Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia di oggi
Ieri presagivamo che la richiesta di firme contro Roberto Saviano, promossa da il Giornale avrebbe avuto grande successo. «E la risposta – apprendiamo oggi dalle pagine del quotidiano di Feltri e Sallusti – c’è stata subito. Migliaia e migliaia di lettori hanno aderito». Ripeto, non avevamo dubbi: gli italiani sono un popolo di firmaioli. Il che, poi, in assoluto non sarebbe neanche un male.
Infatti, per dirla con il filosofo Norberto Bobbio, la raccolta firme è una forma di aggregazione della domanda politica diverso da quello rigido dei partiti e che può consentire combinazioni politiche non convenzionali. Ahi per lui, forse prese un po’ troppo alla lettera questo suo convincimento tanto che, nel 1971, mise, molto maldestramente, una firma di troppo proprio sotto un appello di questo tenore: «Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Oggi come ieri il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni». Parole pesanti, scritte dalla brillantissima penna di Camilla Cederna sulle pagine di Lotta Continua e poi riprese, con richiesta di firma, dal settimanale L’Espresso, il 13 giugno 1971. Meno di un anno dopo, Luigi Calabresi verrà assassinato da un gruppo di fuoco comunista.
Non furono pochi degli ottocento firmatari, fra cui molti illustrissimi nomi della cultura italiana, che videro un nesso di causa effetto fra quelle loro firme e il delitto che si consumò. E molti ritrattarono. Norberto Bobbio, pur riconoscendone l’orrore, non ritrattò. Attirandosi così l’accusa di un giornalista di essere il «mandante morale dell’omicidio Calabresi». Quel giornalista era Vittorio Feltri. Ma sì, proprio lui. Il direttore editoriale de Il Giornale che ora ha preso l’iniziativa delle firme contro Saviano.
Saviano, di mestiere farebbe lo scrittore. Dico: farebbe perché da quando ha pubblicato il romanzo Gomorra, è costretto, purtroppo, a fare soprattutto il bersaglio umano della precisissima fucileria camorrista. Non è, insomma, nella comoda situazione di sentirsi al sicuro, mai. Vive blindato e sotto scorta, è vero. Ma se vive in questo stato è perché corre dei rischi reali. A nessuno viene in mente che “firmargli contro” significa isolarlo e aumentare il pericolo? Vale per i direttori del Giornale, ma anche per le «migliaia e migliaia di lettori» che stanno sottoscrivendo la petizione. Sono proprio sicuri, i petizionisti, che il gioco delle firme valga la candela? Mettere una firma non costa niente. Vedere il proprio nome pubblicato da un prestigioso quotidiano quale è Il Giornale, può essere anche gratificante. Pensare di aver subito un torto da Saviano e sentire il bisogno di protestare con una firma, può essere pure giustificabile. Ma qui non è in gioco solo la reputazione letteraria o l’opinione politica di uno scrittore: qui a ballare è la vita di una persona. E non avvertono la sproporzione fra l’eventuale peccato di opinione commesso da lui e la pena di fargli pagare con maggiore isolamento il già di per sé duro stato di clandestinità in cui è costretto a vivere?
C’è uno scrittore al quale, all’epoca del comunicato contro Calabresi, fu chiesto di sottoscrivere quel documento. E rifiutò. Si tratta di Giampaolo Pansa. Evidentemente, quella vicenda in qualche modo lo ha segnato. Tanto da indurlo a ripercorrerne il travaglio in un capitolo del suo ancora recente saggio storico Il revisionista (Rizzoli, 2009). Ne riportiamo alcuni passaggi illuminanti per analogia: «Ero incalzato da colleghi che mi chiedevano la firma... Mi rifiutai sempre di firmare quel testo. Per due ragioni. La meno importante è che di solito non aderisco ad appelli, a petizioni pubbliche, a dichiarazioni collettive. Non mi va di ritrovarmi al fianco di persone che non conosco… Il secondo motivo, ben più pesante, era che mi ripugnava la descrizione di Calabresi: “il commissario torturatore” e “il responsabile della fine di Pinelli”… Prima che dai proiettili del suo killer, Calabresi venne accoppato giorno dopo giorno da una parte della stampa, da migliaia di manifesti, da centinaia di comizi, da molti spettacoli teatrali. Era una tempesta di fango… Il 17 maggio 1972, all’età di trentaquattro anni, il commissario senza pistola venne assassinato. Lotta Continua aveva eseguito la sentenza emessa all’inizio del 1970. Saranno stati felici i tanti firmatari del verdetto? Non lo so e non m’interessa saperlo. Quello che so è che non ho difeso Calabresi come avrei dovuto. E provo vergogna di me stesso».
Miro Renzaglia
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