Intervista a cura di Francesco Citarda
Dal Secolo d'Italia del 4 settembre 2011
Negli anni Ottanta lo si poteva incontrare «da Mc Donald's o da Burgy, a Roma, a piazza Barberini», magari a dissertare di Sensible soccer, come lui stesso ha ricordato qualche tempo fa. Vittorio Macioce oggi è caporedattore e editorialista de Il Giornale. La sua passione più profonda è la narrativa anglo-americana, alla pari del calcio e il giornalismo. Ama l'idea di libertà, da sempre. A partire da quegli anni Ottanta che ancora fanno discutere e che, secondo molti, furono il decennio per eccellenza del sogno di libertà e di un atteggiamento ottimistico che oggi sembra venir meno. Ma quali sono le eredità di quel periodo? E la crisi dei giorni nostri è figlia di quegli anni?
Vittorio Macioce cosa faceva negli anni Ottanta?
Ero adolescente, erano gli anni delle scuole medie e del liceo. Ai tempi non mi consideravo un filo-anni Ottanta, né un paninaro. Alla fine di quel decennio le sorti del mondo sembrava dovessero avere migliore esito. C'era un ottimismo progressivo: il peggio era passato con gli anni Settanta. La generazione dei baby boomers aveva avuto il merito di farsi carico delle idee del Novecento e il demerito di bruciarle in piazza. A noi, pensavo allora, a quella che era la nostra generazione, era rimasta solo la cenere.
In che senso?
C'è stato un momento in cui ho capito che ci avevano fregato. Mi sono laureato nel'92 alla Luiss in giornalismo, poi ho fatti uno stage alla Rai, poi venne il periodo del servizio militare. Dopo ci fu la stangata da 90 mila miliardi varata dal governo Amato. Sfumavano tutte le nostre certezze, cadeva definitivamente il mito del posto fisso. Ti accorgi allora degli sprechi degli anni precedenti, dei danni del consociativismo. Il passaggio da lì all'euro, a distanza di dieci anni, fu un salto nel deserto. Ricordo che io venni assunto presso un'azienda nell'ultimo periodo in cui vigeva la lira: con una battuta potrei dire di essere stato benestante per soli sei mesi. Ad ogni modo l'ottimismo degli anni Ottanta voleva cancellare e superare le follie dei Settanta.
Qual è stato il suo approccio a quel decennio?
Ai tempi ero un pioniere della nuova era tecnologica: era il periodo in cui la modernità entrava nella storia. Nel volgere di breve tempo passai dal bigliardino a Pong o Space invaders. Venne il tempo del Commodore 64: in quel momento ebbi la sensazione di essere entrato nella modernità, in un nuova epoca. E penso che quella "rivoluzione tecnologica", in fin dei conti, sia stata l'ultimo colpo di reni del Novecento, lo sforzo finale di un certo processo di creatività e modernizzazione. Il problema è che, poi, il post-Novecento non c'è mai stato.
Colpa della politica?
In qualche modo la crisi italiana di oggi è dovuta a quel che negli anni Ottanta si poteva fare e non è stato fatto. Craxi non ha effettuato una riforma delle pensioni che già allora appariva necessaria. Il Psi si è accontentato: credo che quello sia uno dei maggiori limiti del craxismo, a mio giudizio più grave addirittura rispetto a quanto emerso a margine di Tangentopoli. Il craxismo aveva capito ma non ha fatto nulla, i suoi adepti si sono arresi alla logica imperante e alla staticità di partiti come la Dc e il Pci, partiti vecchi.
Ma in quel decennio la politica aveva ancora una sua centralità rispetto all'economia?
La politica era ancora centrale perché lo Stato aveva un ruolo centrale. Io non sono un nostalgico dell'economia dirigista, non ho creduto alla rivoluzione reaganiana, né ai metodi della Thatcher. Credo che, in tal senso, gli anni Ottanta siano stati la nostra occasione sprecata. Non si aveva paura del futuro, c'era l'idea che il futuro si potesse creare. Trovo quei "computerini" favolosi, c'era una leggerezza di fondo che era decisamente migliore della pesantezza del decennio precedente. Per dirla con una metafora era come viaggiare sull'ippogrifo. L'89, poi, fu l'inizio di una nuova avventura libertaria. Mi aspettavo un futuro non stagnante, un futuro che porta a una maturità, mentre invece ci siamo ritrovati in una palude.
Ecco, allora, che si arriva alla crisi dei giorni nostri?
Personalmente sono stanco di essere un nostalgico degli anni Ottanta, spero che i sogni di quegli anni si realizzino definitivamente. Anche il termine "rivoluzione liberale" è ormai abusato, tirato in ballo da una masnada di persone mai così lontane da un vero modello di liberalismo. Eppure c'è un'Italia vera che un giorno saremo costretti a riscoprire e che mi fa pensare a una frase di Churchill: «Mai tanto dovemmo a così pochi». Qualche anno fa il Censis fece uno studio a riguardo: l'Italia si appoggia su pochi, quelli che lavorano senza chiedere un euro allo Stato. Ci sono storie di agricoltori di vent'anni che si ingegnano per creare qualcosa di nuovo, piccoli imprenditori che vanno avanti con le loro aziende, che faticano contro la crisi ma senza attaccarsi allo Stato. È il sogno della Rivolta di Atlante, per dirla con il titolo di un romanzo di Ayn Rand. Organizzare le cose partendo dal basso.
Intervista a cura di Francesco Citarda
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