Da Area di dicembre 2010
Cosa hanno in comune quell’uomo silenzioso, vecchio e canuto e quell’altro, più giovane e visibilmente emozionato, che gli pone le domande con pudica riverenza?
Per il primo, reduce dalla detenzione nel manicomio criminale di St. Elizabeths di Washington – con l’accusa di aver tradito il proprio paese, l’America, per appoggiare il fascismo – essere in Italia sarebbe già una rivincita. Ma sembra non curarsene, come se non avesse attraversato quell’inferno dalle minuscole dimensioni di uno sgabuzzino. Come se essere uno dei più importanti poeti viventi fosse un dettaglio trascurabile.
L’altro sembra passarsela meglio, si gode l’autorevolezza di regista e narratore conquistata sul campo dopo essersi esposto in prima persona. Dopo aver subìto l’ilarità dei benpensanti e incassato, per ricorrere a un eufemismo, tante pernacchie. Perché in realtà – la realtà piccolo borghese e beghina dell’Italietta – non se l’è vista benissimo. Sin da quel 7 febbraio del 1945 quando, a Porzus, in Friuli Venezia Giulia, una milizia di partigiani comunisti gli aveva massacrato Guido, il fratello diciannovenne, e tutta la Brigata Osoppo, di cui faceva parte, formata da partigiani moderati.
No, moderati loro non lo furono mai, neanche per un istante. Né Ezra, né Pier Paolo. Poeti di valore. Coraggiosi fino all’incoscienza, convinti del fatto che «se un uomo non è disponibile a correre qualche rischio per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o è lui che non vale nulla». Radicali che rivendicano il diritto di scandalizzare. Rivoluzionari conservatori, per usare un ossimoro. Uomini in rivolta contro il mondo moderno, potremmo azzardare citando Julius Evola. Reazionari, forse, se tale definizione può sposarsi a chi ha dedicato la propria esistenza e la propria arte – mescolate col sangue – a combattere la società dei consumi e il capitalismo senz’anima e usuraio. L’industrializzazione dello spirito. A impedire che la vita degli uomini e delle donne venisse ridotta a fiction o regolata dalle mere leggi del commercio. Dalla parte degli ultimi e dei deboli della storia, che si tratti di vittime dell’usura come anche di ragazzi di vita, borgatari nel mondo globalizzato.
Parliamo di due irregolari del calibro di Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini, quest’ultimo scomparso il 2 novembre del 1975. Nelle scorse settimane sui giornali non sono mancate, puntuali quanto inoffensive, le celebrazioni. Il volto scavato dell’intellettuale morto in circostanze ancora misteriose è apparso persino in quella tv della cui «stupidità delittuosa» e del relativo potere di condizionamento fu primo e dichiarato nemico: «Non sostengo affatto che tale mezzo sia in sé negativo – sottolineava – e potrebbe essere un grande strumento di progresso culturale ma sinora è stato usato come un mezzo di spaventoso regresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani». Profetico all’epoca quanto attuale.
Sia l’uno che l’altro avevano capito, con visionaria lucidità, che dietro la maschera del progresso un nuovo potere omologante era già pronto a cancellare le diversità e le identità e a sostituirle con «valori falsi e alienanti» e quali minacce si nascondessero dietro le promesse di miglioramento sociale del secondo dopoguerra. Se il primo cantava l’America dei padri e dei pionieri, l’altro difendeva con puntiglio il mito dell’Italia rurale e preideologica manifestando quella che Italo Cucci – raccontando la sua passione di ragazzo di destra degli anni Cinquanta per Pasolini – ha definito «una vena pascoliana».
Entrambi si erano innamorati dell’idea – forse più poetica e letteraria che reale – di un’Italia autenticamente antiborghese in grado di recuperare la tradizione e le ricche culture originali e rinnovare così il desiderio di bellezza del rinascimento. Pound aveva pensato, illudendosi, che l’ultimo eroe rinascimentale fosse Mussolini, mentre Pasolini riteneva che quel testimone potesse essere raccolto, nelle fabbriche come nelle piazze, da quel partito comunista ancor più borghese della borghesia stessa, che alla fine degli anni Quaranta lo espulse per indegnità in quanto… omosessuale. Liquidandolo come “corruttore” dei giovani, così come fecero a destra quelli del Borghese. «Più Parsifal che Lenin, più Francesco d’Assisi che Togliatti», ha scritto con felice sintesi nei giorni scorsi Marco Iacona ricordando il “misticismo” di Pasolini proprio sul quotidiano Secolo d’Italia.
Incontrarsi era inevitabile e accadde a Venezia nell’autunno del 1967, il 26 ottobre. Ne venne fuori un dialogo intenso, di una liricità spontanea, che la Rai filmò e mandò in onda l’anno successivo. Di quell’eccezionale documento televisivo realizzato da Vanni Ronsisvalle, è possibile vederne alcuni frammenti su youtube ed è un vero peccato che nessuno abbia pensato – in occasione del trentacinquennale dalla morte del poeta di Casarsa – di riproporlo, integralmente, nell’ampio palinsesto dedicato alla ricorrenza.
Nel video disponibile su youtube, peraltro, è tagliato il momento in cui Pasolini – imbarazzato per averlo giudicato con un pizzico di spocchia, forse per compiacere un establishment culturale che non poteva concepire l’idea che un grande scrittore potesse aver aderito al fascismo – chiede scusa a Pound chiamandolo “maestro”. E Pound, di rimessa: «Amici, dunque». Poco prima, infatti, rispondendo alla domanda con cui Pasolini gli chiedeva se accettasse la paternità delle neoavanguardie che si richiamavano a lui, Pound gli aveva assestato una mazzata micidiale: «Se la sua tesi del “vecchio Ezra è in fondo al pozzo buio rimasticando la sua vita passata” è esatta - a me non sembra, ma può darsi che abbia ragione lei - non sarei in una condizione che mi consentirebbe di vedere chiaro in quel che accade fuori nella luce al neon del neomondo dei neoavanguardisti, che spero capiranno e parleranno con l’Ezra che non può vederli». Colpito e affondato.
Così Pasolini commentò successivamente quell’incontro: «Pound chiacchiera nel cosmo. Ciò che lo spinge lassù con le sue incantevoli ecolalie è un trauma che lo ha reso perfettamente inadattabile a questo mondo. L’ulteriore scelta del fascismo è stata per Pound un modo sia per mascherare la sua inadattabilità, sia un alibi per farsi credere presente. In che cosa è consistito questo trauma? Nella scoperta di un mondo contadino all’interno di un mondo industrializzato, di molti decenni in anticipo sull’ Europa. Pound ha capito, con abnorme precocità, che il mondo contadino e il mondo industriale sono due realtà inconciliabili: l’esistenza dell’una vuol dire la morte (la scomparsa) dell’ altra».
È lo stesso Pound, nel corso dell’incontro, ad averlo puntualizzato, correggendo Pasolini. «Lei dice “nazioni industrializzate e quindi culturalmente avanzate”... è questo “quindi” che non mi va...».
Non era la prima volta che Pasolini si muoveva oltre gli steccati destra/sinistra pur di proporre una critica al consumismo. L’aveva già fatto con un altro odiatissimo “conservatore”: Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo e Peppone. Nel 1963 avevano realizzato insieme La Rabbia, un film di cinquanta minuti – pressoché sconosciuto – realizzato a quattro mani proprio con l’avversario romagnolo in cui ognuno recitava le proprie libertà. Con un finale del tutto imprevedibile: dedicato a Marilyn Monroe, icona di bellezza uccisa dalla modernità.
A metà degli anni Settanta, nel periodo delle stragi, Pasolini, insofferente al profluvio di complottismi e teoremi, si chiamò fuori dal conformistico linciaggio mediatico dei “fascisti causa di tutti i mali”, attirandosi ulteriori diffidenze, anche tra gli amici fedeli come Alberto Moravia. Maestro di libertà fino in fondo, ma senza la tentazione di mettersi in cattedra, tanto emulato quanto privo di veri eredi, Pasolini chiede a Pound quale consiglio rivolgere ai giovani. E il poeta americano risponde con disarmante semplicità: «Curiosità». Mettendoli in guardia dalla gran parte della letteratura che, avverte, «nasce dall’odio». Ieri come oggi, che pure il teatrino letterario nazionale si affaccia sempre più con disinvolta spregiudicatezza nell’accogliente palcoscenico televisivo dove l’invettiva ha perso ogni smalto provocatorio ed è finalizzata solo ad alzare lo share. Non a far riflettere ma a raccogliere pubblicità, per essere chiari fino in fondo.
E a noi piace ricordare Pasolini che, cosparsosi il capo di cenere, durante l'incontro di Venezia legge alcuni versi tratti dai Canti Pisani, del testamento spirituale di Pound. «Quello che veramente ami, non ti sarà strappato /quello che veramente ami, è la tua vera eredità».
Roberto Alfatti Appetiti
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