Articolo di Michele De Feudis
Dal Secolo d'Italia di giovedì 11 novembre 2010
Nessun ticket per Roberto Saviano. Né con Vendola, né con Fini. Lasciamo fuori l'autore di Gomorra dalle dispute di palazzo, distante da chi vorrebbe incasellarlo sfidando il grottesco. Nessun ticket per Saviano. Mettergli una casacca partitica ridurrebbe una volta per tutte l'effetto scompaginante delle sue parole e del suo coraggio civile.
Il tentativo di intrupparlo, però, arriva periodicamente da sinistra (ieri l'idea è stata riproposta e argomentata da Sandra Amurri su Il Fatto quotidiano), complice anche una cronica debolezza di leadership dell'opposizione, e questa mania procede di pari passo con il cannoneggiamento bipartisan che gli riservano il manifesto, Libero e Il Giornale. Mai come adesso il nostro paese, invece, ha bisogno di intellettuali liberi, che abbiano nel cuore il fuoco della scoperta e dell'eresia, come postulato da Drieu, per «andare al di là dell'avvenimento, tentare cammini rischiosi, percorrere tutte le strade possibili: è l'unico modo per andare dove non c'è nessuno». Oltre la destra e la sinistra, per cambiare l'Italia, anche con le armi della parola e della scrittura.
Eppure Saviano a destra ha tantissimi sostenitori, risveglia e codifica con un lessico moderno istanze tipiche di un certo ribellismo. La cultura di riferimento dello scrittore napoletano è piena di costanti richiami ad autori del pensiero nel quale si è consolidata la destra italiana nel novecento, da Ezra Pound a Julius Evola, fino a Ernst Jünger. Non è un caso che proprio la sua luminosità da irregolare abbia realizzato quello che Giovanni Raboni sul Corriere della Sera considerava qualche anno fa (nel 1998) un auspicio, cioè «permettere finalmente anche a chi "si sente" di sinistra e non di destra (non troppo diversamente, ormai, da come uno "si sente" interista e non milanista) di amare liberamente, senza dover ricorrere a complicati sotterfugi e, soprattutto, senza maturare angosciosi complessi di colpa, i grandi scrittori del nostro tempo che la cultura (o, se si preferisce, l'opinione comune) di sinistra ha sempre considerato di destra se non addirittura di estrema destra, da T. S. Eliot a Gottfried Benn, da Pound a Celine...». Ecco, Roberto ci è riuscito, e non ha mai nascosto le forti ascendenze jungeriane nelle sue pagine: «Adoro Jünger perché è un raccontatore di realtà, un reporter letterario della guerra come nessun'altro. In Tempeste d'acciaio ha raccontato la prima guerra mondiale come un'apocalisse, come nessun altro. Io qui (nel mini racconto Il contrario della morte ndr) l'ho usato come modello letterario per raccontare una guerra che io vedo nei reduci ovviamente». Poco importa che queste citazioni lo rendano insopportabile per conformisti come Vincenzo Consolo, ligi ad allinearsi a superate ortodossie. Del resto le radici di Saviano sono nella poesia e nella prosa civile che diventa "politica" in senso alto, incarnando la reazione all'omologazione, il sussulto di dignità contro il pressapochismo e la sciatteria delle classi dirigenti.
Immaginare Saviano costretto ad abbandonare la scrittura per una riunione di una fantomatica maggioranza è un oltraggio all'arte. I riti della partitocrazia sono sempre stati la tomba del genio creativo. Soprattutto perché quello di Roberto è genio irregolare, pieno di contaminazioni e contraddizioni, come scrisse in un breve racconto, L'Asse meridiano non esiste: «Quando ero ragazzino mi piacevano i repubblichini, quelli vecchi del Msi che la Repubblica Sociale l'avevano letta solo sui giornali, ma nel mio paese non facevano altro che raccontarsi leggende e storie fuori dalla sede di partito non avendo altro raggio d'azione che la strada di casa, la piazza e il circolo politico. E poi mi piacevano i comunisti più radicali. Non i fessi reduci delle Brigate Rosse degli anni ‘90 ma i trotzkisti che parlavano di rivoluzione permanente e mondiale, che sputavano sui manifestini di Mao dei marxisti-leninisti e parlavano di Stato Socialista Deformato, e poi gli anarchici, che qualcuno chiamava insurrezionalisti. (...) E mi porto questa simpatia per gli sfasciatori da ancor di più. Una sorta di sfida a ciò che ho fatto al fianco del resto: scrivere. E scrivere mi sembrava una sorta di delega al vivere, un tradimento al respiro, un agguato ai muscoli, una menzogna verso la responsabilità. E per chi nasce come me in certi territori, scrivere era l'ultima cosa che poteva dare fiducia nel mutare tutto quanto ci fosse intorno, dal viso di tua madre al Palazzo del Comune». La carica inafferabile proprio della parola è invece diventata un'arma potente per "cambiare le cose", per non arrendersi a un'Italia anestetizzata e violata dai riti che ricordano la decadenza di fine impero. Per questo, al fine di scoraggiare una volta per tutte gli arruolatori di Saviano e i suoi imperterriti detrattori, sottoscriviamo questo ritratto dello scrittore napoletano vergato da Pietrangelo Buttafuoco: «Va avanti, è generoso, cerca negli altri quello che lui stesso ha assaporato: la libertà di pensarla sempre fuori da ogni schema. Può non piacere ma è un eroe».
Michele De Feudis
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