Articolo di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia del 27 novembre 2010
«I don't want to grow up». Non è difficile credere ai Ramones quando, vestiti coi soliti giubbotti neri ma immersi in un mondo di cartoni animati, cantano, appunto, di non voler crescere mai. Un auspicio, ma già quasi un rimpianto nostalgico, contenuto non a caso in ¡Adios Amigos!, l'ultimo album di inediti registrato in studio dalla punk band. Il brano, in realtà una cover della canzone omonima di Tom Waits, potrebbe essere catalogato sotto la classica etichetta clinica della "sindrome di Peter Pan". Ma è solo una delle infinite riemersioni del mito del fanciullo volante, selvatico e refrattario a ogni autorità costituita.
All'eroe creato da James Matthew Barrie hanno dedicato un'interessante volume Paolo Gulisano e Chiara Nejrotti. Il saggio, intitolato Alla ricerca di Peter Pan (Cantagalli, pp. 167, €14,50) ripercorre tutti i temi ricorrenti del mito del fanciullo eterno che, soprattutto in seguito al lungometraggio animato realizzato dalla Disney nel 1953, non ha smesso di popolare l'immaginario collettivo. L'eroe ragazzino era nato mezzo secolo prima, cioè esattamente nel 1903, con il romanzo The little white bird, in cui Peter compare sulla scena per la prima volta. L'anno dopo debuttava a teatro Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere. Nel 1906, poi, l'editore del primo romanzo estrasse da L'uccellino bianco i sei capitoli relativi al protagonista, titolandoli Peter Pan nei Giardini di Kensington.
Il successo fu immediato, tanto da influenzare pesantemente la cultura novecentesca. Con delle contaminazioni insospettate: «Nell'aprile del 1910 - si legge nel saggio di Giulisano e Nejrotti - un ragazzo di diciotto anni di Birmingham andò a teatro ad assistere alla rappresentazione dell'opera di Barrie; si chiamava John Romald Tolkien, il futuro autore del Signore degli anelli, il capolavoro assoluto della moderna narrativa dell'immaginario. Nel suo diario di adolescente Tolkien scrisse quella sera che quella storia era qualcosa di incredibile e che non se la sarebbe mai dimenticata. Un po' di Peter Pan, delle sue atmosfere, dei suoi ideali, dei suoi sogni, c'è dunque anche tra gli Hobbit e nella Terra di Mezzo». Nella prima versione, Peter è un neonato che ancora conserva memoria della sua precedente da vita da uccellino - provenienza che l'autore suggerisce essere quella di tutti i bambini. Ribellandosi alla sua nuova condizione, l'infante fugge di casa e vola fino ai giardini di Kensington. Qui prova a vivere come un uccello, appunto, ma ben presto si accorge che non può più sopportare quella vita. Il messaggio non è banale: tutti noi ci evolviamo, cambiamo, cresciamo. L'eterna giovinezza in senso letterale, esteriore, è impossibile da raggiungere. Quello che possiamo fare è re-inventarci continuamente la nostra maturità. Mantenere un pizzico di follia, di creatività, di gioia in qualsiasi età della vita. «Barrie - scrivono gli autori - sembra suggerirci che l'uomo non può trascendere la propria condizione né ritrovare pienamente l'identità con la natura; può soltanto scegliere di vivere in una sorta di mondo intermedio: rifiutando la banalità e la prosaicità della realtà (il rifiuto di crescere), ma senza poter rivivere del tutto l'innocenza originaria». Insomma, Barrie non si rivolge ai bambini per ammantare di tinte fosche la maturità che essi hanno di fronte nel loro cammino verso l'età adulta, quanto piuttosto agli uomini fatti che non devono fraintendere mai le responsabilità sorte con l'età con il grigiore della banalità quotidiana. Non è infantilismo, beninteso: un uomo che si atteggia a bambino non è creativo, è solo ridicolo. E questo, in effetti, è il punto debole di Hook - Capitan Uncino, la trasposizione cinematografica del 1991 diretta da Steven Spielberg, dove Robin Williams nei panni dell'avvocato cinico e anaffettivo che si riscopre a 50 anni il bambino eterno nemico di Capitan Uncino (interpretato da Dustin Hoffman) sembra effettivamente un pesce fuor d'acqua. O, meglio, rimane se stesso: l'attore giullare e sopra le righe, sempre più orientato verso la macchietta. No, Peter Pan non è questo. È la vita come avventura, la ricerca della novità, il piacere della scoperta. La poetica del fanciullino di Pascoli è ovviamente il riferimento più scontato, ma forse è il puer aeternus di James Hillman che ci aiuta di più a comprendere dove Barrie vuole andare a parare. Del resto dello psicologo junghiano più famoso dei nostri tempi resta celebre il Saggio su Pan, in cui la figura del dio greco con i piedi da caprone viene utilizzata per spiegare l'aspetto più orgiastico della nostra psiche. «Senza di lui le pietre diventarono soltanto pietre, gli alberi, alberi», dice Hillman. Che è poi la stessa cosa che accade ai giardini di Kensington: per gli adulti si tratta solo di un parchetto inoffensivo, un'oasi di verde nel caos cittadino dove passare la pausa pranzo, poi arriva l'orario di chiusura e tutti a casa. Nel racconto originario di Barrie, invece, i giardini sono il volto palese di un mondo meraviglioso che di giorno è in sonno ma di notte prende vita con fate e folletti. Solo il cinismo degli adulti vede dietro agli alberi e alle pietre solo alberi e pietre, mentre la fantasia creativa dei bambini va oltre e vede ciò che c'è dietro. Ed è proprio alla divinità ferina, dispettosa e ribelle che Barrie fece ricorso per dare il nome al suo eroe, fondendo tradizione classica e i tipici fairy tales, i racconti di fate celtici.
Del resto l'eroe uscito dalla penna dello scrittore scozzese ha avuto molta fortuna anche e soprattutto nella cultura pop. In questo senso non possiamo non ricordare il film Peter Pan del 1924, diretto da Herbert Brenon; i già citati lavori della Disney e di Spielberg: l'anime omonimo prodotto del 1989 dalla Nippon Animation; un fumetto risalente al 1990 del francese Regis Loisel (ma Peter è comparso un paio di volte persino in Dylan Dog); di nuovo un film del 2003 diretto da P. J. Hogan e persino un musical prodotto nel 2006. A tutto ciò si aggiunga il film Neverland - Un sogno per la vita, diretto dal regista Marc Forster nel 2004, stavolta prendendo spunto dalla vita di James Matthew Barrie più che dal suo personaggio più noto. Nel 2004, inoltre, il Great Ormond Street Hospital cui Barrie donò tutti i suoi diritti decise di dar vita a un seguito ufficiale. Fu indetto un concorso tra più di cento scrittori: la vincitrice fu Geraldine McCaughrean con il suo Peter Pan in scarlet. Per quanto riguarda la musica, va citato l'album di Enrico Ruggeri del 1991, di nuovo omonimo del protagonista della commedia teatrale dei primi del Novecento, nonché l'album raccolta di Edoardo Bennato uscito nel 2002 e intitolato L'isola che non c'è. Vi comparivano brani come "Il rock di Capitan Uncino", in cui l'arcinemico di Peter accusava il ragazzino che non vuole crescere di fare «il gradasso perché / quel branco di mocciosi / lo stanno ad ascoltare / lo credono un eroe / ma è solo un qualunquista / un esibizionista di tutti i miei nemici / è il più pericoloso / è il primo della lista». E, nel brano "L'isola che non c'è", si invitava alla ricerca del luogo dell'anima in cui la giovinezza eterna può veramente vivere: «E ti prendono in giro / se continui a cercarla / ma non darti per vinto perché / chi ci ha già rinunciato / e ti ride alle spalle / forse è ancora più pazzo di te». Lunga vita ai sogni, lunga vita a Peter Pan.
Adriano Scianca
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