Articolo di Silvio Botto
Da LINEA QUOTIDIANO del 13 gennaio 2011
Quante volte ci è capitato allo stadio di udire cori di scherno per i giocatori scansafatiche, del tipo «A lavorare, andate a lavorare»? Oppure considerazioni come «Meriterebbero di passare un mese in catena di montaggio»? A Paolo Sollier di lavorare in fabbrica è capitato veramente, ed è forse anche per questo motivo che è sempre stato un calciatore sui generis. Anticonformista, controcorrente, ai limiti del rompiscatole. Ma anche colto, sensibile, impegnato.
Paolo Sollier, che oggi compie 63 anni, è stato suo malgrado un calciatore-simbolo degli Anni Settanta. Il prototipo dell'atleta politicizzato, dell'antidivo per eccellenza, del bastian contrario capace di salutare con il pugno chiuso davanti alla tribuna affollata di vip, tra cui Umberto Agnelli. «Che poi - ha dichiarato in una recente intervista al Corriere della Sera - quel gesto, quel mio modo di salutare, non mi piaceva neanche troppo: lo sentivo emblematico sì, ma anche troppo rigido. Io sono per il confronto, quel gesto non mi era simpatico, ma me lo imposi perché non volevo cambiare le mie abitudini con gli amici soltanto perché giocavo in A e non più in C».
La foto del centravanti del Perugia che saluta con il pugno chiuso comparve anche sulla copertina del suo libro Calci e sputi e colpi di testa, pubblicato nel 1976 da Gammalibri, che diventò un piccolo caso editoriale e vendette 30 mila copie. Di recente è stato ripubblicato da Kaos Edizioni.
«Fu una scelta dei miei amici della casa editrice – ha raccontato poi Sollier - Io non ero d'accordo, loro mi convinsero che si trattava di un'immagine emblematica, che fotografava un momento...». Forse una scelta di marketing? «Mi sa di sì...», ammette con onestà. In quel periodo l'immagine del calciatore barbuto e politicamente impegnato, che militava in Avanguardia Operaia e leggeva Il Quotidiano dei Lavoratori, tirava. Anche a livello editoriale.
Molto meno nel mondo del calcio dove, per usare le parole di Sollier, «Il '68 non è mai neppure entrato»: «Nel 1969 lavorai otto mesi alla Fiat Mirafiori e in autunno andai a giocare in serie D con la Cossatese. Facevo l'operaio e il calciatore. Entrare negli spogliatoi, indossare maglia e scarpini, significava entrare in un altro mondo. Quello che stava accadendo nella vita di tutti i giorni, restava fuori. Poi mi rivestivo, salutavo tutti e tornavo nell'altro mondo». In serie A non era diverso. Ricorda l'ex attaccante del Perugia che all'epoca i pochi calciatori che si interessavano di politica stavano tutti a destra, come i famosi laziali Chinaglia, Martini, Wilson. O al massimo simpatizzavano per la Dc.
«Tra il ’75 e il ’76, avevamo provato a mettere in piedi un collettivo – racconta Sollier - con Codogno dell’Atalanta, Blangero del Monza, Vatti della Ternana, Lazzaro del Padova, Montesi della Lazio, Galasso dell’Udinese e Pagliari della Fiorentina. L’obiettivo era quello di provare a vedere se fosse stato possibile lanciare un messaggio per veicolare un percorso per contribuire all’arrivo al potere delle sinistre. Ci siamo scoraggiati subito, perché negli spogliatoi non ci fu alcuna risposta. Il deserto totale». Colpa anche della cultura di sinistra, ammette oggi Sollier, che campa con la modesta pensione da ex calciatore e fa l'allenatore di squadre minori, «a quei tempi considerava lo sport una cosa da qualunquisti, un momento di disimpegno. Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari».
Sollier, che si diplomò dopo il lavoro in fabbrica e frequentò anche per tre anni l'università, peraltro leggeva parecchio.
Non solo i quotidiani della sinistra, ma anche molti libri: Pavese, Lee Masters, Garcia Màrquez e i fumetti di Corto Maltese. Volumi che poi regalava anche ai compagni di squadra, non si sa con quanto gradimento da parte di questi ultimi... Non sarà che l'impegno politico gli ha impedito di far carriera nel mondo del calcio?, gli è stato chiesto. «Figuriamoci! - è stata la risposta sincera - Se vinci la Coppa dei campioni o lo Scudetto, puoi essere anche Bin Laden: ti chiamano tutti i giorni in televisione per sapere la tua opinione su qualsiasi cosa».
Il calciatore piemontese - nato a Chiomonte, in Val di Susa, nel 1948, e cresciuto nel Cinzano, nella Cossatese e nella Pro Vercelli – non è mai stato un fuoriclasse. Un onesto pedatore, che però avrebbe potuto aspirare a qualcosa di più di una sola stagione in serie A, con la maglia del mitico Perugia di Castagner. Di certo la fama di ribelle non gli ha giovato, specie in un ambiente dove si seguivano ciecamente i voleri dell'allenatore. A questo proposito Sollier ricorda un curioso aneddoto di fine Anni Settanta, quando giocava nel Rimini diretto da Helenio Herrera: il carisma del mago impediva ai calciatori di mettere in discussione qualsiasi sua scelta. E tutti sfilavano silenziosi ed obbedienti davanti a lui, che consegnava loro una pastiglia e un bicchier d'acqua. «Gli dissi: che cos'è questa? Aspirina, rispose. E io: non prendo nemmeno l'aspirina».
Calcisticamente parlando, dopo l'exploit di Perugia la carriera di Paolo Sollier è lentamente declinata: Rimini, Pro Vercelli, Biellese. E si è chiusa nel 1985 nella Cossatese, la stessa società che l'aveva lanciato nel calcio semiprofessionistico. Poi è cominciata quella di allenatore, che ha battuto più o meno gli stessi campi di provincia: Aosta, Bellinzago, Vercelli, Biella, San Colombano, Brembio. Da qualche tempo, per hobby, allena pure l'Osvaldo Soriano Football Club, che sarebbe poi la Nazionale italiana degli scrittori. Nel 2008, con il giornalista Paolo La Bua, ha scritto un nuovo libro: Spogliatoio, pubblicato da Kaos Edizioni, nel quale racconta la sua vita e oltre quarant'anni di calcio italiano.
Nel corso degli ultimi anni ha collaborato anche a varie testate giornalistiche: Il Mattino di Padova, Tuttosport, Micromega. Del calcio contemporaneo dice: «Non mi dispiace quello che si vede in campo, il resto m'infastidisce. Si è consegnato alle televisioni e la tv ha cambiato tutto, a cominciare dal rito della domenica. Preferivo il calcio dei miei tempi».
Di recente, in una lunga intervista sulla sua esperienza di calciatore-operaio, gli è stato chiesto qual è la sensazione più bella legata alla sua esperienza in fabbrica. Risposta di Paolo Sollier: «Uscire al mattino all’alba quando facevo il turno di notte. Ti dava proprio l’idea di liberazione dalla fabbrica. Sapevi che in quel momento saresti andato a casa a riposarti e poi avresti avuto la giornata libera. Quell’ora lì che uscivi dalla fabbrica e andavi verso l’alba…era veramente bellissimo. Ricordo addirittura che una volta programmai un’ascensione in montagna dopo aver fatto la notte. Uscii al mattino dalla fabbrica, presi la macchina e andai in montagna». Da far leggere agli attuali calciatori viziati e pluri-milionari. E forse anche a Marchionne.
Silvio Botto
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