Dal Secolo d'Italia del 19 giugno 2011
«Mio nonno mi ripeteva sempre: bisognerebbe raccontare tutte le schifezze che si verificano in questo mondo». L’illustre progenitore in questione è Edmondo Sacerdoti, fondatore nel 1950 dell’omonima galleria milanese, scomparso poco più di un lustro fa, e il mondo è quello, dorato, dell’arte. E a metterne nero su bianco i tanti imbrogli è il nipote Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, titolare della prestigiosa galleria ma anche giornalista e scrittore, autore di apprezzati noir, libri storici – recentemente ha pubblicato (con Cristina Di Giorgi) Il nostro canto libero, saggio sulla musica alternativa di destra negli anni di piombo – e ora, per l’appunto, de Il libro nero del collezionismo d’arte (pp. 125, € 13,50). Come coltivare in tutta sicurezza una passione nobile e redditizia, recita il sottotitolo di questo pamphlet edito da Castelvecchi e atteso in libreria per il prossimo 22 giugno.
Una lettura indispensabile per chi, collezionista o aspirante tale, non voglia vedersi sbriciolare in pochi istanti un investimento che riteneva sicuro o avventurarsi in estenuanti contenziosi legali per difenderne il valore.
«Mi sono deciso a scrivere questo libro – ci conferma Ferrario – perché volevo rompere il muro dell’omertà di un ambiente certamente affascinante ma nel quale bisogna muoversi con circospezione per evitare di rimanerne vittime». Incidenti di percorso in cui possono imbattersi anche avveduti mercanti d’arte come l’autore che, non difettando di autoironia, ci accompagna nel girone infernale in cui operano – spesso nell’ombra e animati da propositi truffaldini – trafficanti senza scrupoli, “esperti” senza alcun background culturale, «capre travestite da esperti», collezionisti più o meno inconsapevoli. Un sottobosco poco raccomandabile che vive e prospera dietro la facciata rispettabile delle gallerie, delle fiere di settore e delle mostre museali e che gli addetti ai lavori sinora non hanno mai portato alla luce.
È quello che ha fatto Ferrario col suo stile corsaro, partendo da un’amara consapevolezza: «Da analfabeta a critico d’arte il passo è breve». Chiunque può improvvisarsi tale e con poche collaudate mosse arrivare a godere dell’autorevolezza necessaria a condizionare il valore di un’opera e l’intero mercato. Sì, perché per poter rilasciare l’expertise – la dichiarazione di autenticità – non occorrono requisiti particolari ma piuttosto un minimo di abile autopromozione. Per iniziare è utile coinvolgere un parente più o meno prossimo dell’artista, ovviamente deceduto, meglio se digiuno d’arte e interessato al facile business. Con lo stesso dare vita a un’associazione culturale dedicata, inscenare qualche piccola mostra, tirar giù un archivio fotografico e annunciare – non necessariamente realizzare – una catalogazione delle opere. In virtù di questa competenza conquistata sul campo, il critico acquisisce il potere di stabilire quali opere di quel determinato artista sono false (anche se fino a quel momento ritenute autentiche) o viceversa di elevare al rango di originali delle evidenti croste. In buona fede, a volte. In cattivissima, altre. Può persino capitare – e il libro di Ferrario è ricco di godibili aneddoti al riguardo – che un quadro venga giudicato falso, acquistato a prezzi stracciati dallo stesso critico che, dopo averlo stroncato, finisce per accorgersi di avere tra le mani un capolavoro. Adducendo giustificazioni risibili: era in pessime condizioni ma dopo la pulitura si è visto che…
Non solo: il rifiuto del collezionista (o gallerista) di prestare un’opera per la mostra organizzata dal critico rancoroso (e disonesto), può costare – per ritorsione – l’esclusione della stessa dal catalogo o, peggio, l’insinuazione che non sia autentica, trasformando il possessore in uno spacciatore di falsi e facendo sì che le opere gli vengano sequestrate senza aver fornito la minima prova. Antipatia, invidia, mero dispetto, tutto è rimesso al capriccio del critico che, da parte sua, in caso di contestazioni e denunce, può sempre trincerarsi dietro all’inattaccabile formula «a mio giudizio» e mettersi così al riparo da eventuali responsabilità penali qualora i tribunali – sia pure con tempi lunghi – si decidano a fare giustizia. Chi sbaglia, pertanto, non paga. A pagare , protesta Ferrario, sono solo gli operatori. Anche quando non dovrebbero, come ad esempio nel caso del famigerato “diritto di seguito”, da poco entrato in vigore in Italia. Per ogni compravendita, a eccezione di quelle tra privati, infatti, una percentuale va riconosciuta agli eredi dell’artista tramite la Siae. «Come se voi – ci spiega Ferrrario – vendeste una casa e ogni volta esercitaste un diritto sulle successive compravendite pur non essendone più proprietarie».
Una legislazione, la nostra, alquanto schizofrenica: se poco o nulla si fa per la tutela dei beni artistici e persino nelle aste pubbliche ci si può imbattere in quadri rubati senza che il compratore sia adeguatamente tutelato, una legge fascista (la 1089 del 1939) ancora stabilisce che le opere d’arte non possano uscire dall’Italia senza che intervenga una valutazione della delegata Sovraintendenza. Trenta giorni di limbo nei quali se ne deciderà il destino: l’opera potrà essere comprata dallo Stato con diritto di prelazione o “notificata”, ovvero ritenuta d’interesse nazionale e come tale sottoposta al controllo statale. Con tanti saluti per il collezionista straniero e per il venditore. «Una legge sconcertante – la definisce Ferrario – che andrebbe superata, per consentire, quanto meno, la libera circolazione dei beni in Europa».
Roberto Alfatti Appetiti
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