesto, il più introverso è anche il più fragile: messo ai margini del grande calcio da un incidente, poi dimenticato, si uccide. (...) La cronaca è piena di spunti, per chi vuole prenderne. Intrecciando i destini di Franco Califano, Fred Bongusto, Agostino Di Bartolomei, Carlo Petrini e Beppe Savoldi nei suoi due Pisapia, Sorrentino regola un po' di conti grazie alla mano armata di Servillo. È solo un film, ma è meglio che niente».
L'ultima partita si sviluppa sulla coincidenza di due date, la finale di Coppa Campioni del 30 maggio 1984 e il suicidio di Di Bartolomei, il 30 maggio del 1994, dieci anni dopo, con il primo governo Berlusconi da poco in carica (Ago partecipò fiducioso alla prima convention del Cavaliere al Palafiera), i colpi di coda di Tangentopoli e la fine tragica di Raul Gardini. Il ricordo di quella notte all'Olimpico, quando avrebbe potuto salutare il popolo giallorosso sollevando al cielo la Coppa più ambita, rimase sopito a lungo nell'animo di Di Bartolomei, e si materializzò in uno sparo feroce come il fischio di un arbitro, il fischio dello svedese Fredriksson che sancì la vittoria del Liverpool, campione d'Europa. Marisa Di Bartolomei, tra le carte del marito, in una agenda ritroverà due immagini: un santino di padre Pio, il frate al quale il calciatore era devoto, e una fotografia della curva sud in festa, piena di bandiere e colori. Dietro la foto, la dedica di un gruppo di tifosi giallorossi: "Roma-Liverpool, 30 maggio 1984. Al nostro grande ‘Diba', che sarà sempre il nostro capitano".
Michele De Feudis
2 commenti:
Bellissimo.....commovente...
......grande Ago!sono interista, ma anche io me lo ricordo cosi': duro ma sensibile, sempre imbronciato, a suo agio solo solo coi personaggi veri e coi suoi tifosi, lontano dai potenti e dai giochi di plazzo........forse anche per questo si e' sentitto abbandonato da tutti.
saro' anche di parte perche' io porto il suo nome ma lui era proprio cosi'!
Agostino
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