Un romanzo che smaschera la schiatta di intellettuali "folgorati" dal mundial '82
Dal Secolo d'Italia del 24 settembre 2011
Dal Secolo d'Italia del 24 settembre 2011
«Io odio ascoltare quegli intellettuali di sinistra che oggi commentano il calcio snocciolando qualche nozione, magari sul grande Torino, e fino a qualche tempo fa snobbavano il calcio, che allora distraeva le masse, si diceva. La sinistra si è accorta tardi del mondo del pallone».
L’intervista che Stefano Ferrio, scrittore vicentino della classe 1956, ha rilasciato a La domenica di Vicenza in occasione dell’uscita del suo recente romanzo, La Partita (Feltrinelli, pp. 205, € 15), non ne ha favorito la migliore delle accoglienze possibili da parte delle redazioni culturali dei quotidiani di sinistra. Chissà quanti potenziali recensori si sono riconosciuti in Nazario Salis, «l’insopportabile cialtrone che, sulle più prestigiose testate progressiste, sproloquiava di Garrincha oppure rimasticava pagine di Gianni Brera avendo l’abilità di variare qualche aggettivo e consecutio. Tanto bastava perché gli fosse riconosciuto un ruolo di inattaccabile firma all’interno del chiassoso panorama culturale geminato a partire dal mondiale vinto in Spagna nel 1982».
L’odioso personaggio tratteggiato da Ferrio, del resto, offre indizi precisi quanto ricorrenti nell’intellighentia di sinistra: «Era diventato docente ordinario accompagnando la propria carriera accademica con ogni sorta di equilibrismo politico e ideologico, squillante adesione di facciata alla sinistra radicale, anche se offuscata da ricorrenti compromessi con un più trasversale establishment culturale ed economico». Percorso in cui è facile identificare i tanti «tromboni» che, in epoche neanche tanto lontane, «istruivano processi ai malati di pallone asserviti alle logiche di mercato della società capitalistica, mentre oggi pontificano impunemente nei salotti sperando di incantare la sciacquetta seduta al loro fianco».
Il j’accuse di Ferrio, scrittore alla terza prova e collaboratore di Gazzettino, Unità e Diario, è affidato alle parole di Beppe Russo, chiamato Il Russo a causa della copia de l’Unità portata sempre sotto il braccio, all’epoca “processato” dal Salis – causa l’assenza a una riunione del Movimento Studentesco per vedere una partita in televisione – e ora collega nella stessa università: «Solo nel 1982 la sinistra italiana aveva scoperto il calcio generando un’insopportabile schiatta di esegeti del pallone – dice Il Russo – pronti a riconoscersi a vicenda un’inesistente autorevolezza, mascherando la loro incurabile e plateale ignoranza su un tema improvvisamente riabilitato. Eppure si trattava dello stesso pallone che quei depositari della cultura rivoluzionaria avevano prima marchiato con il loro inappellabile disprezzo».
Disprezzo riservato allo sport in senso lato, alla letteratura sportiva – considerata con sufficienza perché poco “impegnata” – e persino all’idea di patria, ritenuta tout court fascista salvo poi riscoprirla nel tentativo di cavalcare l’entusiasmo popolare per le vittorie della nazionale.
La Partita, al contrario, è un atto d’amore sincero e non strumentale per il calcio, un racconto corale sul più popolare degli sport, praticato in quei campi di fortuna, polverosi o infangati, in cui migliaia e migliaia di ragazzi di destra e di sinistra hanno giocato la loro vita in attesa di una rivoluzione che sembrava dietro l’angolo e invece non s’è più fatta vedere. Una passione condivisa in barba alle differenze culturali e politiche, anche in anni di forte contrapposizione ideologica e di lotta di classe. La “fotografia” iniziale ritrae i protagonisti sul finire degli anni Settanta sul campetto delle Missioni estive intenti a giocarsi quella che defineranno la Partita Interrotta. Si fronteggiano due gruppi di ventenni: l’Inghilterra capitanata da Il Russo – «un’Inghilterra della provincia veneta, ma non per questo meno Inghilterra di quella vera» – e il Bar Fantasia. Maglie tutte bianche e col numero rosso sulla schiena gli uni e maglie ispirate al Brasile gli avversari, a sottolineare una diversa idea di calcio: fisico e collettivo quello dei primi; narcisistico e strafottente quello dei gialloro in salsa veneta. Divisi da rigidità ideologiche e da evidenti differenze di provenienza sociale, ma anche da motivi più futili: «Vi scoccia da morire che le fighette escano con noi – chiosa Tobia Marchi, capitano del Bar Fantasia – invece che venire ai vostri collettivi di segaioli». Figli del proletariato vs rampolli della borghesia, giovani di sinistra contro coetanei di destra. I primi abituati a perdere, i secondi a vincere. Un «tiro al volo disegnato da Dio», tuttavia, sembra regalare la vittoria all’Inghilterra. Un «tiro a campanile inventato dal diavolo», però, fa perdere la palla tra le steppie: partita sospesa e impegno a rigiocarsela trentatré anni dopo.
Si ritroveranno, sì, ma le appartenenze originarie hanno ceduto il passo ad affinità inattese. C’è chi s’è involgarito, ha fatto qualche compromesso di troppo e ha sacrificato i propri sogni e chi li ha realizzati, chi ha fatto strada, chi s’è perso, chi è morto. Alcuni hanno fatto carriera politica, come Edo Cazzaniga, parlamentare di destra, marito e padre esemplare in pubblico e predatore di facili avventure sessuali in privato. Ma Ferrio non cade nella tentazione di dividere il mondo tra buoni/sinistra e cattivi/destra ed ecco spuntare «il parrucchino vivente» Sinico, «azzimato e logorroico deputato di centrosinistra». Saranno loro due, con disinvolto cinismo bipartisan, a cercare di trasformare quella che doveva essere l’attesa e sognata Partita – «quella che, se va bene, capita una volta nella vita» – in una specie di incontro di riconciliazione da offrire alle telecamere. Quale migliore occasione di visibilità per fare passerella e guadagnarsi qualche primo piano?
Alla politica, invece, ha detto no il capitano del Bar Fantasia, figura centrale del romanzo: «Si fosse presentato quando glielo chiedeva il centrodestra cittadino, nessuno avrebbe dubitato che lo avrebbero eletto». Se nelle prime pagine il giovane «fascista» Tobia Marchi si presenta «troneggiante sopra una marmellata di maglie, fisico forgiato da anni di nuoto agonistico, carnagione olivastra che faceva pensare ad antenanti levantini, regale ciuffo di capelli bruni e ghiaccio puro negli occhi», più avanti lo ritroviamo stimato uomo di legge di cinquantatre anni e di buone letture, intento a leggere Viaggio al termine della notte.
Malgrado abbia appena scoperto di avere un cancro e pur debilitato dalle terapie, non mancherà all’appuntamento con la Partita, anche se la narrazione procede tutt’altro che prevedibilmente e il lettore avrà delle gustose sorprese. Ci sarà un rimescolamento tra formazioni e si ritroveranno dalla stessa parte tutti coloro che vorranno combattere non per una squadra ma per l’idea romantica di un calcio fatto di insonni notti di vigilia, trasferte improbabili e goliardia – in una parola fatto di cameratismo – ben diverso dalla caricatura muscolare e milionaria che vediamo nei campi di serie A. Un calcio che non appartiene alle società sportive ne ai richiamati tromboni, ma – come spiega Il Russo ai suoi compagni – «a milioni di giocatori sconosciuti, infiniti e oscuri portieri che pregano, terzini che picchiano, mediani che sanguinano, laterali che inciampano, centrocampisti che annaspano e attaccanti che non sanno mai come diavolo girarsi verso quella stramaledetta porta. I nostri compagni, in campo e nella vita». Attorno a quest’idea si stringono Tobia Marchi – «che pur restando saldamente uomo di destra, aveva rivisto alcuni principi del proprio credo politico in tema di diritti umani e immigrazione, tanto da aver adottato due bambini di colore» e Il Russo che pure se l’erano date di santa ragione. Non potranno cambiare il mondo, ma almeno non avranno tradito la propria giovinezza.
Roberto Alfatti Appetiti
2 commenti:
m'hai convinto, gran bella recensione. Me lo compro e lo leggo.
Ho appena finito e amato molto La Partita. Mi è piaciuta parecchio anche la tua recensione, decisamente più approfondita e esperta della mia.
Grazie e ciao
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