giovedì 18 novembre 2010

Luca di Montezemolo, quel laziale un po' missino che diventò tycoon (di Italo Cucci)

Articolo di Italo Cucci
Dal Secolo d'Italia del 18 novembre 2010
Dopo la caduta di Abu Dhabi, ho conosciuto il miglior Montezemolo: quello che nei duri anni Settanta, poco più che ventenne, laziale e un po' missino, aveva appreso dal Vecchio di Maranello anche l'orgogliosa difesa della sconfitta.
Nelle vittorie del Nuovo Millennio - peraltro numerose e importanti - m'è parso meno vero, quasi truccato per i media: Luca Superstar, il megapresidente di Fiat, Ferrari, Confindustria, Luiss; il tycoon fascinoso, il paparissimo, il guru mediatico, il supermanager più pagato d'Italia, l'uomo di ItaliaFutura, il Divo dell'Impresa sempre più simile - nell'immagine - all'Avvocato, sempre più lontano dallo stile ruvido, dal pragmatismo e dall'imbarazzante cinismo del suo primo grande maestro di vita.
Enzo Ferrari l'aveva introdotto nell'unico mondo che gli ha dato il successo vero, sostanzioso, un ruolo attivo così diverso dai lustrini della vipperia alla quale era approdato proprio dopo aver lasciato la fabbrica di Maranello per la potenza di Torino e le facili glorie romane, diventando di lì a poco un capriccio per signore, una copertina di Capital, il mitico Liberaebella davanti al quale s'inginocchiavano Dive & Lecchini. La sua pacata ma dura ribellione alle critiche degli smemorati italiani e dei somari padani mi ha fatto ricordare - perché ne fui anche giustamente vittima - la sorda rabbia del Drake che spaziava dalle fole dei gazzettieri alle prediche dei gesuiti quando ai lutti umani - i piloti perduti su piste e strade - s'assommavano i lutti sportivi, fors'anche cinicamente più sentiti. A me - che l'avevo accusato di crudeltà dopo la morte d'Ignazio Giunti - disse, tirandomi addosso parole come schiaffi: «Come osa? Lo sa lei chi sono i tre italiani più ammirati del mondo? Mussolini, Fellini e Ferrari». Agli altri critici - numerosi ma spesso lontani - neanche rispondeva o aspettava la grande conferenza stampa di fine anno cui accorrevano giornalisti famosi da tutto il mondo magari per farsi masochisticamente frustare dal Vecchio purché li chiamasse per nome e desse mediatico risalto alle loro banali infamie.
Preferiva, all'istante, dopo una sconfitta, affidare al caro Gozzi la diffusione dei dati di vendita e di fatturato della Divina Rossa - gioiello reale della Fiat "popolare", miracolo mondiale permanente come la liquefazione del sangue di San Gennaro - o il breve comunicato sull'ultima visita di rango. Ha perso per vent'anni, Enzo Ferrari, ma un giorno un imperatore come Hiro Hito, un giorno uno scià come Reza Pahlevi, o un re come Juan Carlos o un presidente come Sandro Pertini, o un papa come Giovanni Paolo II che volle essergli vicino poco prima che la morte lo ricongiungesse a Dino: bene, fra Maranello e Fiorano era un susseguirsi di visite illustri, e se è vero che i Grandi del Mondo esaltavano il superego del riveritissimo Grande Vecchio Ferrari, altrettanto se non più gradite erano le brevi ma significative apparizioni di tycoon e sceicchi che pregavano di poter acquistare una Ferrari, l'unico bene che ancor gli mancava. Proprio come adesso: ecco perché Luca può respingere al mittente l'accusa di fallimento rivolta non tanto e non solo a lui - comunque titolare dell'ultima fottuta strategia - ma alla Fabbrica che meglio rappresenta da decenni l'Italia nel Mondo.
Quando il Vecchio se ne andò, il ferragosto dell'Ottantotto, lasciò intatta la gloria del Cavallino Rampante anche se la macchina non sapeva ancora vincere com'era successo fra il '75 e il ‘77, grazie a Niki Lauda, ai bei tempi in cui Luchino sognava; ed era toccato proprio a Luca Cordero di Montezemolo (quello che nel calcio era riuscito solo a far nascere un Mondiale, ma non a far rinascere una squadra come la Juve) rinverdire nel secondo millennio le antiche glorie ferrariste grazie a un altro "tognino", Michael Schumacher, e a un francese, Jean Todt, che sarebbe piaciuto al Vecchio, sognatore di notti parigine più che di pomeriggi romani. Lo deliziava - ricordo - la dolce e maliziosa parlata di Edwige Fenech che s'era lasciata conquistare da un Montezemolo ormai perduto nel paradiso dei vip: un giorno - eravamo nell'ufficio del Drake, a Maranello - si fece chiamare Luca al telefono con la scusa di chiedergli notizie di Torino e alla fine, ridacchiando, gli chiese «Come sta l'Edwige?». Poi si rivolse a me: «Dicano quel che vogliono ma se una donna così bella e intelligente s'è innamorata di lui non può essere soltanto per la fama che si porta dietro...» - e giù una bella grassa risata, nel suo stile di vecchio impenitente dongiovanni.
Da quando è tornato in Ferrari, Luca di Montezemolo è diventato - forse inconsapevolmente - sempre più simile al Grande Vecchio soprattutto quando è nella Fabbrica e parla della Fabbrica: guai a toccargli le sue donne e i suoi uomini, gli operai , i tecnici, tutti quegli artisti che, proprio come Enzo Ferrari, considera la più bella famiglia del mondo; guai a metterne in dubbio - soprattutto - la Virtù Italiana di operosità, bravura, fantasia e il primato della Marca sul Pilota, su tutto il mondo dell'automobile, Formula uno compresa. Come ha ben capito l'ex Giovin Signore di Montezemolo, terra sabauda, soprattutto perché lui è nato a Bologna, capitale della terra dei motori, degli amori e della puletica, ultima sua passione. Come ci insegna il grande poeta Pevol Borghi, "I pinsir pr'e' temp lèbar j'è dvent môda / nenca fra i nost puletic itagliân / ch'i fà di gvìran che tot quènt i-i lôda / mo dop un pô i s'artrôva mân int al mân, / quând ch'e' suzéd che on di su u-s j'arvôlta / e u i fa sbrisê' long stìs com' int na sciôlta ( Questo tipo di crucci è ormai di moda / anche in grembo al politico italiano / che fa governi che ciascuno loda / ma in breve si ritrova mani in mano/ quando uno dei suoi che si rivolta / li fa slittare come su una sciolta).
Italo Cucci

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