Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 5 giugno 2011
Pearl Jam: un grande edificio del rock. L'ultimo rimasto in piedi tra i molti che si alzarono, a partire dalla metà degli anni Ottanta, nei nuovi quartieri del Grunge. Non proprio un grattacielo, di quelli "vetro e acciaio" che svettano con la loro raggelante enormità e si innalzano per decine di piani e centinaia di metri, ma di sicuro una costruzione poderosa e ancora solida, benché meno illuminata di un tempo. Al posto dei neon sempre accesi, alla stregua delle insegne pubblicitarie che inneggiano a se stesse - e quindi al consumismo in quanto tale, prima ancora che a uno specifico prodotto - delle luci a intensità variabile. Che si rafforzano se c'è da andare in scena. Che si attenuano, giustamente, quando i proprietari sono lontani. O desiderosi di restare defilati a pensare al da farsi.
Come ha spiegato il frontman del gruppo Eddie Vedder cinque anni fa, in un'intervista al mensile statunitense Spin, «se questa band fosse un posto, sarebbe uno in cui a tutti noi fa piacere stare. Al momento va bene, ma devi tenerlo bilanciato. La vedo così: la band è il 49 per cento, ognuno di noi il 51. La band non deve controllare la nostra vita. A periodi ci sottomettiamo a lei, ma ci sono cose più importanti». E tra le cose più importanti, a giudicare da ciò che è sopravvenuto negli ultimi anni, c'è innanzitutto quella di sottrarsi al classico ricatto che incombe sulle star: restare ai vertici della popolarità, per non perdere la propria ragion d'essere in quanto artisti. O addirittura in quanto persone. Mantenere il successo per mantenersi, metaforicamente, in vita. Anteporre i risultati di vendita alla piena libertà espressiva, senza mai dimenticare che a innescare l'attaccamento dei fan è in primo luogo la necessità di identificazione. Un'identificazione che poggia sulla stabilità. Che ne ha bisogno. Che non può farne a meno.
Eddie Vedder conosce il rischio. E lo accetta. Non gli interessa stare per forza dalla parte dei vincitori. Alle presidenziali del 2000 sostenne Ralph Nader, il candidato ambientalista che fece da terzo incomodo nella sfida tra George W. Bush e Al Gore e che, specialmente raccogliendo molti voti in Florida, condannò lo stesso Gore alla sconfitta, al di là della quasi certezza di brogli a vantaggio del candidato repubblicano. Poi, a quelle del 2004, ha partecipato all'iniziativa "Vote for Change", stavolta a favore di John Kerry e al fianco di artisti del calibro di Bruce Springsteen e Rem, Jackson Browne e John Mellencamp, Dave Matthews e John Fogerty.
Analogamente, non gli interessa nemmeno stazionare a tutti i costi in cima alle classifiche. Meglio individuare di volta in volta delle nuove possibilità. Delle nuove curiosità. I Pearl Jam sono una cosa. La sua produzione solista un'altra. I Pearl Jam sono il grande edificio di cui si è detto. I suoi album individuali fanno pensare, invece, a piccole case che si tirano su per uno scopo specifico e, in qualche modo, transitorio. La prima volta è accaduto con la colonna sonora di Into the Wild, il magnifico film realizzato nel 2007 da Sean Penn intorno alla storia vera di Chris McCandless, che ebbe il suo tragico epilogo nell'agosto del 1992 e che era stata narrata da John Krakauer in un libro pubblicato tre anni dopo.
Eddie non lo aveva ancora letto, quando il suo amico Sean gli chiese di scrivere delle musiche originali che accompagnassero una parte delle scene. Lo fece immediatamente. E ne rimase affascinato alla pari di tanti altri: «Non è stato difficile per me capire questo ragazzo. Mi sento ancora così connesso e ho dei ricordi così forti sul vivere quell'età in cui vedi le stronzate nel mondo e vuoi sapere come relazionarti, come puoi mantenere dell'idealismo, e come non diventare come le stesse figure autoritarie che ti circondano mentre stai crescendo».
Eddie non lo aveva ancora letto, quando il suo amico Sean gli chiese di scrivere delle musiche originali che accompagnassero una parte delle scene. Lo fece immediatamente. E ne rimase affascinato alla pari di tanti altri: «Non è stato difficile per me capire questo ragazzo. Mi sento ancora così connesso e ho dei ricordi così forti sul vivere quell'età in cui vedi le stronzate nel mondo e vuoi sapere come relazionarti, come puoi mantenere dell'idealismo, e come non diventare come le stesse figure autoritarie che ti circondano mentre stai crescendo».
Il nuovo album (la seconda costruzione, di legno tagliato a mano e di pietre selezionate a una a una) è ancora più atipico. Come afferma il titolo, Ukulele Songs, si tratta di brani eseguiti con la piccola chitarra hawaiana. Uno strumento che di solito viene ritenuto nulla di più di una curiosità locale e che, fuori dalle Isole, nessuno si azzarderebbe a utilizzare sistematicamente. Troppo caratteristico, per non rischiare di far pendere la bilancia dalla parte di un pittoresco di maniera. Troppo lontano dalle sonorità alle quali è abituato il grande pubblico, per essere accettato senza problemi. L'esotismo ha un suo spazio, ma solo se resta una divagazione occasionale. Solo se si somministra in gocce. O a bicchierini isolati.
Eddie Vedder corre il rischio, e per quanto possibile lo neutralizza. Si tiene alla larga dal folclore e punta su una sorta di intimismo da esecuzione amatoriale. Semi privata per un verso. Del tutto amichevole per l'altro. Sa che ci sarà bisogno di un'attenzione particolare, per entrare in sintonia con l'atmosfera e sentirsi a proprio agio, e lascia capire che non ci sarà da sorprendersi, se non saranno in molti ad averla. Non è una vera e propria festa, quella che si sta per svolgere. Non c'è nessuna promessa di divertimento sfrenato.
Basta guardare la copertina, del resto. Quasi monocromatica, e virata in un verde che fa pensare a un ambiente sottomarino. Forse una stanza di vetro posata su un fondale. Con una figura, a metà tra un essere umano e un androide, ritratta di spalle e seduta a una scrivania disadorna e quasi del tutto sgombra, ad eccezione della piccola macchina per scrivere.
Basta guardare la copertina, del resto. Quasi monocromatica, e virata in un verde che fa pensare a un ambiente sottomarino. Forse una stanza di vetro posata su un fondale. Con una figura, a metà tra un essere umano e un androide, ritratta di spalle e seduta a una scrivania disadorna e quasi del tutto sgombra, ad eccezione della piccola macchina per scrivere.
È un messaggio in codice che non suona nuovo, a chi conosce gli antefatti. Eddie non ama il computer. Eddie ama il mare. E pratica assiduamente il surf. Eddie continua a cercare nella musica un'armonia profonda, che a volte è ancora esplosiva e dirompente come negli anni della gioventù e a volte si acquieta in uno sguardo più consapevole e maturo. Eddie è di casa nel grande palazzo dei Pearl Jam. Eddie vuole sentirsi a casa sua in qualsiasi posto in cui si possa mettere seduto e restarsene in pace, con una piccola chitarra da suonare e la voce che la segue senza sforzo. Come se si trattasse solo di respirare.
Federico Zamboni
1 commento:
bell'articolo. Eddie Vedder è un mito!
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