Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia del 13 gennaio 2011
C'era davvero bisogno di una mostra come questa dopo le intemerate berlusconiane degli ultimi giorni sui "comunisti" che non cambiano mai, fermi nella loro ideologia sanguinaria. Ci riferiamo a "Avanti popolo, il Pci nella storia d'Italia", una grande retrospettiva, costellata di altre iniziative parallele nel corso dell'anno, che rimette a posto i fondamentali della memoria politica del Novecento non solo italiano.
Una mostra che testimonia sul piano dell'immaginario e della stessa memoria popolare una vicenda collettiva, iniziatasi ufficialmente a Livorno il 21 gennaio 1921 e conclusasi, dopo la caduta del Muro di Berlino, il 4 febbraio del 1991, con l'addio al Pci e la nascita del Pds a Rimini.
Una vicenda, per dirla tutta, che sta dentro a pieno titolo la vicenda unitaria della nostra identità nazionale novecentesca. Può sembrare un paradosso - ha scritto a suo tempo Mario Pirani - ma c'è qualcosa che accomuna e mette in comunicazione postfascisti e postcomunisti, «pur tuttavia nemici e avversari storici, al di qua e al di là della barricata o dell'urna elettorale», sono stati però da sempre «accomunati da un linguaggio comprensibile, sia nella forma che nel contenuto, anche quando la sostanza delle cose espresse risuonano apertamente contrastanti». Ad accomunarli è «il linguaggio della politica, radicato nella storia d'Italia». Nonostante tutto, proseguiva Pirani, il rapporto fascisti-comunisti ha conosciuto - dalla scissione di Livorno del '21 e dalla marcia su Roma del 1922 fino alla guerra civile '43-45 - senz'altro una «strenua e violenta contrapposizione, non scevra, però, da tentativi di accostamento, sia nella stagione dell' "entrismo" che alla fine degli anni Trenta portò, su direttiva del partito, le nuove leve clandestine di giovani comunisti a entrare nelle organizzazioni e nei giornali del regime per orientarne a sinistra l'azione di massa, sia dopo la liberazione, quando le porte del "partito nuovo" furono aperte in modo dichiarato a migliaia e migliaia di giovani che in quelle organizzazioni si erano formati e avevano militato». Insomma la canzonaccia degli anni dello squadrismo aveva sì una parte goliardica e irriverente ma anche una premessa strapaesana che ben rifletteva la realtà: «Fascisti e comunisti / giocavano a scopone / e vinsero i fascisti / con l' asso di bastone...». Insomma, concludeva correttamente Mario Pirani, c'era quella che può essere definito «un odio di famiglia, radicato tra gente che si conosce bene e che si tramanderà fino ai giorni terribili della guerra partigiana di liberazione e dei ragazzi di Salò. Poi, dopo un altro mezzo secolo, per gli uni la revisione della Bolognina e per gli altri il processo di Fiuggi».
Ecco, è proprio in questa chiave che va visitata la mostra, organizzata a cura della Fondazione Istituto Gramsci e del Centro Studi di Politica Economica (Cespe) e che apre i battenti domani, venerdì 14 gennaio, all'Acquario Romano, presso la Casa dell'Architettura (in piazza Manfredo Fanti, tra la Stazione Termini e piazza Vittorio) e che si intitola, come dicevamo, "Avanti popolo. Il Pci nella storia d'Italia". Basata essenzialmente sul patrimonio archivistico e documentale della Fondazione Istituto Gramsci, della Fondazione Cespe, dell'archivio fotografico de l'Unità e su materiali raccolti negli anni dall'infaticabile Ugo Sposetti nelle sedi e nelle federazioni del Pci, la mostra si presenta come un vero e proprio ipertesto, un percorso multimediale. Allestito lungo sei stazioni cronologiche e su tre livelli intreccia la vicenda del Pci con quella internazionale e quella nazionale. Ciascuna stazione, unita alle altre da una pista in plexigas a immagini, si vale di un certo numero di bacheche in sei serie di teche. Con dentro materiale straordinario, quasi un archivio della memoria di warburghiana memoria: lettere autografe, libri, giornali, opuscoli, pubblicazioni, volantini, manifesti, materiali elettorali..
Non è un caso che nel comitato organizzatore - insieme a Massimo Bray, Silvio Pons, Graziella Falconi, Marina Placidi e altri - figuri la professoressa Linda Giuva, una delle massime esperte italiane di archivistica informatica. Un'attenzione particolare è riservata agli originali autografi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, esposti per la prima volta dal 1948, i quali potranno essere sfogliati in formato multimediale. Sono inoltre presentati alcuni dei documenti più importanti della storia del Partito comunista italiano, dal manoscritto sulla questione meridionale di Gramsci ad autografi di Togliatti e di Berlinguer. Lungo il percorso espositivo sono visibili documenti, pubblicazioni a stampa e oggetti d'epoca di particolare forza evocativa: dai fotoromanzi comunisti degli anni Cinquanta e Sessanta - con testate come Frontiera tra gli sposi, Diritto all'amore o Cuore di emigranti - ai vademecum per il perfetto "propagandista". Nel perimetro della sala su tre piani sono inoltre collocati diciotto schermi con video e con una selezione di documenti digitalizzati provenienti direttamente dagli archivi del Pci. Nella esposizione "Progetti, confronti e incontri" trentaquattro designer hanno interpretato "a loro modo" il Pci.
Nell'esposizione "Bobo e Cipputi. Due comunisti di carta" predomina invece la dimensione immaginaria con vignette di Staino e di Altan. Sempre sul versante dell'immaginario, inoltre, s'è ricorso a documenti e materiali "sul Pci". Ad esempio, i film di propaganda realizzati dalla sezione Stampa e Propaganda del partito di Botteghe Oscure, ma anche quelli degli avversari del partito comunista, come i Comitati civici di Luigi Gedda, o i cinegiornali della Settmana Incom, e inoltre, i programmi della Rai dell'epoca democristiana. Non manca un ciclostile originale paracadutato dai servizi segreti americani nel 1943 e che servì per stampare l'Unità clandestina, matrice di tante copie del quotidiano comunista ricopiate pazientemente a mano dai militanti. E, immancabili, tutte le tessere del partito, da quella del Partito comunista d'Italia del 1921 all'ultima, occhettiana, del 1991.
Visitare questa mostra è, come dicevamo all'inizio, il miglior antidoto all'antistoricismo che contraddistingue questi quindici anni di transizione. Prima di tutto, infatti, emerge la capillarità di un radicamento - come quello del Pci che fu in tutti i paesi d'Italia - dentro la società civile che dimostra di fatto la dimensione popolare di una realtà che nella sua autenticità ha sempre, magari inconsapevolmente, scavalcato la narrazione ideologica ufficiale.
Bella l'immagine della prima edizione della Festa dell'Unità, con migliaia di persone a Roma dentro la sede del Foro Mussolini, ufficialmente già Foro Italico. E fa una certa impressione vedere quei manifesti e quelle tessere targate Fronte della Gioventù, che negli anni Quaranta e Cinquanta era la sigla del movimento giovanile comunista guidato da Enrico Berlinguer. Lo stesso dirigente che, negli anni dell'impegno per la pace in Europa, svolse un dibattito pubblico con il leader giovanile missino Pino Rauti. E che poi la stessa sigla di Fronte della Gioventù diventerà nel 1970, dopo che i giovani comunisti avevano rinominato la loro organizzazione Fgci, il nome del movimento giovanile missino non fa che confermare quel terreno comune - anche linguistico e immaginario - che unisce le famiglie politiche del Novecento italiano che nascono e si delineano nel terreno della cultura politica nazionale. Se infatti colpiscono nella mostra romana anche le foto dei ragazzi della Fgci con le t-shirt col Che Guevara, c'è forse solo un personaggio che meritava a nostro avviso una valorizzazione degna della sua vicenda: Nicolino Bombacci. Tra i fondatori del Pci nel 1921, fu lui a a far adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani. Ma nel 1943 si riavvicinò al Duce e morì a Salò gridando: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!». Finì con gli altri appeso a Piazzale Loreto. E c'è anche lui nella storia del Pci.
Luciano Lanna
Nessun commento:
Posta un commento