Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 12 gennaio 2011
«Che libro scomodo, fuori da ogni politically correct, denso e fastidioso, arrogante eppure visionario, è La pelle di Curzio Malaparte». Così scrive Antonella Cilento che, recensendo su Tuttolibri del 4 dicembre il romanzo (o l'anti o l'extra romanzo) forse più significativo dello scrittore toscano, aggiunge che oggi un'opera del genere difficilmente troverebbe un editore.
Ce ne voleva uno di grande coraggio intellettuale come Roberto Calasso a riproporla qualche mese fa (a cura di Caterina Guadagni e Giorgio Pinotti, edizioni Adelphi, pp. 379, € 20,00), scommettendo su Curzio Malaparte come autore cruciale del Novecento. A partire, per la riscoperta e il rilancio, da un libro sontuoso e "mostruoso" (nel senso di "monstrum"= prodigio, perché siamo davanti a un "prodigio" letterario, con tutti gli insopportabili eccessi dei "prodigi") come Kaputt, pubblicato due anni fa, anch'esso con puntuali e stimolanti "Note al testo" di Giorgio Pinotti. Oggi, scrive la Cilento, a Curzio Malaparte «toccherebbe più modestamente (molto più modestamente) trasformarsi in un Houllebecq e, comunque, in Italia, non lo pubblicherebbe nessuno. Fuori dai canoni, fuori dalle finzioni editoriali che abitiamo, violento, implacabile, colto».
Chissà… I tempi sono quelli che sono, e cioè abbastanza squallidi se non miserandi, e la cultura è, ovviamente, in sintonia con questo clima, ma Malaparte è sempre stato un azzardo. Anche in età ben più vitali e fiammeggianti, quando signoreggiava sulla cultura europea col suo estro debordante. Una incontenibile irriverenza, all'insegna del genio, che per il potere è sempre stata elemento di disturbo. In ogni caso, che si assista a una "Renaissance", tormentata e discussa quanto si voglia, del "maledetto toscano" , è fuor di dubbio. Ce ne offre testimonianza proprio la città di Curzio, Prato, con una bella Mostra intitolata "Malaparte, arcitaliano nel mondo", promossa dal Comune e dalla Fondazione Biblioteca di via del Senato di Milano e aperta fino al 30 gennaio.
Gli organizzatori dell'Evento, Matteo Noja e Laura Mariani Conti (curatrice anche del Catalogo, insieme a un esperto di movimentismo culturale tra le due guerre come Maurizio Serra) hanno pensato bene di render onore alle suggestioni barocche care al "Longobardo italianissimo" (come lo definiva Gobetti), dividendo la Mostra in cinque sezioni, corrispondenti agli elementi del cosmo così come Malaparte, secondo solo a d'Annunzio nella pretesa di una "vita inimitabile", li ha attraversati e affrontati, in positivo e in negativo, in ogni caso sempre all'insegna dell'eccesso e mai del difetto. Sotto l'emblema del Fuoco sono gli anni tra il 1898 - la data di nascita - e il 1920; l'Aria è sospesa sull'arco temporale 1921-1941; la Terra è lo spazio dove abita la Seconda guerra mondiale; l'Acqua scivola sul periodo compreso tra il 1950 e il 1957 - la data della morte; e infine ci sono i Reportages, nei quali Malaparte scrisse quel che vide e visse, tenendo presente che vide e visse più ed oltre, animando il documento di lampi creativi, iperrealistici e onirici, che non erano però pura, arbitraria calligrafia di esteta, ma rispondevano- corrispondevano a una Visione. Perché anche laddove lo scrittore ci sembra più torrenzialmente enfatico, fino ad apparire quasi insopportabile nel suo scialo di invenzioni e paradossi, con l'assurdo e il grottesco che fanno capolino da tutte le parti, ebbene, anche lì siamo in presenza di un testimone. Testimone d'eccezione del Novecento, nella pienezza e nella decadenza: attore, narratore, cronista "a futura memoria". Come ben evidenziano Marino Biondi e Martina Grassi in un intenso profilo biografico dello scrittore (cfr. AA. VV., Scrittori pratesi del Novecento. Da Malaparte a Veronesi, Polistampa). Mentre a giorni l'editore Grasset pubblicherà il monumentale saggio di Maurizio Serra Malaparte, vies et légendes, da cui ci attendiamo suggestioni e riflessioni di rango, considerando il valore dello studioso, gran "frequentatore" di Filippo Tommaso Marinetti, di Louis Aragon, di André Malraux, di Pierre Drieu La Rochelle, e altri fascinosi "esteti armati" del Novecento.
Quella che deve essere riportata in piena luce è insomma la vocazione generosa a vivere ogni esperienza, illustrandone i tratti esemplari. A costo di esagerarli, di esasperarli, come se questo rispondesse a una chiamata fatale cui è d'obbligo rispondere, complici e compiaciuti, facendosi carico di tutto, e in modo particolare delle contraddizioni.
Non da oggi una perturbata onestà di fondo viene riconosciuta a Malaparte dagli studiosi più attenti, e cioè quelli che non si lascino coinvolgere-travolgere né turbare-disturbare dal sovraccarico di immagini che lo scrittore partorisce con allegria (o disperazione) sfarzosa, ma scavano nella vita "estrema" di chi non solo volle le "opere" conformi ai "giorni" e viceversa, ma fece di essi una sorta di metafora del Novecento, secolo "breve" e "sterminato". Forse è questo che, di Malaparte, più sconcerta: lo "specchio" in cui si guarda, ma in cui chiede anche a noi di guardarci. Perché dentro, ancorché rimossi, ci sono affetti e affanni "nostri": il passato che sta ancora lì con tutti i nodi irrisolti, il presente che ci sfugge di mano perché non ha consistenza, il futuro che non riusciamo a scorgere. Estenuata retorica con contorni apocalittici? Inesausta didattica sul tramonto dell'Occidente e dintorni? Morbosa dialettica del disfacimento e dell'abnorme? Sì, di Malaparte ti spiazza (e ti intriga) lo sberleffo amaro di chi ti dice che non hai più un destino: eppure, insieme, te lo prospetta, il destino, svelandoti che è azzardo e paradosso. Proprio le cifre che lui elesse come contrassegni esistenziali. Paradosso che Kurt Suckert, figlio di Erwin - tedesco di origine polacca, maestro tintore presso il pratese Fabbricone - e della lombarda e borghese Eugenia Perelli, abbia voluto essere il più toscano dei toscani, con un amore sviscerato per la famiglia di operai pratesi, Milziade ed Eugenia Baldi, da cui era stato messo a balia. Paradosso che Kurt Suckert sia stato un tedesco ferocemente antitedesco,addirittura al punto di arruolarsi sedicenne, nel 1914 (quando l'Italia non aveva ancora abbandonato la Triplice Alleanza) come volontario nella Legione di Peppino Garibaldi, nipote dell'Eroe dei Due Mondi, per andare in Francia a combattere i crucchi. Paradosso che un fiero fascista nazionalpopolare (e anche controriformista, come diceva) come lui sia stato uno tra gli amici più cari del giovane intellettuale antifascista Piero Gobetti e una tra le firme più prestigiose della Rivoluzione Liberale.
Paradosso che in quegli anni di violenti conflitti scegliesse di essere, insieme, gobettiano e mussoliniano, affascinato dalle eresie intellettuali come dal realismo politico, e sempre pronto a mettere tutto in discussione e a mettersi tutto in discussione nel santo nome delle più spregiudicate "contaminazioni", ma per nulla convinto che l'Italia e l'Occidente potessero sfuggire alle strettoie della mediocrità e delle miopie nazionalistiche. Quelle da cui sarebbero usciti, copiosi e furiosi, i "mostri" della Seconda guerra mondiale, così terribilmente evocati in Kaputt e in La pelle.
Rileggiamolo, allora, Curzio Malaparte: i suoi fastosi incubi non sono adatti agli inappetenti e agli stitici, chiedono stomaci forti, ma costituiscono un dono, paradossale anche questo, per chi non si sottrae all'affronto del vero, in tutta la sua dismisura.
Mario Bernardi Guardi
Nessun commento:
Posta un commento