Sono passati 25 anni. Il bar c’è ancora, anche se ha cambiato padrone ed è un po’ più triste di un tempo. Era lungo un viale di platani, lo chiamavano «lo chalet», ma la struttura era di ferro, un hi-tech per poveri in anticipo sui tempi. C’era un bancone, una macchina per il caffè e una fila di studenti e operai che cominciava la giornata.
Nell’altro locale qualcosa che assomigliava a una sala giochi. C’erano ancora i flipper, dove ormai giocavano solo i più vecchi, gente di trent’anni. C’era un juke-box, con luci psichedeliche artigianali, da elettricista. I Buggles, gruppo inglese di cui non si conosce neppure la pronuncia, suonano un profetico Video killed the radio star. Ma la maggior parte dei clienti, lì dentro, usa le cento lire per Luna di Gianni Togni o per Amico di Renato Zero. Da un angolo del locale arriva un rumorino fastidioso, un sibilo intermittente, un tic tic ossessivo. Il suono arriva da un videogame, questi box che stanno mandando in pensione i flipper. Senti gridare, senti qualcuno che dice «scappa, scappa» o «eccoli, attento». Non si vede nulla, c’è troppa gente intorno alla scatola nera e uno che tenta di battere un record. Anzi, di sopravvivere. Il gioco è Pac-Man, un mostriciattolo giallo che si muove in un labirinto, mangia pillole colorate per andare avanti e cerca di sfuggire ai propri fantasmi. «Una metafora della vita», dirà un giorno un amico disilluso e pessimista. «La sintesi della psicanalisi di Freud», teorizzerà un altro un po’ troppo intellettuale. Quell’anno, 1980, Pac-Man era solo un nuovo gioco. La storia della pallina gialla comincia in una pizzeria giapponese. Toru Iwatani è un giovane game designer della Namco. È una serata da mega margherita, birra o coca-cola. Iwatani è con un gruppo di amici. Arriva la pizza fumante e tutti cominciano a tagliare il primo spicchio. Tutti guardano nel piatto e vedono una pizza senza una fetta. Toru Iwatani ci vede Pac-Man. Lo disegna sul tovagliolo, come facevano i pittori rinascimentali per pagarsi il pranzo: davano all’oste un capolavoro in cambio di una minestra. Toru invece prende il tovagliolo e lo porta in azienda. Per realizzare il gioco ci vogliono quindici mesi e otto tecnici, quattro per il software e quattro per l’hardware. Il titolo originale era Puck-man, ma in America gli cambiano il nome, in lingua yankee ricorda troppo una parolaccia. Quando arriva sul mercato è una rivoluzione. Pac-Man cambia la storia e l’estetica del videogame. Fino ad allora lo scenario dei giochi erano i mondi lontani della fantascienza, l’invasione aliena di Space Invaders e dei suo cloni extragalattici. Tutta roba per maschietti, velocità di azione e avventura. Niente smorfie e niente marketing. Il mostriciattolo giallo fa invece innamorare le ragazze e diventa il primo videogame con un marchio globale: te lo ritrovi sulle magliette, sugli zaini, sui costumi da bagno, sulle scatole di cereali: diventa un testimonial pubblicitario e di fatto sdogana le macchinette ludiche dalle sale giochi. Pac-Man è il primo eroe della rivoluzione informatica. Ha un nome, un volto (una pizza gialla che sorride) e una storia. Anche i suoi nemici, i quattro fantasmini hanno un nome e poteri diversi: Blinki, Pinky, Inky e Clyde. Il rosso è debole e lento. L’arancione è quasi invincibile. Con lui si può solo scappare. Risultato: dopo un anno erano già state acquistate 100mila Pac-Machine. È il gioco che ha venduto di più nella storia dei videogame. Ha incassato 100 milioni di dollari ed è stato giocato più di 10 miliardi di volte. Negli Stati Uniti è entrato nel Pantheon delle religioni fai-da-te. Ha un culto, una chiesa, una mezza dozzina di sacerdoti folli e una preghiera: «Oh Pac-Man ghiottone divino». Pac-Man ha conquistato anche il linguaggio della finanza, dando il suo nome a una tecnica per contrastare le acquisizioni improvvise e inaspettate. Una mossa anti-scalate che permette alla società che si difende di acquisire chi la sta attaccando. Mangia o sarai mangiato.Un anno fa un gruppo di studenti della New York University ha cercato di dargli vita con il progetto Pac Manhattan, trasferendo le avventure della pallina nelle strade della città. Dieci persone, uno interpreta Pac-Man, quattro i fantasmini e gli altri cinque, con i telefonini, dettano i movimenti ai personaggi. Ma Pac-Man è anche il sogno della partita perfetta. L’ossessione di un certo Billy Mitchell. Nel 1999 questo trentatreenne della Florida con una sola moneta da 25 cent, in sei ore, ha attraversato senza danni tutti i 256 livelli. Punteggio finale: 3.333.360. «Mi sento come Neil Armstrong sulla luna». Nessuno ha mai ripetuto l’impresa. Neppure lui: «Grazie a Dio non dovrò più entrare in questo maledetto labirinto in vita mia».
Vittorio Macioce
(articolo del 2005)
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