Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia del 29 dicembre 2010
Quando un vecchio libro di Jack London torna in libreria è sempre una gran soddisfazione. Ma la soddisfazione diventa maggiore quando a curare l'edizione è il suo esperto italiano per eccellenza, l'artista lombardo Davide Sapienza. In questi giorni è la volta della sua drammatica e intensa autobiografia etilica, John Barleycorn (Mattioli, pp. 240, € 16,00), uno scritto nato per raccontare ai lettori cosa possa significare la dipendenza dall'alcol, e cosa possa implicare - e quale sia la deriva nascosta tra le pieghe di una gioia che non dura niente, e non si ripete facilmente.
È un libro di forte impatto, capace d'essere crudo e lirico. London battezza il suo alter ego etilista con quel nome perchè si sta riferendo a una tradizione antica.
L'uomo chiamato John Barleycorn è il protagonista d'una canzone popolare inglese, almeno cinquecentesca: una canzone triste, che narra della maledizione nascosta nel whisky e nella birra. Una canzone molto famosa nel mondo: è stata eternata da una micidiale versione pop dei Traffic, inclusa nell'album John Barleycorn Must Die, di discreto successo da quarant'anni a questa parte: qualche anno fa, per dire, è stata il sottofondo di una scena-madre di Nirvana di Gabriele Salvatores.
Chi è, davvero, John Barleycorn? Jack London non sa dire se sia veramente un suo amico.Quando stanno insieme sembrano grandi amici ma non è proprio così. «Lui è il re dei bugiardi. È colui che sa dire con franchezza la verità. È l'augusto compagno che cammina con te al fianco degli dei. La sua via conduce alla nuda verità e alla morte. Ti fornisce una visione chiara e sogni torbidi. È il nemico della vita, e colui che insegna la saggezza al di là della saggezza della vita. È un assassino con le mani sporche di sangue, è il macellaio della giovinezza». Il re dei bugiardi sa dire con franchezza la verità, scrive Jack. E subito ti spiega che il suo talento nel saper dire con franchezza la verità è in realtà una maledizione, perchè «le cosiddette verità della vita non sono vere. Sono menzogne essenziali, e a grazie a loro la vita sopravvive». John Barleycorn allora è uno che sa trovare la menzogna esatta. Forse perché l'alcol dice la sua verità, ma la sua verità non è normale. Ciò che è normale, spiega Jack, è sano, e ciò che è sano tende alla vita.
JB promette a ciascuno ciò che serve. A chi la fantasia, a chi il potere, a chi la dimenticanza. Sa far leva sulle fragilità come nessuno: «Sulla debolezza, sul fallimento, sulla stanchezza, e sull'esaurimento. È la via d'uscita più facile ma è comunque una menzogna, perché offre al corpo energie che non ha e allo spirito una fasulla elevazione che fa apparire le cose più appetibili». Prende, stuzzica e rovina, di solito, soltanto la gente che vale qualcosa, soprattutto quegli uomini che hanno, proprio come Jack, «la debolezza di chi ha troppa forza, troppo spirito, troppo ardore e il fuoco di una diavoleria bella». E succede perché JB lo puoi trovare dappertutto, in qualsiasi strada, protetto dalla legge, tutelato dalle guardie. Il multiforme JB è un inibitore di moralità. Perché se da lucido non riesci nemmeno a immaginarti un certo comportamento, quando sei in compagnia di Barleycorn quel comportamento diventa quasi ragionevole. «Anzi, diventa l'unica strada possibile visto che l'inibizione eretta da JB è un muro tra i desideri del momento e la morale appresa nel corso del tempo». Essere amico di JB significa poter stare, spesso, abbastanza su di giri. Ma vivere a quella velocità e con quel mood artefatto richiede un sacrificio mica da poco: «Per ogni momento di forza un momento di debolezza; per una vetta vertiginosa un pozzo altrettanto profondo e per un momento divino artificiale, un tempo equivalente come un rettile nel fango». Essere amico di JB ha un prezzo. Quel prezzo è il suicidio. «Lento o veloce, per tracimazione improvvisa o graduale sconfitta degli anni, non esiste un amico di JB che sia riuscito a evitare di versare questa tassa». Da lui non si scappa: tutte le strade portano a John Barleycorn. E allora con cosa ci si deve consolare? Con la coscienza, con la consapevolezza. Quella di Jack, ad esempio, è di non essere un alcolizzato ereditario, e di non avere nessuna predisposizione innata. Jack sa che il suo corpo ha impiegato molti anni di apprendistato involontario per tollerare l'alcol sino a ritrovarsi a desiderarne l'assunzione. Jack sa che è stato fregato dalla sua buona capacità di sopportazione dell'alcol, dalla sua capacità di controllarlo. Jack sa che ha sempre cercato l'alcol per la socialità, o per «la botta» che dava in testa. Jack ha saputo darsi delle regole: «Mai bere prima di aver scritto l'ultima delle mille parole quotidiane», per esempio. Disciplinarsi. Combattere l'automatismo, accorgersi degli automatismi, non cedere alle promesse di John Barleycorn. Tutte balle. E poi dimenticarsi di certe abitudini. Inventarne di nuove. Magari: sane. Almeno per amore: se non di sé stessi, delle persone che hanno imparato ad amarti. Già, questo libro è nato così. Racconta Davide Sapienza: «Jack London scrisse John Barleycorn subito dopo un tormentato viaggio a New York all'inizio del 1912, e la prima pagina del libro parte infatti dalla sua scelta di votare a favore del suffragio universale alle elezioni. A New York lo scrittore aveva partecipato agli incontri dedicati al tema con Charlotte Perkins Gilman e Alva Vanderbilt Belmont, la più radicale (e ricca) delle esponenti protofemministe nel Paese […]». E sino a qui, tutto bene.
Ma «nella stessa trasferta Jack ebbe una tremenda ricaduta nell'alcol, culminata in un fatto bizzarro accaduto a Baltimora: una sbronza colossale in preda alla quale decise di rasarsi a zero». Morale della favola, per domandare perdono alla moglie il nostro Jack decise di scrivere questo libro. E da quel giorno in avanti non si concesse più neanche una sbronza, nonostante i tanti guasti nelle cose della vita. Da quel giorno in avanti seppe domare il suo doppio oscuro ed etilico. Per domarlo gli diede un nome antico e trovò il coraggio assurdo di parlarne a tutti. Avanti il prossimo.
Gianfranco Franchi
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