Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 3 luglio 2011
Sembrerebbe la cosa più naturale del mondo, che sulla soglia dei sessant'anni un artista di estrazione rock decida di farla finita coi tour. Il dispendio di energia, fisica e psichica, è molto superiore a quello che si deve affrontare in tanti altri ambiti, anche musicali, e il fatto stesso che se ne avverta il peso a tal punto da chiedersi se valga la pena di proseguire a oltranza è un eccellente motivo per fermarsi. Non è questione di decidere se andare avanti oppure no. È questione di avere o non avere ancora dentro di sé quell'insieme di caratteristiche, e di potenzialità, che permettono di portare a termine l'impresa nel modo migliore, senza dover fingere che tutto è come prima, anche adesso che invece non lo è più.
Il desiderio è una cosa. La volontà un'altra. Il desiderio si proietta sugli aspetti gratificanti e sorvola su quelli impegnativi, o tout court faticosi, per non dire estenuanti. La volontà contempla le difficoltà in modo spassionato e le accetta - se le accetta - dalla prima all'ultima, conscia del loro peso e di certi spigoli aguzzi che per quanta attenzione e accortezza ci si metta non c'è modo di evitarli. Il desiderio si bea della visione del palco già montato, e delle luci di scena che si mischiano ai suoni, e del respiro, dell'abbraccio, dell'amore del pubblico. L'amore traboccante di un pubblico che con l'andare degli anni ha imparato a conoscerti e ad apprezzarti-ammirarti-accettarti così tanto e così a fondo che ti ha fatto posto nella propria vita e ora ti considera un amico, un modello, una persona eccezionale che idealmente è sempre al suo fianco. Una figura di riferimento che risplende in un mondo di ombre. Un uomo vero in un magazzino di pupazzi.
Vasco Rossi lo ha annunciato all'improvviso: «Dichiaro felicemente conclusa la mia straordinaria attività, trentennale, di rockstar. Continuerò a scrivere canzoni, magari anche a fare concerti, non è che mi ritiro. Ma a sessant'anni uno non può più fare la rockstar. Questa è la mia ultima tournée». La mancanza di un qualsiasi preavviso, magari sotto forma di qualche frase buttata lì come per caso, ha colto tutti di sorpresa. Ma ha innescato le reazioni più diverse, su un arco che va dallo scetticismo benevolo di chi dà per scontata la buonafede a quello occhiuto di chi ipotizza una trovata pubblicitaria, dalla disperazione affettuosissima dei fan all'indifferenza, o al sarcasmo, dei detrattori.
Qualcuno ha accolto il discorso alla stregua di una sortita occasionale. Non solo estemporanea ma avventata. Una di quelle affermazioni categoriche che capita a tutti di pronunciare in un momento di stanchezza, quando anche il meglio del proprio lavoro è venuto a noia e lo si osserva come un mucchio di denaro ormai finito fuori corso, ma che in realtà è solo uno sfogo passeggero. E del resto si sa: la ponderazione non è la dote precipua delle rockstar e qualunque loro proclama va preso con beneficio d'inventario, nella consapevolezza che nell'universo parallelo e affascinante e anomalo degli artisti, specie se di grande successo, la verità del giorno non equivale mai a un impegno per sempre. L'artista vive di innamoramenti. Gli innamoramenti presuppongono l'intensità. L'intensità, purtroppo, va e viene come capita, senza nessuna logica e nessuna garanzia.
La gran parte dei fan, invece, lo ha preso alla lettera. E ha subito reagito inondando la Rete di parole che mostrano lo stesso legame profondo ma declinato su due direttrici completamente diverse. La stessa comunità che si sdoppia in due reazioni contrapposte, anche se per nulla ostili. Da un lato quelli che dichiarano di comprendere, sia pure a malincuore, le ragioni del loro mito: ha dato tanto e c'è da dirgli grazie comunque, rispettando la sua scelta - o piuttosto il suo bisogno - di abbandonare il ruolo di rockstar in servizio permanente effettivo, quand'anche con lunghe licenze tra una campagna di conquista e l'altra.
Dall'altro, invece, quelli che sono rimasti attoniti e che hanno solo voglia di dire no. E che lo fanno, di slancio, a colpi di messaggi che sono scritti troppo in fretta per essere anche meditati. L'emotività che dilaga e si incanala in qualche frase di senso più o meno compiuto, ma che non si cura di tracciare un ragionamento vero e proprio. C'è un allarme da urlare. C'è un dolore da condividere. C'è qualcosa da fare (cosa?) per evitare che la possibilità si cristallizzi in un dato di fatto. Gli appelli si rincorrono in cerca di un interlocutore in grado di compiere il miracolo e di riportare tutto alla normalità. Forse il diretto interessato: «Vasco non ci lasciare io sto male senza di te». Forse gli altri sostenitori: «Raga' qui ci vuole una raccolta di firme». La community si consolida in una sorta di Stato. Un regno, finora felice, in cui il monarca assoluto, ma adorato dal suo popolo, ha deciso di punto in bianco, e chissà perché, di abdicare. Ritirandosi, quel che è peggio (quel che è davvero insopportabile), in un suo esilio remoto dal quale riemergerà solo occasionalmente.
I sudditi, entusiasti di esserlo, non vogliono saperne. Vasco è il loro re, innalzato al trono da loro stessi, e non hanno nessuna intenzione di perderlo. Perché li rassicura, sapere che con lui c'è un'affinità condivisa e capace di resistere al passare degli anni, un decennio dopo l'altro. Perché Vasco è la dimostrazione vivente, canzone dopo canzone, concerto dopo concerto, che per quanto il mondo circostante faccia schifo lo si può vivere in un altro modo. Con un'integrità sghemba che sopravvive a tutto. Con un orgoglio che ti fa rialzare dopo qualunque sconfitta. In un modo che non è né più sicuro né più tranquillo, ma che è pur sempre migliore.
E quella rassicurazione, però, non basta averla sperimentata già tante volte in precedenza. Bisogna rinnovarla di continuo, e non solo attraverso l'ascolto delle nuove canzoni che verranno. Anche, o soprattutto, nella festa collettiva dei tour. In quell'incontro, sia pure asimmetrico, che riunisce la guida e i seguaci, prima di un nuovo tratto di strada da percorrere da soli.
Federico Zamboni
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