Dal Secolo d'Italia di martedì 7 dicembre 2010
«La giovinezza finisce quando il tuo calciatore preferito ha meno anni di te». La frase – citazione tratta da Quattro amici (Feltrinelli, 2003), il bel romanzo d’esordio del quarantenne regista spagnolo David Trueba – è di quelle che non lasciano scampo a illusioni tardo adolescenziali. Potremmo cavarcela rispolverando Maradona o Pelé, ma si tratterebbe di un modesto escamotage. Per chi scrive – “gobbo” nato a metà dei Sessanta – quel calciatore è della classe ’72 e quest’anno, dopo una lunga carriera, non è sceso in campo. Sì, dal 31 maggio 2009 siamo irrimediabilmente orfani. Cerchiamo di consolarci con le bionde cavalcate del nuovo arrivato Milos Krasic ma dentro di noi sappiamo che sarà difficile emulare le gesta sportive di Pavel Nedved.
L’occasione per riviverle, tuttavia, ce la offre la biografia del Pallone d’oro 2003, appena arrivata in libreria, La mia vita normale (Add editore, pp. 174, € 16) ed è singolare come a proporla non sia una delle case editrici specializzate in memorialista sportiva ma la piemontese Add, nata pochi mesi fa su iniziativa di Michele Dalai, che ha già in catalogo testi difficili quanto coraggiosi come Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ’ndrangheta di Pino Masciari e I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità di Flavio Tranquillo. Eppure Di corsa tra Rivoluzione, Europa e Pallone d’oro, come recita il sottotitolo, non sfigura affatto accanto a titoli così importanti. Oltre al racconto sportivo, infatti, quel che colpisce è l’esperienza umana di Nedved, campione anche fuori dal campo. Dall’infanzia nel piccolo comune di Skalnà alla rivoluzione di Velluto del ’89, cui il diciassettenne Pavel prese parte attiva. «A gennaio di quell’anno – racconta – nel corso di una commemorazione di Jan Palach, lo studente patriota che ormai è diventato il simbolo della resistenza antisovietica e che morì nel gennaio di vent’anni prima dopo essersi dato fuoco in piazza Venceslao, era stato arrestato anche Vaclav Havel, l’uomo che aveva fatto rinascere la speranza in tutti noi, che eravamo abituati a considerarla un lusso…». Il 17 novembre, a Praga, la polizia carica i manifestanti, il giorno dopo Pavel è in piazza con i suoi coetanei a Plzen. Nel libro ci sono tutti i suoi valori: la famiglia, l’amicizia e l’amore per la patria, ferito per la divisione, dal 1 gennaio ’93, con la Slovacchia: «Ero fiero di essere cecoslovacco. Siamo uguali, abbiamo lingue quasi uguali e insieme potevamo essere molto più forti e solidali. Saremmo stati benissimo insieme, anche come repubblica federale».
E poi c’è la carriera calcistica costruita sul talento ma anche su una determinazione ferrea. Senza mai assumere una sostanza dopante. «Perché non ha senso – scrive rivolgendosi ai giovani – compromettere la propria salute per ottenere risultati rapidi e poco puliti».
I campionati europei del ’96 in Inghilterra lo vedono tra i protagonisti – la Repubblica Ceca si laurea incredibilmente vicecampione – e a volerlo in Italia è la Lazio di Sergio Cragnotti e soprattutto del connazionale Zdenek Zeman. «Il suo calcio è quello offensivo e spettacolare – lo ricorda Nedved – perché ha l’ossessione del gol».
L’amore per la città eterna e per i tifosi biancocelesti è rimasto quello di allora. Quando Zeman, esonerato, viene chiamato ad allenare la Roma, cerca di convincere Nedved a seguirlo. Ma il campione ceco rifiuta. «Ero laziale e ci sono cose che non si possono fare e basta». Allo stesso modo, quando anni dopo la sua Juve precipita nell’inferno della B, decide di rimanere malgrado le offerte piovessero, «perché il calcio è crudele e smontare la Juve era un’occasione irripetibile per gli altri grandi club europei. Rifiutai. Dovevo rimettere le cose a posto, prima di abbandonare il calcio dovevo riportare la Juve dove è giusto che stesse. In serie A, a giocarsi scudetti e trofei».
Non solo, dopo aver riportato la Juve in Champions dirà no anche alle lusinghe dell’Inter. «José Mourinho mi disse che sarebbe stata una grande stagione e che se mi fossi fidato di lui avrei vinto la Champions League, cosa che in effetti non mi è mai riuscita. Ma c’era un ottimo motivo per rinunciare a un ingaggio ricco e alla possibilità di un’altra stagione al vertice. Il rispetto dei tifosi. Non sarebbe stato bello giocare nella squadra antagonista che sulla nostra rovina sportiva aveva fatto la sua fortuna. Loro hanno vinto la Champions, io mi sono tenuto la dignità e l’amore degli juventini». E della famiglia Agnelli. Se il vecchio Umberto, nei primissimi anni passati a Torino nella splendida ma isolata cornice del Parco della Mandria, andava spesso a trovarlo, senza preavviso e formalità, come farebbe un semplice amico, il figlio Andrea lo ha recentemente voluto nel Cda della Juventus.
Nedved ha detto di sì, perché si fida ciecamente del giovane Agnelli – l’amico con il quale giocano insieme a calcetto ogni giovedì – e perché «non sono uno che vive di ricordi» e sa di poter essere ancora utile alla causa della rinascita juventina. «L’unico modo per ridare la dimensione umana al calcio – scrive nelle conclusioni del libro – è quello di abbassare i toni fuori dal campo, di ricominciare ad ammirare i gesti tecnici, di capire che agli atleti si può chiedere di giocare e di lottare ma non di sfogare l’odio di una città nei confronti dell’altra. Sono giocatori e devono rispettare la maglia che portano, il resto lasciamolo a chi ha tempo da usare male». Da parte sua lo impiega come ha sempre fatto: correndo, con nelle orecchie e nel cuore quelle parole dell’inno ceco che lo rendevano pieno d’orgoglio. «A tu silu vzdoru zmar», “una forza che tutto sfida”.
Roberto Alfatti Appetiti
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